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Educazione linguistica Italiano
*LA FRAGILITA' DEL BENE IN PRIMO LEVI.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

LA FRAGILITA' DEL BENE IN PRIMO LEVI
(Articolo di Betül Arci Biffoni, tratto dalle pagine 73-93 del n.110 del periodico quadrimestrale di cultura "PROBLEMI" edito dalla Palumbo nel Gennaio-Aprile 1998)

 Primo Levi pubblicava, nell'aprile 1986 per i tipi della Einaudi, il saggio "I sommersi e i salvati", ritornando su quanto aveva scritto nel cap. IX di "Se questo è un uomo"(1), il cui rimando è chiaramente licitato dallo stesso titolo. É stato l'ultimo saggio importante dello scrittore prima della sua scomparsa, avvenuta l'11 aprile dell'anno seguente; ma l'ovvia valutazione di un testamento spirituale non è solamente legata, come vedremo, a tale coincidenza. È tuttavia opportuno ricordare che nella prefazione, apposta nell'ottobre del 1986 ad una raccolta di racconti e saggi editi da La Stampa, Levi scriveva:

Prego il lettore di non andare in cerca di messaggi. É un termine che detesto perché mi mette in crisi, perché mi pone addosso panni che non sono miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente. Tale non sono; sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù ....

Se da una parte si riconosce, in queste parole, l'umiltà intellettuale quale tratto distintivo della sua personalità, dall'altra l'allusione all'esperienza di Auschwitz ritorna centrale nella sua riflessione, su cui appunto il saggio (oggetto del mio intervento) si sofferma a lungo in termini alquanto significativi. Ma entriamo in medias res.

Già nel 1946 - nel cap. IX succitato - Levi scriveva che, se nessuna esperienza umana è vuota di senso e indegna di analisi, il Lager è stato una gigantesca esperienza biologica e sociale, il cui significato risiede nel fatto che esso rappresenta quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita. Le condizioni per l'esperimento - sulla cui progettazione sono confluiti, in lucida combinazione, impegno tecnologico, fanatismo e crudeltà - erano le seguenti: migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, chiusi tra fili spinati,sottoposti a disagi fisici assillanti e ad un regime di vita costante, controllabile, inferiore a tutti i bisogni. E se la conclusione fondata su stereotipi classici porterebbe a vedere nello Häftling (= prigioniero del Lager) un individuo in cui affiorerebbe la natura brutale, egoista, stolta e senza inibizioni dell'uomo, Levi insiste invece sulla considerazione che in tali condizioni molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio. Di fatto, scrive, si produce uno spietato processo di selezione naturale, che porta all'individuazione di due categorie di internati: i sommersi e i salvati.

Chi erano i sommersi? Nel Lager venivano chiamati Müselmänner (per la fasciatura alla testa che sembrava un turbante? per il fatalismo che li connotava?): erano i deboli, gli inetti, i votati inesorabilmente alla selezione; tutti coloro che eseguivano alla lettera gli ordini ricevuti, che mangiavano soltanto la razione loro assegnata, che si attenevano ferreamente alla disciplina del lavoro e del campo, senza aver avuto il tempo di adeguarsi né la capacità di lottare; che avevano già perduto, settimane o mesi prima di spegnersi, la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi.

D'altra parte sopravvivere in Lager senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi esseri superiori, della stoffa dei santi e dei martiri. Di regola, però, a sopravvivere erano i peggiori; i migliori sono morti tutti. E sono morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore (v. SoSa p.64). Così, ad esempio, Chajim, pio orologiaio di Cracovia, suo mentore nei primi giorni da Zugang (nuovo arrivato), con cui divise il letto: l'aver tradotto la sua competenza artigianale in meccanica di precisione gli consentiva di mantenere una dignità e la sicurezza di sé che nascono dall'esercitare un'arte per cui si è preparati (v. SQU p.41); così il contadino ungherese Szabò, alto e grosso, generoso di aiuto verso i compagni, ma anche inesorabilmente il più affamato; così Baruch lo scaricatore di porto, incapace di subire senza reagire i colpi provocatori delle SS; così il prof. Robert della Sorbona, che emanava coraggio e fiducia intorno a sé.

Salvarsi comporta ben altre scelte comportamentali ("Il male conosce il bene, il bene non conosce il male" scrive Kafka in "Conversazioni con Janos"): innanzitutto occorre lottare ogni giorno, indefettibilmente, contro la fame, la fatica, il freddo e soprattutto l'inerzia che deriva da queste sensazioni; occorre resistere ai nemici, ma anche rafforzare la propria capacità di pazienza, tendere la volontà, aguzzare l'ingegno e non avere pietà per i rivali, perché la lotta senza remissione per la sopravvivenza comporta anche una somma non piccola di aberrazioni e di compromessi.

Ne discende che il termine salvati contenga in sé un carattere aspramente ironico, certamente un giudizio morale non positivo. Ne abbiamo una riprova là (v. SQU p.116) ove Levi racconta che il vecchio ebreo Kuhn si è salvato da una periodica selezione dei prigionieri destinati alla camera a gas. Dimentico del destino dei suoi compagni, dimentico dell'aberrazione umana appena compiuta, questo salvato prega ad alta voce il suo Dio ringraziandolo di non essere stato scelto. Spietato ci appare il commento di Levi:

Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere di fare, potrà risanare mai più?

Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.

Un tale concezione di Dio appare omologa a quella proposta, in "Il concetto di Dio dopo Auschwitz" (Genova 1991), da Hans Jonas che riconosce una responsabilità dell'uomo in ciò che avviene nella natura, perché ad Auschwitz il Dio bontà infinita, onnipotente e comprensibile da parte dell'uomo, ha rivelato la sua radicale impotenza nei confronti del male.

Ciò che Jonas vuol tradurre nel linguaggio concettuale filosofico di quanto avvenuto ad Auschwitz è un'amara verità: solo se l'uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, saprà costruire se stesso ad immagine e somiglianza della bontà infinita di Dio, l'umanità potrà salvarsi dalla propria responsabilità nei confronti del male. Infatti Auschwitz chiama in causa Dio, ci obbliga a ripensarlo in maniera radicale, a penetrarne il mistero, lasciandocene cogliere un aspetto (la sua impotenza o non volontà di intervenire sul Male) che solo l'inaudita provocazione della sua bontà assoluta, perpetrata dalla shoàh, poteva rendere chiara. Nell'impossibilità di intervento, da parte di Dio, nella storia del mondo vi è quindi la dannazione della libertà umana di optare per un comportamento etico o meno.

Nel cap. IX di SQU Levi propone quattro tipologie di salvati: il sellaio galiziano Schepschel, non particolarmente robusto né coraggioso né astuto, ma dotato di umile ed elementare volontà di vita che si traduce in espedienti spiccioli e saltuari per non soccombere, fino a far condannare un compagno, se necessario, per trarne un vantaggio. Il cinquantenne ingegnere Alfred L., incapace di pietà sia per gli altri che per sé, tanto da sacrificarsi, con metodo e disciplina, per conseguire un aspetto rispettabile, sempre pulito e in ordine, sì da salire di grado fino a diventare capotecnico del Kommando chimico, con il compito di esaminare l'abilità professionale dei nuovi adepti, compito che espletava con particolare rigore quando subodorava un possibile rivale. Elias Lindzin, il nano polacco dotato di vigore eccezionale, versatile quanto a manualità e fisicamente indistruttibile, ma anche naturalmente ed innocentemente ladro, qualità che lo rendeva particolarmente adatto al Lager, mentre fuori sarebbe stato giudicato sostanzialmente demente. Henri, il ventiduenne poliglotta, colto ed intelligente, dal cuore "anestetizzato" dalla morte del fratello in Buna (il campo e la relativa fabbrica di gomma sintetica, i cui ingredienti erano il BUtadiene e il NAtrium) fino ad impegnarsi, inesorabilmente, a sfruttare ogni appiglio applicando i suoi metodi di sopravvivenza (organizzazione, pietà, furto) dopo aver valutato il prossimo con un'occhiata, come l'icneumone paralizza i grossi bruchi pelosi, ferendoli nel loro unico ganglio vitale.

Nel Lager, quindi, di regola sopravvivevano i collaboratori della zona grigia, diabolico prodotto di un insieme di condizioni e situazioni del sistema concentrazionario cui il prigioniero sin dall'inizio doveva adattarsi, se voleva sopravvivere. Ma che cosa, in concreto, tutto ciò significava?

Appena entrato nel Lager il nuovo arrivato era sottoposto ad un sinistro rituale, organizzato dalle SS, avente lo scopo di spezzarne sin dall'inizio la capacità di resistenza, fino a prostrarlo, mettendone in pericolo la vita, perché - scrive Levi in "Capaneo", primo racconto di "Lilìt. Passato prossimo" 1981 - in tali condizioni una persona smuove istinti feroci, e ridesta prima il dileggio che la pietà. Tale rituale si realizzava con diverse modalità: l'orgia degli ordini urlati, i calci e i pugni sul viso, la denudazione, la rasatura, la vestizione con stracci. In tutto questo l'urto della barriera linguistica era agghiacciante: sapere o no il tedesco costituiva uno spartiacque. Come reagivano, infatti, i tedeschi con chi non capiva i loro ordini? Iniziavano ad urlare rabbiosamente l'ordine; poi a squarciagola, come se si trovassero di fronte ad un sordomuto; infine urlando e colpendo, come si fa con le bestie. Ne conseguiva una tremenda incapacità di comunicazione, che spesso si sommava con quella tra detenuti, provenienti da regioni linguisticamente differenti. E gli effetti devastanti del "non essere parlati a" erano che non si osava rivolgere la parola a chi usava una lingua per te incomprensibile, per cui si riduceva sempre più la capacità di pensiero, derivante dalla possibilità di comunicazione e di ricevere informazioni da elaborare; mentre si accentuava l'effetto di condizionamento prodotto da alcuni suoni, come quelli sperimentati da Pavlov sui cani (Levi a questo proposito scrive di ricordare ancora il numero di matricola del prigioniero che lo precedeva nel ruolino della baracca, v. SoSa p.73). E gli internati accoglievano lo Zugang ostilmente, mettendo in pratica tutta una serie di scherzi crudeli, come quelli operati ai danni delle matricole: l'aggressione era concentrica da parte dei supposti alleati, dai quali si sperava solidarietà e comprensione.

D'altra parte il clima di intolleranza totale rientrava del disegno progettuale del sistema concentrazionario, voluto dal nazionalsocialismo, che degradava ed assimilava a sé le sue vittime, tollerando e anzi incoraggiando la proliferazione di privilegi, che comportava la creazione di una classe ibrida di prigionieri-funzionari formanti la zona grigia della "protekcja" e della collaborazione. Essa si fondava sul vincolo della correità (si lega meglio a sé un collaboratore avversario, caricandolo di colpe, compromettendolo: chi ha tradito una volta, lo farà di nuovo) e su motivazioni di ordine diverso, quali il terrore, l'adescamento ideologico, l'imitazione pedissequa dei comportamenti del vincitore, la voglia miope di potere, la viltà, il lucido calcolo inteso ad eludere gli ordini e l'ordine imposto.

In SQU, nel capitolo "Al di qua del bene e del male", leggiamo in proposito:

In conclusione: il furto in Buna, punito dalla Direzione civile, è autorizzato ed incoraggiato dalle SS; il furto in campo, represso severamente dalle SS, è considerato dai civili una normale operazione di scambio; il furto fra Häftlinge viene generalmente punito, ma la punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato.

Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole "bene" e "male", "giusto" e "ingiusto"; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato.

In tale frase Levi chiarisce quanto afferma anche ne "Il sistema periodico" (ed. Einaudi 1975, p.158) ove scrive che il tremendo privilegio, proprio della sua generazione e del popolo ebraico, di dover optare fra queste antinomie ha fatto sì che il suo bagaglio di memorie atroci sia divenuto una ricchezza.

La cosiddetta zona grigia comprendeva innanzitutto i funzionari di basso rango: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, Bettnachzieher (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio la fisima tedesca dei giacigli rifatti piani e squadrati), i controllori dei pidocchi e della scabbia, i portaordini, gli interpreti. C'erano poi i prigionieri con posizioni più elevate: i capi delle squadre di lavoro, i capo-baracca, gli scritturali, i funzionari amministrativi (tra questi Langbein, Kogon e Marsalek che sarebbero, in seguito, diventati storici dei Lager rispettivamente di Auschwitz, Buchenwald e Mauthausen, rivelandosi più oppositori mimetizzati che collaboratori). C'erano i Kapos, di solito prescelti tra i rei comuni (i cosiddetti triangoli verdi, che vedevano nella carriera di aguzzini un'utile alternativa alla detenzione) o tra i prigionieri politici (i cosiddetti triangoli rossi, fisicamente e moralmente debilitati), persino tra gli ebrei, che vi intravedevano la possibilità di sfuggire alla "soluzione finale".

Un caso limite di collaborazionismo nel Lager era rappresentato dai Sonderkommandos (Squadre Speciali), cui era affidata la gestione dei forni crematori. In massima parte era formata di ebrei (che una volta scelti per tale compito non potevano sottrarvisi, pena la morte), perché innanzitutto si voleva spostare sulle vittime il peso della colpa, talché, a proprio sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti; inoltre si voleva dimostrare che essi (appartenenti ad una sotto-razza di sotto-uomini) erano capaci di piegarsi ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi.

Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto, venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo esterno; inoltre venivano regolarmente sostituite dopo un certo tempo, per cui i precedenti componenti subivano la stessa sorte delle vittime di cui raccoglievano i resti nelle camere a gas per cremarle.

Soltanto in questi casi - e non già in quelli dei nazisti al processo di Norimberga(2)- si potrebbe invocare il Befehlnotstand, vale a dire "lo stato di costrizione conseguente ad un ordine" applicabile a chi davvero non aveva altra scelta tra l'obbedienza e la morte. Infatti ancora una volta Levi sottolinea l'impotentia iudicandi davanti ai casi succitati, come a quello di Chaim Rumkowskji, protagonista, nel ghetto di Lodz, di una storia eloquente sul tema fondamentale dell'ambiguità umana provocata fatalmente dall'oppressione. Levi vi si era soffermato già nel racconto "Il re dei Giudei" della raccolta "Lilìt. Passato prossimo", pubblicata nel 1981, scrivendo tra l'altro:

Che un Rumkowski sia esistito, duole e brucia; è probabile che, se fosse sopravvissuto, [..] nessun tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di seduzione, da cui è difficile guardarsi. Anziché santificare le sue vittime, le degrada e le corrompe [..] Per resistergli occorre una ben solida ossatura morale [...]

É tipico dei regimi in cui tutto il potere piove dall'alto, e nessuna critica può salire dal basso, di svigorire e confondere la capacità di giudizio, e di creare una vasta fascia di coscienze grige che sta fra i grandi del male e le vittime pure: in questa fascia va collocato Rumkowski. [...]

[...] in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che "scende all'inferno con trombe e tamburi", e i suoi orpelli miserabili sono l'immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale.

Se in tempi normali, quindi, la valutazione etica su tali comportamenti risulta coerentemente di condanna, è difficile reperire, scrive Levi, un tribunale umano cui delegare la misura della gravità della colpa dell'offeso, per quanto grave essa sia (v. SoSa p.31). Ci ammonisce, infatti, circa l'imprudenza ad emettere in tali casi un giudizio umano, citando peraltro la frase con cui Manzoni commenta i pensieri criminosi di Renzo, appena venuto a conoscenza del sopruso di don Rodrigo: "I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi".

Peraltro le SS esercitavano sulle loro vittime una violenza sostanzialmente inutile, locuzione provocatoria che rimanda, chiaramente, al significato della violenza utile, quella di solito perpetrata ai danni di altri per danaro, per sopprimere un nemico vero o supposto, per vendicare un'offesa, per risolvere controversie fra fazioni (faide) o nazioni (guerre). Scrive in proposito Levi (v.SoSa p.83):

I dodici anni hitleriani sono stati caratterizzati da una diffusa violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo.

Queste parole di Levi sintetizzano in maniera mirabile quanto Hans Jonas (tutte le citazioni di Jonas si trovano nell’opera citata a pp.22-23, p.25, p.26, p. 31, p.34, p.39. p.38) afferma, evidenziando come il giudizio morale su Auschwitz, sul male che esso incarna, sia ben più pesante per un ebreo che per un cristiano. Per quest'ultimo, infatti, la realtà materiale rappresenta il mondo di Satana ed ogni speranza è riposta nel mondo dell'aldilà; per l'ebreo

che vede nell'al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia e quindi "Auschwitz", per il credente, rimette in discussione il concetto stesso di Dio [ovvero il concetto stesso di Bene e di Male] [...]Ogni dimensione della risposta del mondo che si attua in modo sempre nuovo all'interno del processo, nel corso dell'iter, è per Dio un modo nuovo [...] di scoprire sé stesso nelle sorprese che gli procura l'avventura nel mondo [...] è il tesoro ultraterreno di una Eternità vissuta nella dimensione del tempo. [..] Il progressivo affinarsi di istinto e di angoscia, piacere e dolore, vittoria e sconfitta, amore e orrore -che penetra nella sua intensità ogni esperienza- è una conquista del soggetto divino, [...] Così, al di qua del bene e del male, Dio non può patire perdite né subire sconfitte nel gioco gioioso dell'evoluzione.

Infatti, per Jonas l'origine dell'uomo è l'origine stessa del sapere e della libertà e, grazie a questo dono estremamente ambiguo, l'innocenza di un soggetto che è pienezza di vita, lascia il posto al compito della responsabilità che agisce e opera in un dominio segnato dalla separazione di bene e male. Quello che, implicito nell'opera di Levi, si esplicita nelle considerazioni di Jonas è un'immagine di Dio che si temporalizza, che entra in relazione con il mondo. Si tratta di un'immagine di

un Dio in costante situazione di pericolo [...], di un Dio che può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare), non deve escludere l'esistenza del male; e il male c'è solo in quanto Dio non è onnipotente.

Tuttavia questa negazione del concetto di "onnipotenza", a cui è legato quello del non-intervento sul male del mondo che si incarna in Auschwitz, implica che quanto avvenne, in bene e in male, fu opera dell'uomo, sia quando il suo codice morale si manteneva abbastanza saldo, sia soprattutto quando tale suo codice si affievoliva o scompariva al contatto con i drammi del Lager.

Per non dare, però, adito ad incomprensioni sulle considerazioni di Jonas relativamente alla non-onnipotenza divina, bisogna considerare che, secondo il filosofo tedesco, Dio, concedendo all'uomo la responsabilità del divenire del mondo, ha compiuto un atto di rinuncia alla propria potenza, di auto-limitazione, di auto-alienazione, di libertà ("La libertà è inizio primo, puro cominciamento" scrive Luigi Pareyson in "Filosofia della libertà", Genova 1991). Tale rinuncia avvenne infatti affinché noi potessimo essere. [....] Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all'uomo dare.

Ma tornando al programma nazista, si trattava, in sostanza, dello svolgimento razionale di un piano disumano o della manifestazione di follia collettiva? di logica intesa al male(3) oppure di assenza di logica?

Le due alternative coesistevano, perché il disegno fondamentale del nazionalsocialismo aveva una sua razionalità che si concretizzava in obiettivi ben precisi: rendere operante il vecchio sogno tedesco della spinta verso Oriente; soffocare il movimento operaio; realizzare l'egemonia sull'Europa continentale; annientare sia il bolscevismo che il giudaismo, da Hitler semplicisticamente tra loro identificati; spartire il potere mondiale con l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America; conseguire l'apoteosi della razza germanica.

Quest'ultimo obiettivo prevedeva l'eliminazione "spartana" dei malati mentali e delle "bocche inutili", aspetto di cui ci fornisce, tra gli altri, un ampio resoconto G. L. Mosse ("Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto", Bari 1978, cap. XIII.), che scrive:

Quando Hitler, il 1° settembre 1939, diede più ampi poteri ai medici e agli avvocati scelti per applicare il programma nazista, già si erano verificati casi di soppressione di individui affetti da malattie mentali e da anomalie fisiche. Il decreto sull'eutanasia fu predatato da Hitler in persona al primo giorno della seconda guerra mondiale - un gesto più significativo dello stesso decreto amministrativo. Hitler considerava la vittoria dell'ariano come l'obiettivo primario del conflitto: per lui era necessario non solo mettere le razze inferiori al loro posto, ma anche preservare gli ariani da qualsiasi potenziale fattore di indebolimento. Eutanasia e guerra erano altrettanto interdipendenti che guerra e soluzione finale. [...]

Non era possibile mantenere segreta l'eutanasia, perché essa si praticava in istituti vicini a centri abitati e ben presto genitori e parenti si insospettirono per tante morti troppo improvvise. Le Chiese presero l'iniziativa della protesta [...] Fu il vescovo di Münster Clemens August Galen a suscitare il massimo scalpore quando, il 31 agosto 1941, rendendo pubblico il programma, esclamò che se le cosiddette persone improduttive potevano essere uccise come delle bestie, allora <>. Questa rivelazione fu solo il momento più drammatico del senso di insicurezza che l'eutanasia aveva diffuso tra l'intera popolazione.

[...]

Il programma di eutanasia portò alla morte circa 70.000 persone, tra le quali un'alta percentuale di bambini e ragazzi. All'inizio si sparava alle vittime per ucciderle, ma presto si usò il gas in stanze che simulavano delle docce. Qui è evidente il collegamento tra l'eutanasia e il metodo alla fine adottato per l'assassinio in massa degli ebrei. Ma il nesso tra eutanasia e annientamento degli ebrei fu anche più stretto. La pratica dell'eutanasia volle dire che i nazisti avevano preso sul serio il concetto di vita <>, e una vita così definita era caratterizzata da improduttività e da un aspetto esteriore degenerato. La psicologia di Lombroso ha svolto un ruolo importante nel procedimento di selezione per l'eutanasia: la deformità fisica fu considerata un segno di malattia mentale. Mentre i concetti di improduttività e i pregiudizi sull'aspetto fisico erano stati da sempre applicati agli ebrei, l'eutanasia mostrò per la prima volta la determinazione di Hitler di distruggere una vita considerata per tali motivi indegna, ed ha un sinistro significato il fatto che il malato mentale e l'ebreo fossero definiti in modo molto simile....

Il nazionalsocialismo si proponeva, sostanzialmente, di conseguire i suoi fini attraverso aggressioni militari e guerre spietate, ma anche alimentando quinte colonne interne, trasferendo intere popolazioni, o asservendole o sterilizzandole o sterminandole. Tuttavia la razionalità del disegno originario venne ampiamente superato dalla crudeltà inutile che ebbe i suoi momenti più significativi nei massacri "sproporzionati" (v. le Fosse Ardeatine, Oradour, Boves, Marzabotto) e, soprattutto, nelle violenze sui deportati che si realizzavano in una serie atroce di vessazioni, di cui Levi ci parla ampiamente nel cap. V del suo saggio.

In dettaglio tali violenze si concretizzavano nello stipare un numero considerevole di prigionieri in un vagone piombato, senza servizi e spesso senza rifornimenti, in modo tale che si trasformasse in prigione ambulante o addirittura strumento di morte; nel saccheggiare i beni e i valori dei deportati, dopo aver ipocritamente raccomandato di portarli con sé e ordinato di depositarli prima del viaggio, con la promessa che i bagagli li avrebbero in seguito raggiunti; nel costringere le persone alla promiscuità e alla sporcizia, cui un viaggio del genere condizionava; con la costrizione escrementizia, operata spesso alla presenza di gente comune nelle stazioni, dove ci si fermava dopo un lungo tragitto di ore, con l'inevitabile - ma voluta - conseguenza di ingenerare repulsione negli involontari testimoni.

Una volta arrivati al campo, l'offesa al pudore si perpetuava con la costrizione alla rasatura completa, alla nudità totale (ordinata più volte al giorno, per ragioni disparate); al tatuaggio sull'avambraccio sinistro (immatricolazione d'invenzione auschwitziana, col quale si sanciva la perdita dell'identità originaria); alla ricerca disperata, che spesso doveva trasformarsi in furto, di strumenti per sopravvivere - per esempio di un cucchiaio, per non essere costretti a lappare la brodaglia del rancio come i cani (tanto più umiliante per un ebreo osservante, se si ricorda l'episodio di Gedeone in Giudici 7.5). Vessatorio era anche il lavoro schiavistico, spesso inutile e solo afflittivo (come lo spalare la sabbia delle dune a cerchio sotto il sole di luglio, cui furono costrette le donne di Ravensbrück); l'obbligo a stiparsi in duecento e persino duecentocinquanta in dormitori dotati di 148 cuccette disposte su tre piani; l'estenuante operazione dell'appello-conteggio, che poteva durare anche una intera giornata; il Bettenbauen (rifare il letto), assurdità maniacale delle SS cui le condizioni oggettive e dei dormitori e dei giacigli opponevano concrete difficoltà. Afflittiva era la sofferenza costante per la fame, la sete, il freddo; la paura costante delle selezioni, cui spesso niente e nessuno garantiva la possibilità di sottrarsi; l'orgia degli ordini urlati, sottolineati da colpi; l'incomunicabilità radicale, vissuta soprattutto dallo Zugang, proiettato in un mondo infero popolato da uomini di culture e lingue disparate. Atroce era, infine, l'empio uso del corpo umano, oggetto di esperimenti medici, e persino dei cadaveri, sfruttati fino in fondo per usi commerciali o d'altro tipo (le ceneri venivano utilizzate, per esempio, come materiale di riporto per paludi).

Attraverso la sequela di tali violenze le persone venivano gradualmente ridotte al rango di bestie: il tatuaggio, per esempio, si imprime al bestiame destinato al macello; era, scrive Levi, un messaggio non verbale, affinché l'innocente sentisse scritta sulla propria carne la sua condanna. Era un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi (era vietato, infatti, dalla legge mosaica per distinguere gli ebrei dai "barbari" - v. Levitico 19.28). In sostanza, come ebrei si è ridotti a granelli di sabbia che qualsiasi scarpa può disperdere o calpestare (la citazione è tratta - come dichiara Moni Ovadia - dalla poesia "Sand un Stern" di Frug, 1915).

Levi conclude il capitolo su tale oggetto raccontando che nel corso di una intervista a Franz Stangl, ex comandante di Treblinka (detenuto nel carcere di Düsseldorf), Gitta Sereny gli chiese: "Visto che li avreste uccisi tutti .... che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?" e Stangl rispose: "Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare ciò che facevano". Commenta Levi: In altre parole: prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinché l'uccisore senta meno la sua colpa. É una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l'unica utilità della violenza inutile.
 
 

Di fonte a queste violenze, le persone normali potrebbero essere indotte a chiedersi come mai gli ebrei non tentassero di fuggire, per esempio, o di ribellarsi. Molti sono in verità gli stereotipi sulla shoàh che andrebbero sfatati, e Levi prova ad esaminarne alcuni, sulla base di domande poste a lui stesso in occasione di interviste o visite didattiche.

La fuga dai campi. Ma come evitare di essere denunciati dai collaboratori della zona grigia? E se anche fosse stato possibile, dove ci si sarebbe potuto dirigere? non dimentichiamo che si veniva deportati in campi di concentramento molto lontani dalla propria patria. E poi, come rifornirsi dell'occorrente per la fuga? a chi chiedere aiuto fuori del campo? La propaganda antisemita di Goebbels e Streicher aveva diffuso disprezzo ed odio da parte dei civili nei confronti degli ebrei. Il tentativo di fuga di Mala Zimetbaum dal Lager femminile di Birkenau dimostra chiaramente quanto fosse impossibile salvarsi dalla propria sorte di deportato ebreo (i prigionieri militari di eserciti nemici, invece, erano potetti, almeno teoricamente, dalla Convenzione di Ginevra).

La ribellione. Episodi sporadici di ribellione ci sono in realtà stati, ma a prezzo spaventoso in termini di vite umane e sofferenze collettive. Levi ricorda i quattrocento ebrei di Corfù, che rifiutarono tale lavoro e vennero uccisi col gas nel luglio del 1944; i quattrocentocinquanta ebrei del SK che fecero esplodere il crematorio n.3 di Auschwitz nell'ottobre 1944 e furono eliminati dalle SS; altri ancora che tentarono singoli ammutinamenti, puniti con morte atroce. Bisogna tuttavia considerare che il detenuto standard dei campi era un individuo al limite dello sfinimento, un "uomo impedito". La rivolta di Birkenau o quella della Squadra Speciale del crematorio n.3 fu scatenata da uomini esasperati e ridotti alla disperazione, sì, ma anche, di fatto, ben nutriti, calzati e vestiti.

La fuga prima della cattura. Alcuni in verità l'hanno fatta, ma avevano anche a disposizione i mezzi necessari per attuarla. Per lo più realizzare tale progetto era inibito da difficoltà economiche, dalla mancanza di una "testa di ponte" nel paese di destinazione e dagli oggettivi problemi organizzativi dell'emigrazione. Vi si aggiungeva spesso anche la difficoltà psicologica ad abbandonare la propria casa(4); occorre inoltre sottolineare che gli ebrei tedeschi erano quasi tutti borghesi benestanti, che amavano l'ordine e la legge, sostanzialmente incapaci di concepire un terrorismo di Stato. Il loro spirito era ben tradotto dal detto proverbiale che suona "Nicht sein kann, was nicht sein darf" (non può verificarsi una cosa di cui non sia moralmente lecita l'esistenza).

"Uscir di pena / è diletto fra noi". L'ottimismo del pessimista Leopardi non si attaglia quasi mai a sopravvissuti dai Lager. Certamente i combattenti militari o politici potevano vedere nella liberazione la realizzazione dei loro sogni; soltanto da chi aveva sofferto meno e per un tempo minore, il venir liberati è stato vissuto con gioia autentica e piena. Scrive tuttavia Levi:

Nella maggior parte dei casi, l'ora della liberazione non è stata né lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. [..] quasi sempre ha coinciso con una fase d'angoscia.

(Peraltro parole simili aveva già scritto nelle prime pagine di "La tregua" concludendo:

Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio. É stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.)

In proposito Levi cita la parole di Hans Mayer, alias Jean Améry (il filosofo austriaco suicida e teorico del suicidio col libro "Levar la mano su di sé") su cui si sofferma a lungo nel cap. VI del saggio:

Chi è stato torturato rimane torturato [..] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.

E come non ricordare il famoso passo di "La tregua" in cui si racconta l'arrivo, il 27 gennaio del 1945, della prima pattuglia russa?

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

La memoria dell'offesa resta indelebile, scrive Levi, in chi l'ha subita, determinandone la "vergogna" per la consapevolezza di esser stati menomati, di esser vissuti a livello animalesco, di aver dovuto cambiare codice morale (s'è già sottolineato come il codice morale imposto dalla vita del Lager fosse assolutamente diverso da quello della convivenza civile, e come cambiarlo fosse alquanto costoso). Ci si vergognava inoltre di essere sopravvissuti, nutrendo spesso la coscienza di aver mancato sotto l'aspetto della solidarietà umana e di essere stati dei Caini dei propri fratelli.

Eppure Levi e i suoi compagni non hanno voluto "essere isole":

i giusti fra noi hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, e in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, ed in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l'uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare(5).

Ma di fatto, anche se la vergogna non era razionalmente giustificata, essa si provava soprattutto di fronte ai pochi esempi di resistenza, come quello narrato nel capitolo "L'ultimo" a proposito dell'uomo condannato a morte perché aveva contatti con la Squadra Speciale che aveva fatto saltare il crematorio n. 3. Racconta Levi che furono costretti ad assistervi tutti i prigionieri, maledettamente rassegnati e inerti di fronte all'evento:

Ma tutti udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell'uomo in ciascuno di noi: -Kameraden, ich bin der Letzte!- [...]

Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino ....

D'altra parte se la memoria dell'offesa non può essere cancellata (almeno nelle vittime - altra cosa è la repressione o la rimozione provata dai persecutori), è anche bene che non lo sia; anzi la frequente rievocazione dei fatti accaduti è un esercizio per mantenere il ricordo fresco e vivo, che dovrebbe essere inteso da tutti come un sinistro segnale di pericolo. Certamente un rischio c'è, scrive Levi, e sta nel fissare in stereotipo, nel cristallizzare il ricordo fino a farne una forma collaudata dell'esperienza [...] che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese.

Questa è anche probabilmente la causa di numerose depressioni che, vissute dai deportati dopo la liberazione, si sono concluse col suicidio; mentre tale soluzione, in Lager, di fatto non era adottata. In proposito Levi propone almeno tre ragioni: il suicidio è proprio dell'uomo, non dell'animale, nelle cui condizioni si era costretti a sopravvivere nel Lager; il pensiero costante della morte incombente toglieva di fatto occasioni e tempo da dedicare al pensiero della morte; il suicidio è di regola prodotto da un senso di colpa, che nessuna punizione riesce ad attenuare - nel Lager era, invece, la vita stessa ad essere percepita come costante punizione. Mi sembra utile, in proposito, recuperare un giudizio di L. Pareyson (op. cit. p.34.), che, pur essendo probabilmente dissonante rispetto a quello di Levi, mi sembra consentire un elemento significativo di comprensione: É la sofferenza che mette in crisi ogni metafisica oggettivante e dimostrativa, ogni sistema sollecito soltanto d'una totalità armonica e conclusa, ogni filosofia dell'essere unicamente preoccupata del fondamento. Essa sola contiene il senso della libertà e rivela il segreto di quella vicenda universale che coinvolge Dio, l'uomo, il mondo in una tragica storia di male e di dolore, peccato ed espiazione, perdizione e salvezza.
 
 

A questo punto potrebbe sorgere una domanda: e Levi? come è riuscito a sopravvivere? a salvarsi?

Rimanderei innanzitutto al 1° capoverso della Premessa di SQU - che, credo, tutti conoscono - ove Levi accenna ad una serie di circostanze fortunate. Tra l'altro Levi possedeva una sufficiente conoscenza delle lingue straniere; soprattutto fu proprio la sua competenza di chimico ad aiutarlo (il mio mestiere di chimico [...] sul piano pratico, mi ha probabilmente salvato da almeno alcune delle selezioni per il gas - v. SoSa p.113) tant'è che in SQU (p. 93) leggiamo:

Io so che non sono della stoffa di quelli che resistono, sono ancora troppo civile, penso ancora troppo, mi consumo al lavoro. Ed ora so che mi salverò se diventerò Specialista, e diventerò Specialista se supererò un esame di chimica.

Oggi, questo vero oggi in cui sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

Ma forse ci interessa capire qualcosa di più. Scrive in SoSa (p. 60):

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio (in un momento in cui sentivo di averne) ad un diciottenne italiano appena arrivato, che si dibatteva nella disperazione senza fondo dei primi giorni di campo: [....] gli ho fatto dono di un'attenzione momentanea. Ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo proprio quando ero in campo da più di un anno, e quindi avevo accumulato una buona dose di esperienza: ma avevo anche assimilato a fondo la regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a se stessi.

Infatti nel tenero e bellissimo racconto della raccolta "Lilìt. Passato prossimo" intitolato "Un discepolo", ove lo scrittore ci parla di un giovane ungherese, Endre Szàntò detto Bandi, nei confronti del quale assume il ruolo di mentore nel Lager, ad un certo punto Levi scrive:

Tentai di convincerlo di alcune mie recenti scoperte (per verità non ancora bene digerite): che laggiù, per cavarsela, bisognava darsi da fare, organizzare cibo illegale, scansare il lavoro, trovare amici influenti, nascondersi, nascondere il proprio pensiero, rubare, mentire; che chi non faceva così, moriva presto, e che la sua santità mi sembrava pericolosa e fuori luogo.

Nel capitolo "La vergogna" del suo saggio Levi racconta un episodio verificatosi nelle torride giornate dell'agosto del 1944 quando, impegnato in un lavoro in una cantina, scoprì un tubo contenente un residuo d'acqua: un litro o poco meno. Il dilemma:

Potevo berla tutta subito, sarebbe stata la via più sicura. O lasciarne un po' per l'indomani. O dividerla a metà con Alberto. O rivelarne il segreto a tutta la squadra.

Scelsi la terza alternativa, quella dell'egoismo esteso a chi ti è più vicino, che un amico in tempi lontani ha appropriatamente chiamato "nosismo".

Ma nella squadra c'era anche Daniele (l'amico superstite del ghetto di Venezia, l'unico che, come Levi racconta in "La tregua" - cap. Verso Nord -, non rifiuta il pane ai tedeschi incontrati lungo la ferrovia di Zmerinka, pur pretendendo che venissero a prenderlo strisciando a terra carponi) che ha indovinato l'accaduto:

[...] nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi lucidi, e mi sentii colpevole. [...] É giustificata o no la vergogna del poi? Non sono riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c'era e c'è, concreta, pesante, perenne. [..] nei nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell'atto mancato, di quel bicchier d'acqua non condiviso, stava fra noi, trasparente, non espresso, ma percettibile e "costoso".

Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli eretici, gli apostati, i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il comportamento nostro od altrui, tenuto allora sotto il codice di allora, in base al codice di oggi; ma mi pare giusta la collera che ci invade quando vediamo che qualcuno degli "altri" si senta autorizzato a giudicare noi "apostati", o meglio riconvertiti.

E nel saggio (SoSa p.63) puntualizza:

Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri.

C'è nel libro un capitolo intitolato "L'intellettuale ad Auschwitz", ove ci si chiede se l'essere un intellettuale abbia valso a qualcosa per gli internati del Lager di Auschwitz. Partendo dalla definizione di "intellettuale", Levi vi parla diffusamente della vicenda del filosofo austriaco Hans Mayer, emigrato in Belgio (ove aderì ad un movimento della Resistenza) col nuovo nome di Jean Améry che, caduto nelle mani della Gestapo nel 1943, viene torturato ed infine spedito nel Lager di Auschwitz. Nel suo saggio amaro e gelido concernente il medesimo argomento, Mayer-Améry scrive:

[...] l'aver avuto un buon livello d'istruzione è forse una condizione necessaria, ma non sufficiente. Ognuno di noi conosce avvocati, medici, ingegneri, probabilmente anche filologi, che sono certamente intelligenti, magari anche eccellenti nel loro ramo, ma che non possono essere definiti intellettuali. Un intellettuale, come io vorrei fosse qui inteso, è un uomo che vive entro un sistema di riferimento che è spirituale nel senso più vasto. Il campo delle sue associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza estetica ben sviluppata. Per tendenza e per attitudine è attirato dal pensiero astratto [...] Se gli si parla di "società", non intende il termine in senso mondano, ma in quello sociologico. Il fenomeno fisico che conduce a un corto circuito non gli interessa, ma la sa lunga su Neidhart von Reuenthal, poeta cortese del mondo contadino.

Se tale definizione appare a Levi alquanto restrittiva, perché ne esclude il matematico o l'epistemologo, interessante mi sembra la sua dichiarazione che l'essere intellettuale (nonostante il pudore provato nell'auto-definirsi in questo modo) sia sostanzialmente legata proprio all'esperienza del Lager. Ma procediamo con ordine.

Levi propone innanzitutto la seguente definizione:

Proporrei di estendere il termine alla persona colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva, in quanto si sforza di rinnovarsi, accrescersi e aggiornarsi; e che non prova indifferenza o fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche se, evidentemente, non li può coltivare tutti.

In Lager erano costretti al lavoro manuale tutti i deportati, naturalmente anche gli uomini colti, cui però mancava, il più delle volte, la familiarità con gli attrezzi. Ne conseguiva la necessità di adattarsi, in tempo più breve possibile, a tale evenienza, talora con un senso di umiliazione profondo - di dignità perduta nel caso di Mayer-Améry, talora invece, come nel caso di Levi, con un senso modesto di destituzione. Naturalmente l'assuefazione si verificava con l'ausilio di percosse e colpi, talora anche dai compagni, cui la persona incivilita non sempre era in grado di reagire(6).

A proposito del reagire o meno alle percosse, Levi tenta un'interessante analisi della differenza tra sé e Mayer-Améry. Il filosofo austriaco ricevette sul viso, da un criminale comune polacco, un pugno cui rispose non per reazione animalesca, ma per ragionata rivolta contro il mondo stravolto del Lager. Levi commenta il fatto con queste parole:

Ammiro la resipiscenza di Améry, la sua scelta coraggiosa di uscire dalla torre d'avorio e di scendere in campo, ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. Lo ammiro: ma devo constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo-Auschwitz, lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed intransigenza da renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi "fa pugni" col mondo intero ritrova la sua dignità ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il suicidio di Améry, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni, ma, a posteriori, l'episodio della sfida contro il polacco ne offre un'interpretazione.

E Levi, dopo aver raccontato un suo tentativo di resa del colpo nei confronti di Elias Lindzin, il nano dotato di eccezionale vigore assunto ad esempio di "salvato" in SQU, conclude la sua analisi scrivendo:

[...] preferisco, nei limiti del possibile, delegare punizioni, vendette e ritorsioni alle leggi del mio paese. É stata una scelta obbligata: so quanto i meccanismi relativi funzionino male, ma io sono quale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile cambiarmi. Se anch'io mi fosse visto crollare il mondo addosso; se fossi stato condannato all'esilio e alla perdita d'identità nazionale [come di fatto vi fu costretto Hans Mayer]; se anch'io fossi stato torturato fino a svenire e oltre, avrei forse imparato a rendere il colpo, e nutrirei come Améry quei "risentimenti" a cui egli ha dedicato un lungo saggio pieno di angoscia ("Jenseits von Schuld und Sühne", Monaco 1966.).

Se già in tale giudizio si comprende la ragione della differenza comportamentale tra i due intellettuali (Levi ci dice infatti di non aver subito le violenze di Mayer-Améry), c'è però dell'altro che lo scrittore tiene a sottolineare. Interessante appare la notazione relativa al suo patrimonio di abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni. Dai suoi studi aveva acquisito, scrive, l'attitudine mentale a chiedersi come avrebbe reagito qualcuno che avesse avuto davanti a sé, a guardarsi intorno e a misurare gli uomini; ma anche ad interessarsi sempre delle persone incontrate sulla propria via:

[...] ho contratto dal mio mestiere un'abitudine che può essere variamente giudicata, e definita a piacere umana o disumana, quella di non rimanere mai indifferente ai personaggi che il caso mi porta davanti. Sono esseri umani, ma anche "campioni", esemplari in busta chiusa, da riconoscere, analizzare e pesare. Ora, il campionario che Auschwitz mi aveva squadernato davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri e di nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e dopo, hanno giudicato distaccata. Un cibo che certamente ha contribuito a mantenere viva una parte di me, e che in seguito mi ha fornito materia per pensare e costruire libri. Come ho detto, non so se ero un intellettuale laggiù: forse lo ero a lampi, quando la pressione si allentava; se lo sono diventato dopo, l'esperienza attinta mi ha certo dato un aiuto. [...] D'altra parte, non sembri cinico affermarlo: per me, come per Lidia Ridolfi e per molti altri superstiti "fortunati", il Lager è stata una Università; ci ha insegnato a guardarci intorno e a misurare gli uomini.

Affamato di pane, ma anche di capire, ci appare lo scrittore nel Lager: il mondo intorno a lui e ai suoi compagni era capovolto, capire era un modo, forse, per ridare un senso alle cose. Ma è soprattutto il Levi convinto che in ognuno [ci sia] la traccia di ognuno, che di noi ciascuno reca l'impronta / dell'amico incontrato per via (dalla poesia "Agli amici" in "Il fabbricante di specchi") a riscuotere, io credo, un certo interesse; e questo Levi che confessa la sua attitudine mentale a me non pare né cinico né disumano.

Consideriamo i tratti della sua personalità intellettualmente acuta e vivace, curiosa del mondo e dotata di un evidente senso dell'umorismo (tratto, peraltro, comune all'anima e alla cultura ebraica) che si accompagna tuttavia ad una cospicua attitudine alla comunicabilità. A proposito di ciò che la chimica gli ha insegnato, ad esempio, nell'intervista del 1982 a Dina Luce pubblicata in "Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987" ad un certo punto dichiara:

[...] il mio modello letterario [...] è il rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in laboratorio, e che deve essere chiaro e conciso, e concedere poco a quello che si chiama il "bello scrivere". [...] Io sento il mestiere di scrivere come un servizio pubblico che deve funzionare: il lettore deve capire quello che io scrivo [...] deve ricevere la mia comunicazione, non dico messaggio, che è una parola troppo aulica, ma la mia comunicazione. Deve essere un telefono che funziona il libro scritto; e penso che la chimica mi abbia insegnato queste due doti della chiarezza e della concisione.

Consideriamo la natura del suo senso etico, quale si evince, per esempio, sempre dalla suddetta intervista:

Mi è stato chiesto molte volte e devo confessare che non ho un'idea precisa di che cosa significhi la parola perdono [...] mi hanno detto degli amici tedeschi: "Tu sei un perdonatore". Io non mi sento tale; davanti alla colpa, e in specie a questa colpa, commessa contro gli ebrei d'Europa, io provo un prepotente bisogno di giustizia, non di vendetta [...] mi sembra che la nostra tradizione occidentale e cristiana ed ebraica consista proprio nel rifiutare la vendetta personale e individuale e nell'accettare e sostenere quello che si chiama la giustizia, cioè il codice: una legge che precede il reato e che non viene fabbricata dopo; e quindi il mio perdono consiste in questo: nel desiderare che i colpevoli paghino. Sono stato soddisfatto quando Eichmann è stato catturato, sono stato soddisfatto dal processo di Norimberga. Devo confessare che in questi pochi casi anche la pena di morte non mi ha offeso, benché io sia contrario in generale alla pena di morte, ma il perdono così per aria, il perdono davanti al colpevole che non si pente non lo accetto, non mi sembra che rientri nelle cose giuste. Sì, se il colpevole non è più colpevole, cessa di essere tale, dà segni certi di non essere più colpevole, di aver rinnegato il proprio passato, allora sono disposto a perdonare, ma non è più un perdono allora, è un riconoscimento.

Consideriamo soprattutto il suo irriducibile agnosticismo, che ci dice anzi di aver provato una volta la tentazione di abbandonare, cercando rifugio nella preghiera quando (v. SoSa p.118)

nell'ottobre del 1944, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare davanti alla "commissione" che con un'occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l'angoscia, ha prevalso l'equanimità: non si scambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.

Ne discende, a mio avviso, il quadro di un uomo che se può sembrare eccessivamente rigoroso da rasentare - agli occhi di chi gli è ideologicamente lontano - la disumanità, questa l'ha esercitata innanzitutto verso se stesso. Anzi, se il giudizio non risultasse condizionato da ipocrisia un po' pelosa, falsando quindi il punto di vista oggettivo da cui comprendere quelle argomentazioni, direi che Levi abbia mostrato un grande coraggio sia al momento di ciò che ci racconta sia al momento del suo raccontare.

Levi ha comunque operato delle scelte, dettate dal suo senso morale corroborato da profonda umanità, relativamente al "campionario" umano che si trovava di fronte: ci dice, ad esempio, di ritenere che, tra i "salvati", l'ingegnere Alfred L. si sia molto probabilmentesalvato e viva oggi la sua fredda vita di dominatore risoluto e senza gioia; che desidererebbe molto conoscere la vita da uomo libero di Henri, non già di rivederlo. (Però verso la fine - penultimo capitolo di SQU - ammette: Henri sta diventando nostro amico e parla con noi da pari a pari. A questo proposito ricordo di un articolo, apparso su La Repubblica del 17 febbraio 1996, in cui si cita un libro -"Croniques d'ailleurs"- scritto da Paul Steinberg, alias quell'Henri cui Levi non perdonerebbe i gesti di crudeltà di cui si sarebbe macchiato quando venne nominato Kapò. Ma il fatto è che non se li perdona neppure Henri-Paul, che aggiunge: "Penso di aver capito meglio degli altri in che tipo di universo parallelo eravamo finiti").

In questo suo mondo di esseri umani c'è, però, anche Alberto, il suo indivisibile, entrato in Lager a testa alta, illeso e incorrotto, rara figura dell'uomo forte e mite, contro cui si spuntano la armi della notte: e nella notte del 18 gennaio 1945 scomparve per sempre durante la marcia di evacuazione del campo.

C'è Jean, il Pikolo, che conduceva con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, senza trascurare di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati.

C'è Lorenzo, il muratore italiano grazie al quale non dimentica di essere un uomo: la sua umanità era pura e incontaminata, perché era al di fuori di questo mondo di negazione. Tant'è che nel racconto "Il ritorno di Lorenzo" (v. "Lilìt") Levi scrive che Lorenzo laggiù non aveva aiutato soltanto me. Aveva altri protetti, italiani e non, ma gli era sembrato giusto non dirmelo: si è al mondo per fare del bene, non per vantarsene.

Ci sono i due simpatici francesi dei Vosgi, Arthur e Charles -tra gli ultimi arrivati e per questo ancora immuni dal veleno del Lager- coi quali a sera, intorno alla stufa, si sentiva che ritornavano uomini, in attesa dei liberatori.

C'è persino Steinlauf, ex-sergente dell'esercito austro-ungarico, uomo di buona volontà di cui si duole di non ricordare a pieno le parole, provandosi a tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel suo linguaggio di uomo incredulo: che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti ad ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l'ultima: la facoltà di negare il nostro consenso; per cui se lo invita a lavarsi, sia pur nell'acqua sporca, e a camminare dritto lo fa non già in omaggioalla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.
 
 

Ma in definitiva è proprio sull'uomo, oggetto centrale di tutta la sua opera, a fermare la sua preoccupata attenzione, su questo essere fragile di cui teme il ripetersi della tragedia che ha personalmente vissuto. E trovo ancora utile recuperare il caso Rumkowski, di cui parla diffusamente nel saggio e nel racconto già citato, concludendo significativamente in entrambi con le medesime parole: Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.


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1)  Talora i testi "Se questo è un uomo" e "I sommersi e i salvati" verranno citati, per brevità, rispettivamente con le sigle SQU e SoSa. In particolare, per chiarire il riferimento alle pagine, l'edizione di SQU è quella, assieme a "La tregua", dei Tascabili Einaudi 1989; quella di SoSa è del 1986, Einaudi Gli Struzzi 1986.
2)  Nel caso dei vari Höss, Eichmann, Kesserling si trattava invece di obbedienza cieca, prona, ligia, troppo fedele, aliena da uno spirito umano intero e diritto alimentato da coscienza e da vero amor di patria.

3)  L. Pareyson, op. cit. p. 26, direbbe: "É come se questo residuo inoperante possa ancora costituire un pericolo, non certo da parte di Dio, che ha vinto il male ab aeterno, ma da parte di qualcun altro, che sopraggiunto sappia trovare nel male latente e dormiente nelle profondità divine lo stimolo, e quasi il suggerimento a una nefasta reviviscenza e a una rovinosa realizzazione."

4)  A questo proposito si potrebbe leggere il racconto "Stanco di finzioni" in "Lilit. Passato prossimo" in cui Levi presenta il caso di Joel König (autore del libro "Sfuggito alle reti del nazismo", Mursia 1973), caso sintomatico dell'evoluzione che subiva, giorno dopo giorno, una famiglia ebrea dal 1933 in poi.

5)  Interessante mi sembra la diversa concezione del dolore licitata da L. Pareyson, op. cit. p.33: "Il dolore è il luogo della solidarietà fra Dio e l'uomo: solo nella sofferenza Dio e l'uomo possono congiungere i loro sforzi. É estremamente tragico che solo nel dolore Dio riesca a soccorrere l'uomo e l'uomo giunga a redimersi e a elevarsi a Dio. Ma è proprio in questa consofferenza divina e umana che il dolore si rivela come l'unica forza che riesce ad aver ragione del male. Questo principio è uno dei capisaldi del pensiero tragico: che fra l'uomo e Dio non ci sia collaborazione nella grazia se prima non c'è stata nella sofferenza; che senza il dolore il mondo appaia enigmatico e la vita assurda; che senza la sofferenza il male rimanga irredento e la gioia inaccessibile. In virtù di quella consofferenza il dolore si manifesta come il nesso vivente fra divinità e umanità, come una nuova copula mundi; ed è per questo che la sofferenza va considerata come il perno della rotazione dal negativo al positivo, il ritmo della libertà, il fulcro della storia, la pulsazione del reale, il vincolo fra tempo e eternità; insomma come un ponte lanciato fra il Genesi e l'Apocalisse, fra l'originazione divina e l'apocatastasi."

6)  Potrebbe tuttavia essere interessante la lettura del racconto "Il giocoliere" (in "Lilìt") ove si parla di un criminale comune, Eddy, che assume nel giugno 1944 il ruolo di vice-Kapò del gruppo di Levi. Sorpreso a tentare qualcosa di proibito, lo scrittore ne riceve uno schiaffo violento; ma subito dopo, mentre scrive, rettifica: "Eddy non era un bruto, non intendeva punirmi, né farmi soffrire, ed uno schiaffo dato in Lager aveva un significato assai diverso da quello che potrebbe avere fra noi, oggi e qui. Appunto, aveva un significato, era poco più che un modo di esprimersi, in quel contesto voleva dire pressappoco "bada a te, guarda che l'hai fatta grossa, ti stai mettendo in pericolo, forse senza saperlo, e metti in pericolo anche me". Si tratta, quindi, di una percossa "espressiva", non certo inflittiva per far soffrire o umiliare."



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