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La lunga attesa dimenticata dei Sahrawi Un articolo di Tom Benetollo, presidente nazionale Arci Nuova Associazione

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Utilità e strumenti

Abstract:

La lunga attesa dimenticata dei Sahrawi

L'Unità
Tom Benetollo,

Il vento che spazza con le sue tempeste di sabbia i campi sahrawi intorno a Tindouf nel sud-ovest dell'Algeria, non spegne la determinazione del Polisario: Il Fronte Popular de Liberacion para Saquiet el-Hamra y Rio De Oro dal 1973 si batte contro l'occupazione, mai riconosciuta ed anzi condannata dalle Nazioni unite, che il Marocco ha operato quanto la Spagna, nel 1975, decise di abbandonare la sua colonia. Stiamo parlando di un territorio grande come l'Italia continentale, tra i primi produttori di fosfati, la cui costa è tra le più pescose del mondo. Si tratta di un'area strategicamente importante, a sud del Marocco, un vero e proprio ponte verso il Golfo di Guinea, e spiaggia naturale dell'Africa sahariana.
I Sahrawi hanno organizzato il proprio Stato. Si chiama Rasd: La Repubblica Araba Sahrawi Democratica, riconosciuta da un'ottantina di Paesi, e fa parte dell'Oua, l'Organizzazione per l'Unità Africana, mentre il Marocco no. Il suo territorio è nelle zone liberate in una lunga e durissima guerra (un terzo del Sahara occidentale) e nell'area attorno a Tindouf, che l'Algeria ha praticamente affidato al Polisario. Il presidente della Rasd, Abdel Aziz, è deciso:
il referendum sull'autodeterminazione, previsto dall'accordo di pace sottoscritto nel 1988 da Marocco e Polisario, e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu ancora nel 1991, s'ha da fare. Un referendum che, previsto per il 1992, è rimasto un sogno per il boicottaggio del Marocco. Abdel Aziz racconta le sofferenze della sua gente. la fuga dai luoghi d'origine, sotto le bombe. La permanenza da un quarto di secolo - in campi profughi dislocati in zone inospitali, senz'acqua, con temperature tremende. La guerra delle Land Rover, con il Polisario all'attacco in Mauritania (anch'essa, all'inizio, ha occupato un pezzo di territorio sahrawi, fino a quando non è stata sconfitta) e nel Marocco meridionale. Tempi lontani. Abdel Aziz riassume così la situazione di oggi: "Abbiamo ottenuto il riconoscimento che volevamo. La strada iniziata nel 1965 - quando per la prima volta l'Onu riconobbe il diritto all'autodeterminazione sahrawi - è a un bivio. La missione dell'Onu (Minurso) ha concluso l'identificazione del corpo elettorale. E' tempo di andare al referendum. Non accetteremo rinvii. Non accetteremo atti che suonino come una campana a morto per il referendum. A fronte degli 87mila cittadini sahrawi accertati, la parte marocchina ha presentato più del doppio di ricorsi. Non si può andare avanti così. Se non ci sarà un chiaro impegno, non escludiamo neppure la ripresa della lotta armata". C'è da crederci che lo farebbero. I sahrawi hanno conquistato la fama di essere gente di parola. L'hanno mantenuta, quando promisero di non usare mai l'arma del terrorismo, classico strumento di propaganda delle cause dimenticate, nascoste. L'hanno mantenuta nel lungo "cessate il fuoco". Potrebbero mantenerla di nuovo. E vero che l'esercito marocchino, con i suoi 150 mila uomini, è dieci volte più potente delle forze del Polisario. Ma Brahimn Ahmned Malunud, che comanda il Secondo Corpo militare sahrawi qui a Tifariti, 350 km di deserto, a ovest di Tindouf, postazione avanzata davanti alle linee marocchine, non appare preoccupato. "Noi sahrawi, dice, siamo motivati, conosciamo il terreno, resistiamo a climi pazzeschi. I soldati marocchini no. Basta leggere le lettere dei prigionieri che abbiamo fatto. E che rilasciamo. La settimana scorsa ne abbiamo liberati 185. Senza contropartite. Come segno di buona volontà".
Passando a fianco di un jet marocchino abbattuto, un F5 di produzione americana, Mahmnud mi dice che la parte del Sahara occidentale sotto occupazione è vulnerabile: "Intanto, ci sono i nostri compatrioti al di là del Muro, che agiscono per l'indipendenza. La repressione brutale in atto in questi mesi testimonia che il movimento cresce. E poi il Muro stesso non è affatto imprendibile. Lo abbiamo dimostrato molte volte". Già, il Muro. Molti nemmeno lo sanno, ma qui davanti a noi, per quasi 2500 km, dalla metà degli anni '80, grazie ai soldi della Francia, degli Usa e di altri, si è elevata una fortificazione alta sei metri, piena di radar e sensori, con un fortino ogni trecento metri.. Si chiama, semplicemente, il Muro. Come quello di Berlino, come la Cortina di ferro. C'è sapore di vecchie cose di pessimo giusto: vedi alla voce colonialismo. Descrivendo questa realtà così platealmente ingiusta; per la violazione di qualsivoglia regola e legge, sembra di tornare indietro nel tempo. E invece è il presente.
Penso ai miei amici marocchini, che mi invitano a non schematizzare. A capire quanto è difficile per il giovane, mediatico, moderno re Mohammed VI accettare un referendum in cui la sconfitta marocchina è già scritta. Si tratterebbe di un viatico pesante, di un colpo all'immagine. Ma penso anche qualcos'altro: che non si deve far gravare questo problema su un popolo, quello sahrawi, che vive in condizioni francamente inumane. Tanto più che l'Onu questo referendum l'ha deciso con Hassan II. E' stato lui a sottoscrivere l'accordo di pace. Allora, perché attendere? Ho sentito mille volte, nei piani alti della diplomazia, dire con aria complice: sappiamo bene che il referendum non si farà. Ho sempre chiesto: qual' è l'alternativa? Forse la cosiddetta "larga autonomia" del Sahara occidentale, sotto la sovranità marocchina? Complimenti per il realismo: questa ipotesi è sdegnosamente respinta dalla generalità dei Sahrawi, dal presidente Abdel Aziz fino all'ultimo pastore, tutte le verifiche incrociate, di noi operatori della solidarietà, di osservatori Onu, di analisti, lo dicono chiaramente. Né l'Algeria, alleata del Polisario, ha interesse ad accettare una simile soluzione, che sentirebbe come una sconfitta. Questo nodo sarebbe sciolto da un atto di "libera scelta": o l'annessione al Marocco, o l'indipendenza. Questo è il quesito referendario. Sarebbe una dimostrazione di dignità, di forza, di fiducia di sé, per il Marocco, decidere di affrontare questo problema così gravoso. Sì, gravoso per l'economia (le spese militari sono gigantesche: solo la manutenzione del Muro costa mille miliardi l'anno) e gravoso per l'immagine internazionale del Paese: chi lede il diritto internazionale ha poche possibilità di entrare nei salotti buoni. L'Unione Europea, alla quale guarda il Marocco, sarà irraggiungibile con questa ferita aperta, come non manca di rimarcare l'Algeria, paese chiave nelle relazioni mediterranee. Si capisce allora perché Abdel non sia in fondo pessimista.. "Conto molto sull'Italia. C'è bisogno di una forte azione del governo, D'Alema conosce la nostra situazione. Come la conoscono centinaia di Comuni, che praticano la solidarietà con i nostri figli (ospitando migliaia di bambini sahrawi), tanti parlamentari di tutti i partiti e le associazioni della società civile". Lo informo che il 28 marzo a Roma faremo un incontro dove rappresentanti di tutti i principali partiti prenderanno posizione per il referendum "E' importante un'altra cosa. Presto il re del Marocco sarà in visita in Italia (nei giorni 11 e 12 aprile). Rivolgo un appello al governo italiano: di insistere per il referendum, in nome della legalità internazionale, in nome dell'Onu. Il diritto non deve valere solo in alcune regioni del mondo, e in tante altre no. Un paragone? penso a Timor Est, Khofi Annan segretario generale dell'Onu, ha fatto filtrare un suggerimento. L'ho raccolto come lo racconto:Timor Est ha avuto la fortuna di trovare un paese sostenitore: l'Australia." Dico ad Abdel Aziz che forse l'Italia potrebbe fare la parte dell'Australia, per i sahrawi. "Magari", è la risposta. La risposta di un uomo che sente la responsabilità di portare a compimento una missione. Abdel Aziz non c'entra affatto con l'immagine stereotipata del leader terzomondista, aggressivo e virulento, talvolta propagandata maldestramente. Con saggezza e fermezza, questo presidente del deserto, ferito in battaglia, e con una lunga lista di sofferenze private, non trasmette rancore. Spera anzi in un futuro di cooperazione con il Marocco e gli altri paesi dell'area. Parla della Rasd di domani come di "un paese pluralista, tollerante, pacifico.

 

22.01.2002



http://www.arci.it/news.php?id=537



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