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VI RACCONTO LA STORIA DELLA PACE - INTERVISTA A TIZIANO TERZANI

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media inferiore, Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract: VI RACCONTO LA STORIA DELLA PACE
INTERVISTA A TIZIANO TERZANI

a cura di A. GARUSI

Per trent’anni corrispondente di Der Spiegel dall’Asia, Tiziano Terzani è oggi una delle voci più coraggiose e autorevoli del pacifismo contemporaneo. Lo abbiamo incontrato a Milano.

   Non starò al mio impegno di tenermi fuori dal mondo. Da quando ‘Osama Bin Laden smoked me out of my cave’, mi sono rimesso da ‘pensionato’, con una press card falsa fatta a Bangkok, on the road, prima lungo la frontiera pak-afgana e poi a Kabul. Sono ora nel mio rifugio fra le montagne per ricaricare le batterie ed affrontare l’Italia". Così scriveva Tiziano Terzani in un email inviato agli amici, il 18 gennaio, dall’Himalaya indiana. Lo abbiamo incontrato a margine di uno dei tantissimi incontri del suo "pellegrinaggio di pace" in tutta Italia. Un dovere morale, e non il bisogno di dover "spingere" il libro Lettere contro la guerra (Ed. Longanesi), lo ha fatto a tornare qui per raccontare un’altra storia. Quella della pace.

Qual è l’Italia che ha ritrovato durante questo suo pellegrinaggio di pace?
 
Manco da questo paese da più di trent’anni. Non ci sono mai stato a lavorare. Ho lasciato l’Italia nel 1971, per andare a Singapore, e ci sono tornato sempre e solo per visitare la famiglia. Per cui è un paese che non conosco e che riscopro ora.
   Lei conosce la storia: ho scritto questo libro, Lettere contro la guerra, che non era previsto. Cioè avevo chiuso con il mondo del giornalismo. A sessant’anni, avevo preso una decisione euro-indiana, quella di andare in pensione, ma di fare come gli indiani: di partire per un viaggio più dentro che fuori. Davvero, non mi interessava più il mondo, dover andare ad inseguire le guerre... Tuttavia l’11 settembre era una di quelle vicende davanti alle quali non potevo continuare a guardarmi l’ombelico in cima ad una montagna. Dovevo rimettermi in cammino. E così ho fatto: due mesi alla frontiera pak-afgana, poi tre settimane a Kabul.
   Ho sentito di avere un dovere: quello di raccontare una storia che da tanto tempo non raccontavo. Che è la storia della pace. Dopo trent’anni di corrispondente di guerra, dovevo fare qualcosa che era nuovo per me: il corrispondente contro la guerra. L’idea del pellegrinaggio non nasce dal dover "spingere il libro", perché questo cammina comunque con le sue gambe. Ma potevo approfittare di questo per andare a raccontare la storia di una speranza. Ho mandato un email in giro per l’Italia, dicendo che sarei andato dovunque fossi invitato tranne ai tv shows. Ho ricevuto inviti soprattutto dalle scuole.
   Allora, che Italia vedo? Ci sono due Italie: una in doppiopetto, di quelli per bene, che fanno le corna, che dicono una cosa e poi forse ne pensano un’altra. Che dicono all’audience ciò che l’audience vuol sentire. Poi c’è un’Italia di giovani, interessata a qualcosa di diverso: a sentir parlare il cuore. Un’Italia non vuole abituarsi all’ipocrisia della politica. E questo mi sembra interessante.

Può fare anche una comparazione con gli Stati Uniti?
   Un’America di luglio, perché era uscito Un indovino mi disse. Sono rimasto malissimo: era un’America piena di così tanta arroganza, sicura di avere il monopolio di tutto. Un’America forte, a cui pareva di aver capito ogni cosa. E con nessuna curiosità per il mondo esterno.
   Questa è un’Italia diversa, che si pone problemi, un’Italia sensibile, un’Italia che mi sorprende davvero. Specie fuori dalle grandi città. Vado dai giovani fino ai 17-18 anni. Sono meravigliosi. Non hanno paura del nuovo. Cominciano a cambiare quando vanno all’Università. Mi chiedono cose intellettuali. Sfidano le cose che dico, scoprendo le contraddizioni delle parole. Però è un bel paese, pieno di volontà di cose da fare.
   Mancano i grandi, ma anche i piccoli maestri. Se uno si presenta con l’aria di un barbone, con delle cose diverse da dire, che parla col cuore, che dice quello che pensa, che non ha una sua agenda che è quella di farsi eleggere, fondare una nuova religione o aprire un negozio di aroma terapia… Ho fatto il primo passo di questo cammino a Firenze, nel Palazzo Vecchio. E ho detto una cosa: "Vorrei essere ricordato alla fine della mia vita per una qualità, la sincerità. Dire quello che sento di dover dire. E la gente scopre presto che dici quello che credi sia vero. Quello che provi. E non quello che ti è utile o quello che pensi gli altri godano a sentire.

Come mai le forze "altre", anche sullo scenario mediorientale, sono sempre così fragili e così scollegate fra di loro?
  
È la storia di Bush. Ha reagito nella maniera più banale, più ovvia, più stupida. E la stupidità è più semplice. La nonviolenza è una cosa complicata. Per la guerra ci vuole un esercito e dei generali. Per la pace ci vuole un grande esercito e dei grandi generali. Ci vuole molto di più a rafforzare moralmente un "soldato della pace" che addestrare un paracadutista a sgozzare la gente. La pace è più difficile. Anche perché l’uomo è naturalmente più portato alla violenza.
   Viviamo in un mondo violento: queste città orribili in cui bisogna sempre correre. Il mercato che ti impone di sopravvivere, uccidendo il tuo vicino. La scuola che ti insegna a tirare gomitate nello stomaco per arrivare primo. Per cui la reazione più normale, è la violenza. Dunque chi si propone di cercare altre vie, ha la strada dura.

Questo vale anche per i riservisti israeliani..
  Sì. Ci vuole una grande forza culturale. Lo dico sempre: una vera grande civiltà – e quella ebraica, Dio mio, lo è – dimostra la sua grandezza nell’essere permeabile a valori anche diversi e nel mettersi in discussione. Che è capace di vedere autocriticamente i propri valori. Che si rafforza moralmente, prima ancora che con le armi.
   L’America sta perdendo moltissimo, vincendo con le armi. Perché quest’America che era il sogno per tutti i poveri, gli emigranti, oggi sta diventando un paesaggio cattivo che con le nuove regole nega tutto il sogno: l’American way, democracy, i diritti uguali per tutti… Ora c’è una legge per gli americani e un’altra per i non americani. Gli americani sospettati di essere terroristi possono essere incarcerati senza essere habeas corpus, senza vedere un giudice, e teoricamente possono essere fucilati perché due in un tribunale militare hanno deciso così. È questa l’America verso la quale sono andati milioni di emigranti, sono fuggiti gli ebrei? No. Eppure è forte, ha le "bombe intelligenti" che entrano nei buchi delle montagne. Ma è una società forte? No, è una società che si indebolisce con la sua forza.
   Anche la mia amata India: non è mai stata così debole da quando è diventata così forte. Con le bombe atomiche, gli eserciti schierati sulla frontiera pachistana.

Se lei dovesse prevedere l’Afghanistan che uscirà dalla Loya Jirga del prossimo giugno..
   Tutta la vita ho fatto la Cassandra. La Cina: avevo visto dove sarebbe andata, perché le cose si sentono. E oggi devo dire che non sono molto ottimista su ciò che sta succedendo in Afghanistan. La situazione attuale è orribile. Era meglio sotto i talibani. C’era più ordine. I tagliagole del nord erano nel nord, ora sono anche nel sud. La guerra continuerà. Non c’è via d’uscita. Anche questo cammino verso una soluzione avviato dalle Nazioni Unite è balordo. Hamid Karzai, che è un uomo interessante e per bene, non ha la forza di imporre niente. Perché non ha le sue milizie. Deve dipendere dagli americani, dalla forza internazionale, dai suoi alleati tagliagole. Che sono quelli che hanno stuprato, distrutto Kabul fra il ’92 e il ’95.
   Poi ora tutti gli interessi del mondo sono di nuovo lì, in Afghanistan, a ricominciare il great game. Il grande gioco è ricominciato per gli americani, gli inglesi, l’Europa, i tagichi, i cinesi, gli uzbechi… Nessuno veramente si preoccupa dell’Afghanistan. Se gli americani si fossero davvero occupati di questo paese, non avrebbero abbandonato a se stessi migliaia di mujahiddin, dopo aver vinto la guerra contro l’Unione sovietica. E non avrebbero chiuso la loro ambasciata a Kabul, solo per ritornarci dieci anni dopo e ripiantare la stessa bandiera.
    Il problema che pongo nel libro, è poi questo: quale Afghanistan vogliono ricostruire? L’Afghanistan che sognano gli stranieri, l’Afghanistan che sognano gli afgani fuggiti all’estero che ora tornano, o gli afgani che si sono presi vent’anni di guerra, di bombe, e che hanno sogni forse molto più modesti dei sogni di costruire un paese con le Torri di acciaio e di vetro per poter offrire una sede alle multinazionali?
   Poi questi aiuti umanitari, pur necessarissimi in certe situazioni. Eppure è sempre gente che viene ad insegnarti come fare. L’Afghanistan ha una sua cultura, una sua grande storia. Quello che bisognerebbe fare, è mettere questi paesi che sono stati martoriati da decenni di guerra, sotto una campana di vetro. Proteggerli.

Chi sta raccogliendo l’eredità del Mahatma Gandhi in India o altrove?
  
Di eredi, non ne vedo. Anzi trovo che la pace non sia più di moda. Però questo non vuol dire che non debba essere giusta. E poi la moda cambia: minigonne diventano maxigonne… L’11 settembre deve aver colpito qualcosa nella coscienza dell’umanità. Perché è stato così orribile. E così mediaticamente presente nel cuore di tutti. L’hanno visto tutti: gli eschimesi, i bantù, ecc. Immaginando quel che viene dopo e vedendone un po’, uno dovrebbe dire: qui bisogna fermarsi. Questa è la mia speranza.

Lei ha un sogno?
 
No, li ho realizzati tutti. Forse quello di morire in pace. Ho avuto una vita terribilmente felice. Non ho mai lavorato. Perché tutto quello che ho fatto, lo amavo. L’avrei fatto comunque.

C’è qualcosa che l’Occidente ha dimenticato?
  
Viviamo delle vite orribili in Occidente: non ridiamo più; si è dimenticata la morte. Senza la morte, la vita diventa tremenda. Perché non c’è la gioia di ciò che passa, di ciò che è unico, irripetibile. Credo sempre di più che la bellezza della vita sia nel simbolo del tao, che è l’armonia degli opposti. Per questo dico che è sacrilego e innaturale voler eliminare il male. Innanzitutto, chi determina cos’è il male? Forse devono esserci entrambi. Si tratta di trovare un modo per raggiungere un equilibrio. Cosa sarebbe il mondo, se non ci fossero le donne? La vita senza la morte? Il giorno senza la notte? La luce senza le tenebre? L’uomo senza la sua ombra?

Alla fine del suo libro lei augura ai lettori buon viaggio, sia dentro che fuori. Se lei dovesse spiegare ad un occidentale come si fa a viaggiare dentro, cosa direbbe?
 
Innanzitutto direi: si è solo il nostro corpo? Dov’è questo io? Nel mio nome? Nel mio corpo? Se lei inizia a pensare che c’è qualcos’altro… Per viaggiare dentro, io sto da solo. Faccio silenzio. Un po’ di silenzio serve. Lo dico a tutti, soprattutto ai giovani. Se vi hanno insegnato a pregare, pregate. Prima pregavano tutti.
   Ognuno deve trovare il suo modo di fare il piano del suo essere. Dico sempre ai ragazzi: andate a casa, vi mettono davanti qualcosa da mangiare, fate il primo boccone coscientemente. Si scopre la bellezza del mondo. In Occidente quando uno è depresso, va a comprarsi un altro telefonino. È perverso. Chi guarda più il tramonto del sole? È così banale quello che dico. Lo saprebbero tutti, se ascoltassero sé stessi. Ma la gente ha paura di ascoltare la voce che ha dentro. Tutti ce l’abbiamo. Per sentirla, però, bisogna far silenzio.
   Se, a forza di andare in giro, uno accende la lampada di un altro. E quella continua ad illuminare un po’ la tenebra. Poi tutti insieme, un giorno, magari… L’uomo che noi siamo adesso, è transitorio. Cosa vogliamo diventare? Una scimmia meccanica o un uomo meno materia e un po’ più spirito? Tocca a noi. E a chi sennò? Abbiamo questa dannata coscienza. Allora, usiamola.

Quanta Asia c’è dentro di lei?
 
Trent’anni di una vita diversa, in un mondo diverso. A pensare pensieri diversi. A leggere giornali diversi. Tutto ciò fa una persona diversa. Però, in fondo, è una vernice. Dentro sono uno che più invecchia e più diventa fiorentino. Nel mio Dna c’è tutta la mia toscanità. E mi scopro non solo a fare gesti, ma anche a pensare come pensava la mi’ nonna. In realtà, tutto ciò di cui vengo accusato – che sono asiatico, indiano – è una stupidata. Perché la psiche, il cuore è uguale per tutti. Se lei è madre in India o fra gli eschimesi, ama suo figlio alla stessa maniera. È solo il modo di esprimersi che cambia. L’uomo non ha meno paura di morire o della solitudine qui rispetto a là. È che in alcune parti ha imparato a morire meglio, a stare meglio da solo.

Cosa succederà dopo questa prima fase della guerra in Afghanistan?
 
L’America è su una brutta china: limitazione delle libertà, arroganza della violenza. La speranza è l’Europa. Ha una grande chance: quella di riscoprire l’unità nella sua diversità. Noi abbiamo una lunga storia di massacri superati, di grandi conflitti digeriti. Per cui possiamo comprendere l’altro molto meglio degli americani che hanno fatto del melting pot, a pissing pot.
   L’Europa ha la possibilità di riscoprire i suoi valori, la sua storia, e di aiutare anche l’America ad uscire da questo vicolo cieco. Il problema è che l’Europa deve trovare una leadership politica più creativa. Quella attuale non è capace di inventare niente. Siccome la situazione è nuova, ci vuole gente capace di pensare il nuovo. Occorre gente che non abbia paura di perdere le elezioni, che abbia il coraggio di esporsi, di dire le cose impopolari. O magari di dire le cose semplici che sono popolari e che poi portano sacrifici.
   Oggi, in Occidente, bisogna dire chiaramente che dobbiamo dividere la nostra ricchezza. Dobbiamo cambiare atteggiamento nei confronti del mondo. La Banca mondiale, il debito, l’Organizzazione mondiale del commercio, ecc. tutto ciò va ripensato. Non potremo mai essere in pace, se gli altri sono in guerra. Non potremo mai essere felici, se gli altri non lo sono. Non potremo avere un mondo di serenità, quando c’è una metà del mondo che si preoccupa di ingrassare e l’altra che non ha da mangiare.

Lei, al momento, in Europa vede qualcuno che sia in grado di fare questo?
 
No. Però la gente c’è. Ad esempio, in questa questione della guerra in Afghanistan i governi hanno tutti preso posizione a fianco degli Stati Uniti, ma la gente no. È sempre più scettica sulla risposta militare e sui suoi risultati.

a cura di ALESSANDRA GARUSI

GIORNALISTI DI PACE

  Che cosa deve fare un giornalista di pace? Raccontare la pace, introdurre una cultura di pace. C’è già, lei stessa me ne parla. Presentarla, far capire alla gente che c’è un’alternativa. Che dinanzi all’orrore della violenza che porta violenza, si può cominciare a pensare ad un’altra via. L’ho detto, l’ho scritto. Continuerò. Ma non si chieda a me di mettermi a fondare il partito della pace, a fare comizi. Non sono io. Io sono quell’altro.
   L’altro giorno in una riunione in un vecchio manicomio un signore si alza e dice. "E io che devo fare?" Gli ho detto: "Non lo so. Ma lei che cosa faceva prima?". "Il musicista". "E allora suoni per la pace. Insegni ai giovani a godere la musica. Ne verranno delle persone migliori. Alla lunga saranno delle persone che sceglieranno cose belle".
   È già un fenomeno interessante che uno che ha scritto trent’anni fa il suo primo libro, Pelle di leopardo, che cominciava con queste parole: "La guerra è una cosa triste, ma è ancora più triste che ci si faccia l’abitudine", trent’anni dopo si accorga di non averci fatto l’abitudine. È un buon modo per ripartire.

T.T.

LE RAGIONI DEGLI ALTRI

Rispetto alla linea del Corriere della Sera, che ha ospitato i suoi interventi in questi mesi, non si sentito un po’ estraneo?
  
Non dipendo dal Corriere. Sono immensamente grato al direttore Ferruccio De Bortoli per aver ospitato i miei pezzi. Eppure resto uno stonato. Ma io sono sempre stato stonato in vita mia. Sono nato stonato. Mi vede: io sono uno sempre diverso. Quando ero giornalista in Cina, questi cinesi comunisti, ottusi, portavano i giornalisti a vedere le cose, si scendeva da un autobus e c’era subito un segretario di partito che salutava tutti. E tutti a sinistra a bere del tè, a parlare, in una stanza dove veniva raccontata una storia. E io via dall’altra parte. Poi venivo arrestato: Terzani non c’era più. Alla fine mi hanno buttato fuori dal paese.
   Ma questo è il mio istinto. Non seguo il gruppo. I’m not with the pack. È l’unica qualità che ho. Non sono né intelligente, né colto, né bravo. Per istinto, però, sono sempre interessato, incuriosito, affascinato dall’altro. Dalle ragioni degli altri. Chi sono gli altri? Nel ’73 sono uno dei giornalisti che passa le linee, va con i vietcong. Sarebbe stato più comodo stare con gli americani. Ma se fossi rimasto con gli americani, quella guerra diventava "noi contro loro".



http://www.saveriani.bs.it/missioneoggi/arretrati/2002_05/Garusi.htm



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