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Storia
Guerra perpetua - L'Iraq al centro della crisi mondiale.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

L'Iraq al centro della crisi mondiale
Guerra perpetua


Ignacio Ramonet
«History is again on the move» (1) (Arnold J. Toynbee) Si avverte chiaramente, in questa vicenda irachena, che qualcosa di fondamentale è in gioco. Dovunque si vede il balenio dei lampeggianti e si sente scricchiolare l'intera architettura internazionale. L'Onu è a pezzi, l'Unione europea è divisa, la Nato spaccata... Convinti ormai che la macchina sforna-tragedie stia rimettendosi in moto, dieci milioni di persone hanno protestato nelle vie e sulle piazze delle città del mondo intero. Perché non accettano di veder tornare la brutalità nella politica internazionale, con il suo carico d'odio, di passioni e di violenze estreme.
Questi timori collettivi si esprimono in una serie di angoscianti domande: perché questa guerra contro l'Iraq? Perché proprio ora?
Quali sono i veri disegni perseguiti dagli Stati uniti? Perché la Francia e la Germania vi si oppongono con tanta energia? Per quali aspetti questo conflitto è rivelatore di un nuovo corso in materia di politica estera? Quali cambiamenti preannuncia nei grandi equilibri mondiali?
Sono in troppi a pensare che le vere ragioni di questa guerra restano enigmatiche. Con tutta la migliore volontà, esaminando i documenti presentati da Washington non si può che rimanere scettici. Le autorità americane non sono riuscite a convincere che questa guerra sia necessaria.
E la martellante insistenza con cui avanzano giustificazioni miserande non fa che aggravare i dubbi dell'opinione pubblica internazionale.
Quali gli argomenti ufficiali? Sono in numero di sette, riportati in un rapporto dal titolo «Un decennio di menzogne e di sfide», presentato dal presidente George W. Bush il 12 settembre 2002 davanti al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Questo testo di 22 pagine elenca tre principali accuse: il mancato rispetto di 16 risoluzioni delle Nazioni unite; il possesso, o il tentativo di dotarsi di armi di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche e missili balistici); e infine una serie di violazioni dei diritti umani (torture, stupri, esecuzioni sommarie).
Altre quattro accuse riguardano il terrorismo (si sostiene che Baghdad offra rifugio ad organizzazioni palestinesi e risarcisca con 25.000 dollari ognuna delle famiglie di autori di attentati suicidi contro Israele); i prigionieri di guerra (tra cui un pilota americano); i beni confiscati durante l'invasione del Kuwait (opere d'arte e materiale bellico) e l'uso distorto del programma «petrolio in cambio di cibo». Tutte queste accuse hanno indotto il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a votare all'unanimità, l'8 novembre 2002, la risoluzione 1441, in base alla quale è stato istituito «un regime rafforzato di ispezioni, finalizzato a portare a termine il processo di disarmo in maniera completa e verificata».
Ma queste accuse sono davvero tali da indurre tutti i paesi a considerare l'Iraq come il problema mondiale numero uno? E come la più orrenda minaccia per l'umanità? In definitiva, sono sufficienti a giustificare una guerra su vasta scala?
A queste tre domande, gli Stati uniti e alcuni dei loro amici (Regno unito, Australia, Spagna...) rispondono affermativamente. Senza attendere il via libera di una qualunque istanza internazionale, le autorità di Washington hanno già dispiegato ai confini dell'Iraq imponenti forze militari: più di 200.000 uomini dotati di mezzi di una colossale potenza distruttiva.
Ma a queste stesse domande, altri paesi occidentali (la Francia, la Germania, il Belgio) e un parte importante dell'opinione pubblica internazionale rispondono con un triplice «no». Pur riconoscendo la gravità delle accuse, giudicano che gli stessi comportamenti - mancato rispetto delle risoluzioni dell'Onu, violazioni dei diritti della persona, possesso di armi di distruzione di massa) possono essere imputati ad altri Stati del mondo, a incominciare dal Pakistan e da Israele, stretti alleati degli Stati uniti, ai quali nessuno pensa di fare la guerra. E osservano inoltre che Washington mantiene il silenzio su molte altre dittature amiche degli Stati uniti - l'Arabia saudita, l'Egitto (3), la Tunisia, il Pakistan, il Turkmenistan, l'Uzbekistan, la Guinea equatoriale - che calpestano i diritti umani.
D'altra parte, ritengono che il regime iracheno, sottoposto da dodici anni a un embargo devastante, alla limitazione della propria sovranità aerea e a una sorveglianza permanente, non sembra costituire una minaccia imminente per i suoi vicini. Infine, per quanto riguarda l'interminabile ricerca di armi introvabili, molti sono portati a pensare, come Confucio, che «non si può acchiappare un gatto nero in una stanza buia, soprattutto quando il gatto non c'è». Considerando inoltre i costanti progressi degli ispettori della Commissione di controllo, verifica e ispezione delle Nazioni unite (Unmovic ) guidata dal diplomatico svedese Han Blix, e dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aeia), con a capo l'esperto egiziano Mohamed El Baradei, attestati dalle relazioni presentate davanti al Consiglio di sicurezza, ritengono che per questa via si dovrebbe poter raggiungere l'obiettivo di disarmare l'Iraq senza dover ricorrere alla guerra.
Per aver fatto suo questo ragionamento ispirato al buon senso, e per averlo saputo esprimere con fermezza per bocca del suo ministro degli esteri, Dominique de Villepin, davanti alle Nazioni unite, il presidente francese Jacques Chirac incarna la resistenza di fronte allo strapotere americano, agli occhi di coloro che in tutto il mondo si oppongono a questa guerra. È certo un abito un po' fuori misura per lui; ma innegabilmente, il presidente della Repubblica francese si è conquistato in poche settimane una popolarità internazionale che pochi leader francesi hanno conosciuto in passato. Forse, come il personaggio del generale Della Rovere nel celebre film di Roberto Rossellini (4), Chirac si è ritrovato per caso in questo ruolo di resistente, ma non si può non constatare che se ne sta assumendo la missione.
Dal canto suo, l'amministrazione americana non riesce ad essere convincente nei suoi tentativi di giustificare questa guerra. Rimane esposta al veto francese, e ha subìto, uno dopo l'altro, due disastri diplomatici al Consiglio di sicurezza: il primo il 4 febbraio, con il flop delle «prove» esibite contro l'Iraq da Colin Powell, l'altro il 14 febbraio, quando gli ispettori hanno presentato un rapporto piuttosto positivo, e Hans Blix ha dichiarato infondate alcune di quelle «prove». Lo stesso giorno, Dominique de Villepin ha affermato: «Dieci giorni fa, Colin Powell ha parlato di supposti collegamenti tra al Qaeda e il regime di Baghdad. Allo stato attuale delle nostre informazioni e in base alle ricerche condotte in collaborazione con i nostri alleati, nulla consente di stabilire collegamenti del genere». Ora, l'individuazione di legami tra la rete di bin Laden e il regime di Saddam Hussein è decisiva per giustificare questo conflitto, in particolare agli occhi dell'opinione pubblica americana, tuttora traumatizzata dagli odiosi attentati dell'11 settembre 2001.
Se dunque tanti cittadini si mobilitano ovunque contro la guerra, è proprio perché non sembra giustificata da nessun argomento verificabile.
Occorre quindi interrogarsi sulle vere motivazioni degli Stati uniti.
Possiamo citarne almeno tre.
In primo luogo, la preoccupazione, divenuta ossessiva dopo l'11 settembre 2001, di impedire che un qualsiasi «stato canaglia» possa collegarsi al «terrorismo internazionale». Fin dal 1997 William Cohen, segretario alla difesa del presidente Clinton, aveva dichiarato: «Esiste la possibilità che attori regionali, formazioni armate del terzo tipo, gruppi terroristici e persino sette religiose cerchino di conseguire un potere sproporzionato attraverso l'acquisto e l'uso di armi di distruzione di massa (5)». Difatti, in un comunicato diffuso l'11 gennaio 1999, bin Laden ha confermato che si tratta di una possibilità reale: «Non considero un crimine cercare di acquisire armi nucleari, chimiche e biologiche (6)». George W. Bush ha riconosciuto che questa eventualità lo ossessiona: «Il nostro timore è che i terroristi possano trovare uno stato fuorilegge in grado di procurare loro le tecnologie per uccidere (7)».
Questo «Stato fuorilegge», nella mente del presidente degli Stati uniti, altro non è che l'Iraq. Da qui la teoria della «guerra preventiva», definita il 20 settembre 2002 (8) e così riassunta dall'ex direttore della Cia James Woolsey: «La nuova dottrina nata da questa battaglia asimmetrica contro il terrore è quella della "dissuasione anticipata" o "guerra preventiva". Dato che i terroristi hanno sempre il vantaggio di attaccare segretamente, dovunque e in qualunque momento, l'unico modo per difendersi è sorprenderli adesso, dovunque si trovino e prima che possano essere in grado di organizzare il loro attacco (9)». Beninteso, ciò non richiederebbe nessuna autorizzazione delle Nazioni unite.
La seconda motivazione, inconfessata, è il controllo del Golfo arabo-persico e delle sue risorse di idrocarburi. Oltre due terzi delle riserve mondiali di petrolio conosciute sono concentrate nel sottosuolo degli stati situati sulle rive del Golfo: l'Iran, l'Iraq, il Kuwait, l'Arabia saudita, il Qatar e gli Emirati arabi uniti. Per i paesi sviluppati, e soprattutto per gli Stati uniti, grandi dilapidatori di energia, questa regione gioca un ruolo cruciale, in quanto detiene una delle chiavi fondamentali della loro crescita e del loro modello di vita.
Ogni intervento contro uno dei paesi del Golfo è dunque considerato come una minaccia agli «interessi vitali» degli Stati uniti. Fin dal 1980, nel suo discorso sullo stato dell'Unione, il presidente James Carter, premio Nobel per la pace nel 2002, aveva definito la dottrina americana per quella regione: «Ogni tentativo, da parte di qualsivoglia potenza estera, di assumere il controllo della regione del Golfo persico sarà considerato un attacco contro gli interessi vitali degli Stati uniti. Ogni attacco del genere sarà respinto con tutti i mezzi necessari, compresi quelli militari (10)».
La regione del Golfo, che dalla fine della prima guerra mondiale e lo smantellamento dell'impero Ottomano era controllata dai britannici, dopo il 1945 ha visto crescere l'influenza americana. Ma due importanti paesi sono sfuggiti al dominio di Washington: l'Iran, in seguito alla rivoluzione islamica del 1979, e l'Iraq, dopo l'invasione del Kuwait del 1990. La stessa Arabia saudita è divenuta sospetta dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, in ragione dei suoi collegamenti con l'islamismo militante e degli aiuti finanziari che al Qaeda avrebbe ricevuto da alcuni sauditi. A Washington si considera che l'America non può permettersi di perdere una terza pedina sullo scacchiere del Golfo, soprattutto trattandosi di un paese importante quale l'Arabia saudita. Da qui la tentazione di occupare con un pretesto l'Iraq e riprendere così il controllo della regione.
Al di là dei problemi di carattere militare, sarà tutt'altro che facile per le forze d'occupazione americane amministrare un Iraq liberato da Saddam Hussein. Quando ancora era lucido, Colin Powell aveva misurato l'impresa in tutta la sua inestricabile difficoltà: «Pur disprezzando Saddam per tutto ciò che aveva fatto, gli Stati uniti non avevano alcuna voglia di distruggere il suo paese. Nel corso degli ultimi dieci anni il nostro grande rivale in Medioriente era stato l'Iran e non l'Iraq. Noi volevamo che l'Iraq continuasse a fare da contrappeso all'Iran. L'Arabia saudita non voleva che gli sciiti si impadronissero del potere al sud dell'Iraq. I turchi non volevano che al nord i kurdi attuassero una secessione con il resto dell'Iraq (...) Gli stati arabi non volevano che l'Iraq fosse invaso e smembrato. (...) Un Iraq diviso tra le fazioni sunnita, sciita e kurda non avrebbe contribuito a quella stabilità che noi volevamo in Medioriente. Per evitare quel rischio, il solo mezzo sarebbe stato la conquista e l'occupazione di quella lontana nazione di venti milioni di abitanti. Non penso però che fosse questo il desiderio degli americani (11)». Oggi però, a desiderarlo è il presidente Bush...
La terza, inconfessata motivazione di questa guerra è l'affermazione dell'egemonia Usa nel mondo. Da tempo la squadra di ideologi di George W. Bush (Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Perle) ha teorizzato questa scalata degli Stati uniti verso la potenza imperiale (si legga alle pagine 6 e 7). Sono quegli stessi che si erano riuniti attorno al presidente Bush padre alla fine degli anni 1980. All'indomani della guerra fredda, e al contrario degli strateghi che postulavano un ridimensionamento dell'apparato militare, questo gruppo premeva per una riorganizzazione delle forze armate e per il ricorso a oltranza alle nuove tecnologie, al fine di ridare alla guerra il suo carattere di strumento della politica estera.
All'epoca, racconta un testimone, «la sindrome del Vietnam era ancora ben viva. I militari volevano che il ricorso alla forza fosse condizionato all'accordo di tutti, cosa che in pratica avrebbe reso necessario un referendum nazionale prima di un intervento armato. In queste condizioni, una dichiarazione di guerra sarebbe stata impossibile senza un evento catalizzatore, come lo era stato l'attacco a Pearl Harbour (12)». Eppure nel dicembre 1999 quel gruppo di falchi, già allora coadiuvato da Colin Powell, riuscì a organizzare, senza l'accordo del Congresso né quello delle Nazioni unite, l'invasione del Panama (più di 1.000 morti) e il rovesciamento del generale Noriega.
Gli stessi uomini hanno poi condotto la guerra del Golfo, nel corso della quale le forze armate degli Stati uniti diedero al mondo una dimostrazione sbalorditiva della loro iperpotenza militare. Tornati al potere nel gennaio 2001, questi ideologi hanno visto negli attentati dell'11 settembre «l'evento catalizzatore» da lungo tempo atteso. A questo punto, più nulla poteva frenarli. Con il Patriot Act hanno fornito ai pubblici poteri un temibile strumento liberticida; hanno promesso di «sterminare i terroristi», formulato la teoria della «guerra globale contro il terrorismo internazionale», conquistato l'Afghanistan e rovesciato il regime dei taliban. E infine, hanno definito la dottrina della «guerra preventiva» per giustificare, a forza di propaganda e di inquinamento dei media, questa guerra contro l'Iraq. I falchi insistono perché Washington si concentri su quelli che in tempi di globalizzazione liberista sono i veri centri di potere: il G7, l'Fmi, il Wto, la Banca mondiale. E puntano a una graduale uscita degli Stati uniti dal quadro politico multilaterale. Per questo hanno spinto il presidente Bush a denunciare il protocollo di Kyoto sull'effetto serra, il trattato Abm sui missili balistici, il trattato istitutivo di una Corte penale internazionale e quello sulle mine antiuomo, il protocollo sulle armi biologiche, l'accordo sulle armi di piccolo calibro, il trattato sulla messa al bando totale delle armi nucleari e persino la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, in relazione ai detenuti del campo di Guantanamo. Il prossimo passo rischia di essere quello del rifiuto dell'arbitrato del Consiglio di sicurezza. Una minaccia mortale per il sistema delle Nazioni unite.
Così, un pezzo alla volta, sempre in nome di grandi ideali - libertà, democrazia, libero scambio, civiltà - queste ideologie procedono alla trasformazione degli Stati uniti in uno stato militare di tipo nuovo. E fanno propria l'ambizione di tutti gli imperi: cambiare il mondo, ridisegnare i confini, controllare le popolazioni.
È l'esatta riproduzione dei comportamenti di tutti i colonialisti del passato. I quali, come ricorda lo storico Douglas Porch, «pensavano che la diffusione dei commerci, della scienza e dell'efficienza amministrativa dell'Occidente potesse servire ad estendere sempre più i confini del mondo civile e a ridurre le aree di conflitto. L'imperialismo avrebbe volto la povertà in prosperità, redento i selvaggi, fugato con la luce le tenebre della superstizione e instaurato l'ordine dove prima regnavano confusione e barbarie (13)». Per evitare questa desolante deriva e in nome di una certa idea dell'Unione europea (14), la Francia e la Germania hanno scelto di fare da contrappeso - ma senza ostilità - agli Stati uniti in seno all'Onu. «Siamo convinti - ha affermato Dominique de Villepin - che il mondo deve essere multipolare; una sola potenza non può assicurare l'ordine mondiale (15)».
Quello che si va delineando è un nuovo mondo bipolare, il cui secondo polo potrebbe essere costituito dall'Unione europea, qualora sia capace di aggregarsi, oppure da un'inedita alleanza Parigi-Berlino-Mosca.
È un passo storico che sta infine facendo uscire l'Europa da sessant'anni di paure, portandola a riscoprire la volontà politica. Un passo tanto audace da sottolineare, per contrasto, l'atteggiamento pusillanime di alcuni paesi europei (Regno unito, Spagna, Italia, Polonia) per troppo tempo ridotti al ruolo di vassalli.
Gli Stati uniti stavano incominciando ad accomodarsi nel comfort di un mondo unipolare, dominato dalla forza del loro apparato militare.
La guerra contro l'Iraq dovrebbe servire a dare una dimostrazione del loro nuovo potere imperiale. La Francia e la Germania si sono fatte carico di ricordare loro che i fattori decisivi della potenza sono quattro: la politica, l'ideologia, l'economia e l'apparato militare.
La globalizzazione era riuscita ad accreditare l'idea che i soli fattori fondamentali fossero ormai l'ideologia (liberista) e l'economia, e che la politica e la forza militare fossero divenute secondarie.
Ma era un errore. Nell'incipiente riorganizzazione del mondo gli Stati uniti privilegiano oramai il militare. La Francia e la Germania, il politico. Per affrontare i problemi che attanagliano l'umanità, scommettono sulla pace perpetua.
Mentre il presidente Bush e i suoi puntano sulla guerra perpetua...

note:


(1) «La storia è di nuovo in marcia».

(2) Questo rapporto non stabiliva alcun collegamento tra Baghdad e la rete al Qaeda di Osama bin Laden, come ha fatto invece Colin Powell nella sua relazione del 4 febbraio all'Onu.

(3) Da oltre vent'anni l'Egitto, che riceve ogni anno circa 3 miliardi di dollari di aiuti dagli Stati uniti (poco meno di quelli riservati a Israele), vieta qualsiasi manifestazione di piazza; l'opposizione è ferocemente repressa (i detenuti politici sono più di 20.000...), gli omosessuali subiscono pene durissime. Il generale Hosni Mubarak, al potere di 22 anni, si prepara a trasmettere la presidenza a suo figlio... Eppure, i grandi media americani e francesi descrivono questa dittatura come un «regime moderato», e il dittatore è considerato un personaggio del tutto frequentabile...

(4) Ne Il generale Della Rovere (1959), Roberto Rossellini racconta la vicenda di un truffatore (interpretato da Vittorio De Sica) che viene convinto dagli occupanti nazisti a farsi passare per il generale Della Rovere, uno dei capi della Resistenza, per scoprire l'identità dei partigiani. Ma a poco a poco finisce per identificarsi col suo ruolo, tanto da diventare un vero resistente e morire da eroe.

(5) Citato da Barthélémy Courmont e Darko Ribnikar in Les guerres asymmétriques, PUF, Parigi, 2002, p. 228.

(6) Ibid.

(7) Discorso davanti all'Assemblea generale delle Nazioni unite, 12 settembre 2002.

(8) Si legga Paul-Marie de La Gorce, «La guerra preventiva, un pericoloso concetto strategico», Le monde diplomatique/il manifesto, settembre 2002.

(9) El País, Madrid, 3 agosto 2002.

(10) Citato da Bob Woodward in Chefs de guerre, Calman-Lévy, Parigi, p. 226.

(11) Colin Powell, Un enfant du Bronx, Odile Jacob, Parigi, 1995, p. 414 e p. 452.

(12) Bob Woodward, Chefs de guerre, op. cit., p. 226
(13) Douglas Porch, Les Guerres des empires, Autrement, Parigi, 2002, p. 16.

(14) Si legga Robert Kagan, «Power and Weakness», Policy Review, n° 113, giugno-luglio 2002. Si legga inoltre Graham E. Fuller, «Old Europe - or old America?», International Herald Tribune, Parigi, 12 febbraio 2003.

(15) Le Journal du Dimanche, Parigi, 16 febbraio 2003 (Traduzione di E. H.)


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Marzo-2003/0303lm02.01.html



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