centro risorse per la didattica
Risorse per area disciplinare:   
Homepage
La redazione
 
Ricerca
Iscriviti alla news
Le newsletter
 
Attualità
Percorsi
Novità
Recensioni
 
Disabilità
Lavagna Interattiva
 
La tua segnalazione
Il tuo giudizio
 
Cataloghi in rete
 
DIDAweb
 

risorse@didaweb.net
 
Fai conoscere ai tuoi amici
questa pagina

 

  Cerca nel web:
Se sei un utilizzatore della toolbar di Google, puoi aggiungere anche il nostro pulsante:
Centro Risorse
  SCHEDA RISORSA


Transdisciplinare
Storia
Novecento. Il ruolo della sinistra. Il percorso della sinistra in Italia a partire dalla fine dell'Ottocento finoa ai gionri nostri, attraversando i simboli dell'immaginario e le contraddizioni della realtà, soprattutto contemporanea

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Ipermedia

Abstract:

Novecento. Il ruolo della sinistra

Tre incontri per analizzare con consapevolezza il percorso della sinistra in Italia a partire dalla fine dell'Ottocento finoa ai gionri nostri, attraversando i simboli dell'immaginario e le contraddizioni della realtà, soprattutto contemporanea.

 

1. L'immaginario tra miti, ideali e pratica

Marco Gervasoni

Per Marco Gervasoni, il concetto di "immaginario" è qualcosa di molto sofisticato e complesso, come del resto il concetto di "mito", che attualmente si insedia anche nella pubblicità. L'immaginario della sinistra italiana del Novecento (non molto diversamente dal resto della sinistra europea) si abbozza innanzitutto a partire dal pensiero dei leader, cioè, a partire da tutto ciò che passa nella loro testa, ma anche nella testa della cosiddetta base. Le forme di tale immaginario possono essere periodizzate in tre fasi.
La prima fase - grosso modo dalla fine dell'Ottocento alla prima guerra mondiale - è caratterizzata dal socialismo della Seconda Internazionale, che raccoglie da un lato una carica utopistica, e dall'altro il senso della costruzione rifomistica del quotidiano. La seconda fase è segnata fortemente dalla figura del partito, nella cui sfera il comunismo svolge la parte principale. Tuttavia il partito, come luogo dell'immaginario, influisce anche sul versante socialista, quel versante che si riallaccia alla esperienza socialdemocratica. Si può parlare di una terza fase, come detto, aperta dai movimenti del '68, che vede una polverizzazione dell'immaginario, o meglio, che ne produce una articolazione pluralista.

La dottrina marxista innerva il socialismo tra la fine dell'Ottocento e la grande guerra, però in un quadro di interpretazioni duttili e plurali, non esistendo un organismo centralizzato, nazionale e internazionale, portatore dell'ortodissia, al di là dell'influenza autorevole di Kautsky e della soscialdemocrazia tedesca. In questo periodo l'immaginario è una sorta di Giano bifronte: da un lato utopia del "sole dell'avvenire"; dall'altro realismo dei rapporti di forza e conoscenza "scientifica" di tali rapporti, esistenti nel presente quotidiano. E' proprio lo spirito "scientifico" che rappresenta il centro cruciale dell'immaginario socialista di inizio secolo. Si tratta di una cultura che si trasmette dai capi - quasi tutti di origine borghese o piccolo borghese - alle masse, come strumento di alfabetizzazione della base. Tale intreccio di scientismo e cultura utopica ha una sua efficacia nella propaganda quotidiana: le masse si riconoscono nella figura del capo carismatico, trascinatore delle folle, conoscitore della psicologia collettivista, e capace di sapiente retorica.

Dopo la grande guerra il panorama cambia, e l'avvento del comunismo produce nell'immaginario una innovazione totale. Il comunismo non nasce con la rivoluzione sovietica, ma ha forti radici nell'Europa occidentale, anche se proprio la rivoluzione ne accelera potentemente l'espansione. Ciò che avviene dopo il 7 novembre del 1917 è un mutamento radicale della funzione del partito, che diviene centrale e che rappresenta, da questo momento in poi, non solo l'oggetto dell'immaginario, ma anche il soggetto, cioè la fonte propulsiva dell'immaginario stesso. La realtà, così come appare fondata sulla divisione di classe, è un che di falso e mistificatorio, rappresenta l'immagine che la borghesia ha di se stessa e che viene spacciata come l'unica possibile. La realtà "vera" è quella che viene rappresentata dal partito, fondata sull'analisi scientifica dei rapporti sociali, veicolata dal partito stesso, che diviene anche l'unico depositario dell'immaginario di massa. Ne consegue che il capo rappresenta l'incarnazione del partito, così come dell'immaginario stesso e della vera scienza della società - il marxismo, e poi per estensione il marxismo-leninismo.

Nella percezione dell'immaginario è immediato il riferimento alla concezione del tempo. Nella cultura rivoluzionaria, quale era quella della sinistra nella prima metà del Novecento, la percezione del tempo è fondamentale. Peraltro sono da considerare culture rivoluzionarie, sia quella comunista, sia quella socialista: Turati, per esempio, è un rivoluzionario perché, al di là dei metodi, vuole comunque il socialismo. In ogni caso, sia per quella corrente socialista che darà vita al comunismo, sia per i socialdemocratici in senso proprio, il tempo è una figura cruciale. Per quest'ultimi - i socialdemocratici - centrale è il tempo presente, poichè il tempo futuro è un che di elastico, e la meta finale, cioè la società socialista, è dilatabile, procrastinabile, anche se comunque ineluttabile. Per i primi invece, cioè i comunisti, è il tempo futuro a coincidere con il presente, a incombere come emergenza imposta dall'imperialismo e dalla previsione della guerra mondiale. Dopo la rivoluzione bolscevica, è il partito che diviene depositario della concezione del tempo, e che impregna di questa concezione anche l'immaginario. E' il partito che scandisce l'accelerazione del tempo o il suo rallentamento, la vicinanza o la distanza degli obiettivi, cioè i momenti della prassi politica.

Questo predominio del partito come veicolo dell'immaginario delle masse prende scarsamente piede nelle società occidentali - diciamo quelle capitalisticamente avanzate e strutturate sulla base della democrazia rappresentativa - e subisce una profonda crepa, segnando l'inizio della fine con il '68. I movimenti del '68, anche se rimangono profondamente legati al marxismo, vedono l'eclisse del partito come luogo dell'immaginario, non ne riconoscono la figura, e ne smantellano la centralità in un pluralismo di forme della rappresentazione. Con il crollo del muro di Berlino si chiude anche questa proliferazione di rappresentazioni, che tuttavia in qualche modo sembra riaprirsi oggi con i movimenti "no global" o "new global". Quest'utimi hanno abbandonato ogni sudditanza simbolica al socialismo del ventesimo secolo, e tuttavia, curiosamente, sembrano investiti, da parte dei media dominanti, della stessa demonizzazione subita dai socialisti delle origini.

Maurizio Ridolfi
Maurizio Ridolfi esordisce chiedendosi come la sinistra sia finita nella "impasse" attuale. Non toccherebbe agli storici dare risposte legate all'attualità. Gli storici possono semmai anticipare qualche chiave di lettura. Ci si interroga sulla smarrita identità culturale e politica della sinistra. Si tratta dell'identità di una parte della vita pubblica. Qui sta il punto. Se la sinistra non riesce a ridefinire la propria identità in quanto parte, non riuscirà a ricostruire una identità più ampia e generale. La sinistra ha trasmesso storicamente un'idea di politica capace di coniugare un progetto di società, rappresentazione di interessi materiali, e passioni, cioè emozioni. Ebbene, oggi questa idea di politica la sinistra non riesce più a trasmetterla. Non riesce più a raggiungere quella sfera nella quale il sentirsi rappresentati crea emozioni, passioni, sentimento, voglia di condivisione. I suoi leader non sono più capaci di generare emozioni, come se non sapessero più comunicare. Eppure la grande forza della sinistra ha sempre trovato il suo alimento nella complessità retorica del suo linguaggio, fatto di culture e stili diversi, capace di rispondere alle aspettative di ceti sociali ampi. Solo un mix di miti, rituali della memoria, e simbologia è in grado di suscitare passioni e emozioni.

Del resto, cosa sono i miti? Sono una narrazione in forme semplificate dei grandi eventi fondanti di un'identità politica. Solitamente si tratta di immagini forti, legate a grandi eventi traumatici come una guerra vinta o perduta, oppure a un atto rivoluzionario, o anche alla formazione di un partito. Due o tre rappresentazioni mitiche, non di più, intorno alle quali si crea immedesimazione, emozione, e trasmissione del patrimonio della memoria. Però i miti non bastano: essi devono essere accompagnati da simboli, - come la bandiera rossa, la falce e il martello, ecc. - intesi, questi simboli, come condensatori e semplificatori di significati, e produttori di identità. Miti e simboli si giocano mediante la costruzione di occasioni rituali capaci di renderne sempre viva la memoria, di rinnovarne il senso, di stabilire un nesso tra generazioni, facendo vivere nel presente ciò che è lontano. Uno dei rituali più celebri, ad esempio, sono state la celebrazioni del 7 novembre, anniversario della rivoluzione, che in Urss duravano un'intera settimana.

Se queste premesse hanno un senso, si dovrebbe ragionare su quanto la sinistra ha storicamente fatto - e che non riesce più a fare da dieci anni a questa parte - con la sua capacità di stringere un nesso tra mito, simbolo e rituali della memoria. Un tale nesso delinea una forma di religione politica, laica e secolarizzata, che il socialismo e il comunismo hanno praticato come un progetto di società, un'idea di società, un'utopia di società del tutto credibili. Che tutto ciò non si sia realizzato è materia di altre riflessioni. In ogni caso una religione laica può creare un consenso che perduri nel tempo solo sulla base di alcuni pre-requisiti. Per esempio, un progetto di cambiamento che si ponga come rottura della continuità (come negli anarchici di fine ottocento, i socialisti prima della grande guerra e soprattutto i comunisti), cioè un'idea di cambiamento, di rottura del corso delle cose presenti. Si tratta di una visione di parte, ma di una parte che è interna a un progetto in cui molti possano riconoscersi, anche i non socialisti o comunisti; una parte che si riconnetta a ciò che non è parte, alla storia della comunità nazionale, rendendosi così capace di reinventare una tradizione, una identità, un modo di essere di un paese. La cultura politica di sinistra, quando è stata capace di fare questo, è entrata in gioco con la storia nazionale e ha concorso a ridefinire la memoria culturale pubblica.

Questo lo hanno fatto i comunisti. I socialisti lo hanno fatto di meno. i socialisti, nel primo dopoguerra, hanno perso la possibilità di dare una risposta alla crisi di identità dello stato liberale, non sposando l'idea della nazione in termini progressisti, e capitolando poi di fronte al fascismo proprio intorno al tema della nazione.
I comunisti in parte hanno fatto tesoro di questa esperienza. Il partito nuovo di Togliatti è nazionale nel progetto ideologico, ma solo in quello. E' il bisogno di legittimazione del PCI che ne obbliga un evidente utilizzo politico e ideologico, e che dura almeno fino a quando il PCI non diventa qualcos'altro. In questo senso il comunista che ha avuto le idee più chiare è stato Giorgio Amendola, il quale, filosovietico fino al midollo, è stato strenuo fautore di un'integrazione nazionale del partito che non è mai avvenuta. Eppure lo stesso Amendola aveva avuto altre posizioni negli anni Cinquanta, difendendo l'identità di parte e andando in rotta di collisione con questa immagine nazionale del partito. Amendola torna a riflettere su questi temi nel 1976 con il suo libro "Gli anni della repubblica", rivendicando un sorta di orgoglio comunista nell'aver contribuito a costuire un'Italia moderna, pur fuori dal governo. L'assassinio di Moro chiude ogni possibilità di integrazione nazionale del PCI e da inizio alla sua parabola discendente.
D'altra parte, il rappresentare una religione laica pone in contraddizione la sinistra con ciò che ha costituito la sua principale forza: quella di un partito educatore collettivo, costruttore di tradizioni civiche. E' la stessa contraddizione che corre tra razionalità e mito, mentre quella funzione storica della sinistra non esiste più.

Resta un ultimo problema: come parlare di politica in una società della comunicazione di massa. E' la questione della retorica, dell'eloquenza, del linguaggio. Questa questione diventa sempre più importante. Oggi nella sinistra non c'è una retorica dell'intransigenza, ma neppure una retorica del "fare", della concretezza, del progetto. In compenso c'è un inaridimento, un azzeramento, un oblìo della memoria, come se i comunisti non avessero costruito in alcune regioni d'Italia punte di modernità senza eguali, e non lo abbiano fatto in quanto comunisti. Oggi sembra che i comunisti non possiedano una storia. Da questo punto di vista il gruppo dirigente dell'ex PCI, oggi Ds, ha enormi responsabilità.
Bisogna invece riuscire a ricreare - certo in termini moderni - una miscela capace di coniugare un progetto che diventi racconto, anche attraverso i sentimenti, le emozioni e gli emblemi rappresentativi di una storia e di una cultura. Senza di ciò la sinistra non uscirà dalla sua crisi.

 

2. Patria, nazione e partiti

Francesco Somaini nella veste di presidente del Circolo Rosselli (che collabora alla organizzazione di questi incontri), introduce la terza serata ricordandone il titolo: "Patria, nazione e partiti: il nodo della religione civile", e subito presenta il primo relatore, Emilio Gentile, ordinario di Storia Contemporanea presso l'Università La Sapienza di Roma.

Tra i più noti storici italiani, Gentile è autore di una copiosa produzione di opere sulla storia del Partito Nazionale Fascista, sulla cultura del fascismo e sulla via italiana al totalitarismo, e più recentemente, sui temi della religione civile e della sacralizzazione della politica. Una ricerca che muove proprio dagli studi sul fascismo e sul culto del littorio e produce una sintesi del fascismo stesso. "Le religioni della politica", edito da Laterza, è uno dei suoi libri più recenti.
(N.B. - Dell'intervento di Emilio Gentile verrà resa pubblica più avanti una sintesi curata dall'autore stesso).

Barbara Bracco
Professore associato di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, autrice di "Storici italiani e politica estera", "Tra Salvemini e Volpe dal 1917 al 1926", "Lezioni milanesi di storia del risorgimento di Gioachino Volpe", e "Memoria e identità dell'Italia della Grande Guerra. Ufficio storiografico della mobilitazione 1916 - 1926", sollecitata a soffermarsi sul tema della religione civile, muove da un atteggiamento dubbioso intorno alle possibilità che una "sacralizzazione" della nazione, e quindi una condivisione dei valori nazionali da parte della comunità - vale a dire, appunto, i tratti essenziali della religione civile - possano costituirsi in Italia.

La percezione di una religione civile è sempre stata fragilissima in questo paese, ed è piuttosto l'idea di una nazione incompiuta che ha accompagnato gli italiani dal Risorgimento al fascismo, tanto che nel secondo dopoguerra quel sintagma è scomparso perfino dagli orizzonti storiografici. Solo a partire dalla metà degli anni Ottanta la riflessione intorno alla religione civile e alla "sacralizzazione" della nazione è tornata al centro dell'interesse degli storici e del mondo politico italiano, in primo luogo, a causa del manifestarsi della crisi dei partiti, e in secondo luogo - secondo non certo per ordine di importanza -, con il precipitare della crisi internazionale simbolizzata in particolare dalla caduta del Muro di Berlino e dall'implosione del sistema sovietico.

I tentativi di costruzione di una religione civile si sono accelerati negli ultimi anni fino a sostanziarsi in forme di ricomposizione della memoria e del passato messe in campo dalle istituzioni nel loro complesso - dal capo dello stato agli amministratori comunali. Si deve dire che un certo modo di maneggiare la storia ai fini di una cosiddetta pacificazione nazionale presta il fianco a qualche mistificazione, soprattutto in quell'aspetto che tende a considerare la morte un valore che annulla qualsiasi differenza, e confonde le idee. Le recenti cerimonie intorno alla battaglia di El Alamein ne rappresentano la prova lampante. Si tratta di una battaglia sbagliata in una guerra sbagliata, la cui commemorazione reca in sé un grande pericolo: che il passato venga esaltato a partire dalla rappresentazione della morte, sulla base della quale la religione civile rischia di cedere definitivamente il passo alla religione tout court. Un rischio accentuato dalla totale assenza di memoria diretta e indiretta nei giovani di oggi.
Un certo processo di avvicinamento ha comunque mosso i suoi primi passi nell'Italia post-risorgimentale, tuttavia reso fragile proprio dai soggetti che lo agivano - la monarchia, la chiesa cattolica, il mondo liberale - che apparivano spaventati soprattutto dalle masse, cioè proprio dal soggetto destinatario della religione civile. Eppure la parte mazziniana e democratica da un lato, e gli eretici del Risorgimento e la tradizione socialista dall'altro, si sono confrontati in questo senso nel corso dell'età liberale.
La prima guerra mondiale e l'immediato dopoguerra disegnano comunque un certo abbozzo di religione civile: il culto del milite ignoto, con la sacralizzazione del corpo del caduto, che rappresenta un punto di equilibrio quasi interclassista e trasversale ai ceti sociali. Tale equilibrio si frantuma dopo il 1922. La divisione del paese non avviene nel 1943, ma risale proprio al 1922. Se una certa religione civile sopravvive, malgrado tutto in settori dell'esercito e dell'antifascismo, o anche in certe monumentali opere quali La storia d'Europa di Croce, non bisogna dimenticare che l'antifascismo, articolato in diverse sensibilità politiche, rappresenta il fondamento di una polverizzazione di culture che si riprodurrà nel sistema dei partiti. Le due date cruciali, feste nazionali della repubblica italiana, il 25 aprile e il 2 giugno, sono in realtà date di divisione. La prima simboleggia la divisione tra antifascisti e camicie nere, la seconda tra repubblicani e monarchici. E' da chiedersi comunque se due grandi partiti come la DC e il PCI, portatori più che altro di una religione politica, non abbiano rappresentato, con la loro tensione alla ricucitura del paese, una qualche possibilità di costituzione di una religione civile. E' da chiedersi, insomma, se una religione civile non sussista anche in Italia, e non si trovi semmai nascosta sotto la maschera che le hanno appiccicato i partiti stessi.

Alceo Riosa

Il compito di tracciare un profilo della religione civile allargato alla dimensione europea è affidato ad Alceo Riosa, ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano, uno dei più autorevoli storici del Movimento Operaio, studioso del sindacalismo rivoluzionario e dei suoi rapporti con l'esperienza del riformismo sindacale e politico nell'Italia del primo Novecento, attento indagatore delle varie tipologie di storia del Novecento costitutive delle religioni politiche e civili.

L'esistenza di una religione civile in Italia è un tema che non può essere isolato da un contesto più ampio, cioè da una dimensione europea. Se esista una religione civile europea è quindi la domanda da porsi. Prima però si tratta di definire l'Europa, che cosa essa sia, e quali siano i confini di tale entità, dato che risultano incerti. Per dare una risposta credibile, bisogna tenere presenti le due profezie dell'Europa nell'Ottocento e nel Novecento. Da un lato l'idea ottocentesca del compimento di un processo storico di formazione delle nazioni, dall'altro il concetto novecentesco di degenerazione che vede sorgere una deriva antiliberale in direzione del nazionalismo.
Quest'ultima tendenza, propria del Novecento (che per esempio Mazzini non aveva potuto scorgere), è volta a eccedere il processo di formazione delle nazioni per attingere un'idea di Europa venata di profonda religiosità, una sorta di "ritorno all'eterno", come lo intendeva Benda, che spazza via la "chincaglieria dei nazionalismi". Un'idea platonica e metastorica, che invoca quasi asceticamente l'anima spirituale europea contro la storia delle nazioni, quest'ultima intesa come foriera del morbo del nazionalismo. Questa sorta di ritorno al passato come ritorno al'eterno sembra faccia il verso alle concezioni cristiane e cattoliche dell'Europa. Qui c'è un pericolo, perché è difficile per l'Europa sfuggire al potere seduttivo della croce dopo le immani tragedie che l'hanno percorsa, e tuttavia è da chiedersi se una coscienza laica non debba prendere le distanze da una tale fascinazione. Una posizione che corre il rischio di avvicinare l'Europa a un certa visione antifascista che però, al tempo stesso, è anche una visione antidemocratica.

In realtà l'Europa non si può fare senza la sua storia, e a questo proposito Il richiamo di Barbara Bracco alla Storia d'Europa di Benedetto Croce è molto pertinente, dato che in quell'opera si trova, sia pure allo stato potenziale, proprio il senso di una religione civile europea. Una coscienza laica europea deve prendere le mosse da questo punto, anche se non può ignorare la contraddizione che nasce proprio dalla sua storia, cioè dalla storia delle nazioni, attraversata da guerre che separano vincitori e vinti. Si deve cercare il mito fondativo dell'Europa nella rivoluzione francese, oppure lo stesso mito non deve magari nascere anche dalla grande tragedia della seconda guerra mondiale? Ma è possibile costituire un mito sulla base di una profonda lacerazione, sia pure riferita al passato? Attualmente il panorama europeo esibisce una grande povertà di simboli unificanti, tranne forse l'inno ufficiale, che è, appunto, l'inno alla gioia, di Beethoven. Tuttavia si tratta di un qualcosa di giustapposto, per così dire, che non ha nulla a che vedere con la forza evocativa degli inni nazionali.
A proposito di simboli, se il dollaro è autenticamente tale, l'euro non è un simbolo, ma è piuttosto un'allegoria, vale a dire l'unico emblema possibile di una religione civile europea, qualcosa che presuppone un'argomentazione, un ragionamento.
Se una coscienza civile non può fondarsi su un apparato simbolico, per costituire una religione civile europea è necessaria allora una potente opera pedagogica, una sorta di "Libro del popolo" come lo intendeva Goethe, che raccolga tutto ciò che sta dentro e anche ciò che sta fuori, cioè la rappresentazione dei rapporti interni ai popoli europei, ma anche dei rapporti esterni, quelli che contribuiscono alla formazione della coscienza di sé. E i contenuti di questa pedagogia non possono essere altro che i valori peculiari di cui l'Europa è portatrice: lo stato sociale, il solidarismo, e soprattutto l'esperienza dei grandi movimenti sindacali che nessun altra regione del mondo ha mai visto.


3. Sinistra e modernizzazione

Presentando l'argomento della serata, Mattia Granata, coglie l'occasione per mettere in rilievo l'importanza complessiva degli incontri sul Novecento organizzati dalla Casa della Cultura in collaborazione con varie associazioni sorte nel cuore della società civile, lasciando cadere l'accento sulla peculiarità di tale iniziativa, che è pensata in quanto svincolata dall'attualità politica, e piuttosto come un qualcosa di finalizzato alla ricerca di percorsi inediti per le prospettive politiche e culturali della sinistra.

Michele Salvati, docente di Economia presso l'Università degli Studi di Milano, prende lo spunto dal titolo stesso del presente incontro per rilevare come siano in questione le forme dell'agire della sinistra europea dentro i due grandi cambiamenti economico-sociali del Novecento: il passaggio dall' economia rurale all'economia industriale, e il passaggio dall'industria al terziario. Passaggi che segnano naturalmente anche un mutamento nella composizione sociale. Il primo è un passaggio che vede masse di popolazione che si spostano dalla campagna alla città, il secondo, invece, trova queste masse già inurbate, e spostate verso un cambiamento dello status lavorativo. La realtà del presente, della società cosiddetta post-industriale, è segnata da una preponderanza del terziario, che accoglie ormai dal sessanta all'ottanta per cento dell'occupazione complessiva, e in particolare tutta la nuova occupazione. Si tratta di rapporti percentuali che si riscontrano in tutte le società di antica o meno antica industrializzazione, dagli Usa, alla Germania, alla Francia, e che non possono non influenzare profondamente le strategie delle sinistre attuali, dato che il terziario è un settore estremamente diversificato, eterogeneo e caratterizzato da livelli salariali molto bassi e da una precarietà molto alta.
Nel corso della prima grande trasformazione - dall'agricoltura all'industria manifatturiera - l'evento più cruciale è rappresentato dalla rivoluzione industriale. Un evento di distruzione, di trasformazione e di ricostruzione radicale e totalizzante, dai caratteri decisamente epocali, descritto da Marx nel "Manifesto del partito comunista", nei suoi lati positivi e negativi, con una capacità analitica e una suggestione letteraria di rara potenza. La sinistra come oggi la conosciamo, la sinistra socialista, la sinistra del movimento operaio, viene da qui, dalla grande lacerazione rappresentata dalla rivoluzione industriale e dalla distruzione del vecchio mondo che ne è conseguita, e insieme dall'irrompere di nuove e dilanianti contraddizioni sociali con il loro carico di sofferenze umane.
Ma non si tratta della prima sinistra. E' stata preceduta da un'altra sinistra di radici borghesi, una sinistra per lo più repubblicana, liberale, sorta dopo la rivoluzione francese, antecedente all'avvento sulla scena europea delle masse proletarie. E' la sinistra dei ceti mercantili borghesi, che combattono contro le pastoie dell'ancien régime, e rivendicano diritti civili negati da una nobiltà legata alla terra e al mondo rurale. Sarà poi il movimento operaio che saprà coniugare libertà civili e libertà sociali e politiche, prendendo il sopravvento e sovrastando questa esperienza liberal-borghese, che alla fine verrà quasi occultata dall'immaginario e dalla cultura della sinistra socialista. Naturalmente questo prevalere del socialismo va di pari passo con lo sviluppo industriale, con l'arrivo delle grandi fabbriche e con la formazione delle masse proletarie. Sono i socialisti che danno voce, identità e risposte a queste masse sradicate, alle loro sofferenze e ai loro bisogni.
Non si deve comunque dimenticare che per quasi un secolo dopo la rivoluzione francese il socialismo è stato un qualcosa di inesistente, e che invece è esistita questa sinistra liberale, che è stata egemone, peraltro, fino alle soglie del Novecento. E tuttavia si tratta di una sinistra che sconta una debolezza di pensiero, estendibile a tutta l'ideologia liberale, che consiste nella incapacità di coniugare le libertà civili e politiche con le libertà sociali. Il movimento operaio ha buon gioco nell'accusare una tale ideologia come élitaria, espressione propria dei ceti abbienti, cieca di fronte ai bisogni primari di masse impoverite e spesso affamate, e rivendica uguaglianza sociale, progresso civile, e governo del mercato, cosa, quest'ultima, assolutamente estranea al pensiero liberale.

Sulla base di queste rivendicazioni i partiti socialisti vedono all'inizio del Novecento un successo travolgente. Un successo che si fonda su una precisa ideologia incardinata su due punti: il rifiuto del formalismo della democrazia borghese, cioè di quel prevalere dell'uguaglianza solo formale a scapito di quella sociale-reale; il rifiuto del mercato, almeno riguardo alla proprietà dei mezzi di produzione, vale a dire quel nodo cruciale che definisce il capitalismo.
Prima che questi due punti vengano superati, e prima che i partiti socialisti abbandonino una critica radicale del mercato, si deve aspettare il secondo dopoguerra, e per alcuni di essi, il dopo '89. Il cambiamento di posizione avviene con la grande industrializzazione degli ultimi trent'anni, grosso modo tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta. In Italia sono gli anni delle grandi immigrazioni dal sud di enormi masse rurali che incontrano una condizione proletaria, già sperimentata prima in altre parti d'Europa con la generalizzazione del taylorismo. Anni che vedono la crescita massiccia del sindacato.
È nella seconda metà degli anni Settanta che appare con tutta evidenza un fenomeno già incubato in precedenza nei paesi industriali più avanzati: la crisi del modello produttivo fordista-taylorista. È una crisi che si porta dietro una dinamica inflattiva che la sinistra non riesce a padroneggiare. È proprio nel cuore di tale crisi inflazionistica, generata anche da forti tensioni sociali cui le sinistre non riescono a dare risposte, che prende il sopravvento una politica di destra, regressiva, anti-keynesiana, con la vittoria, democraticamente ottenuta, di Margaret Thatcher in Inghilterra, di Ronald Reagan negli USA, e così via. Fino a quel punto le socialdemocrazie avevano avuto un enorme successo, sulla base soprattutto di idee non marxiste come la piena occupazione, la lotta alla povertà, la previdenza sociale, la tendenza al benessere collettivo, prospettate all'interno dell'economia di mercato, però temperata nei suoi spiriti distruttivi.
L'incapacità di dare risposte ai processi inflazionistici da parte della sinistra, unita alla natura squisitamente corporativa di certi sindacati, specie quelli anglo-americani, scatenano, per così dire, il vento di destra, lasciando il campo a una logica di attacco alle conquiste sindacali messa in pratica principalmente con la creazione di fortissime sacche di disoccupazione. La destra prevale sulla base di politiche deflattive e di una sfrenata liberalizzazione del mercato, compreso quello dei capitali. E' l'inizio della cosiddetta globalizzazione, che peraltro non è cosa nuova, anzi, risale alle famose regole di Bretton Woods, ma che compie un enorme balzo negli Usa con Reagan, sulla base di precise decisioni prese all'inizio degli anni Ottanta, supportate peraltro da una cultura via via sempre più egemone.
La sinistra, avendo scelto il mercato e i meccanismi della democrazia formale, è oggi costretta a ricostruirsi di sana pianta, se vuole in qualche modo rispondere alle culture del liberismo selvaggio, che - non dimentichiamolo - hanno prevalso sulla base di una delegittimazione delle teorie della sinistra liberale, quelle keynesiane in particolare (si ricordino le tesi di Milton Freedman) e hanno ottenuto consenso attraverso processi elettorali di legittimazione democratica. La sinistra probabilmente - e non è una cosa esaltante - tornerà a vincere quando questo sistema liberista selvaggio avrà prodotto disastri tali da rivelarsi insostenibile. C'è da augurarsi che la sinistra, se deve tornare indietro, cioè guardare di nuovo a certi suoi presupposti, lo faccia sulla base dell'esperienza socialdemocratica, e non sulla base di un modello di economia pianificata, che sempre implica il partito unico.

Alberto De Bernardi, docente di Storia Contemporanea presso l'Università di Bologna, precisando che le conclusioni del suo intervento si avvicineranno alle tematiche toccate da Salvati, muove dal Novecento come secolo segnato da un doppio motore di cambiamento: innanzitutto l'industrializzazione, ereditata dall'Ottocento con tutta la sua carica progressiva, e in secondo luogo - ed è questa la caratteristica del secolo - l'avvento delle masse e quindi delle politiche di massa. Si tratta di un fenomeno del tutto nuovo (anche se i suoi prodromi si intravvedono già nel secolo precedente) in cui si verifica l'incontro tra la sfera dei diritti politici e civili e la società nel suo insieme. E' un incontro che cambia la forma della politica, e i modi stessi di rapportarsi alla politica del movimento operaio, e ciò avviene con l'irruzione di nuove modalità, ideologie, mitologie che la tradizione della società liberale non conosceva. Si verifica una straordinaria coincidenza tra la cosiddetta seconda rivoluzione industriale - quella che si definisce fordista-taylorista - e la massificazione della società, con conseguente irruzione di nuovi soggetti che impongono un allargamento della base della rappresentanza politica da cui in precedenza erano esclusi.
In due punti cruciali la politica viene trasformata dalla massificazione sociale. In primo luogo nelle forme di governo del cambiamento e della trasformazione dello Stato, che vedono non solo la caduta dello Stato liberale (precipitata dopo la grande guerra), ma anche il sorgere di nuovi compiti per il movimento operaio, che si trova nella necessità di mettere a punto risposte alle istanze delle masse, e questo spiega come, ad esempio, la rivoluzione bolscevica rappresenti un'esperienza essenzialmente novecentesca, inedita rispetto alla tradizione socialista del secolo precedente, e come sorga, semmai, da una contestazione radicale di tale tradizione, ivi compresa quella trade-unionista.
L'esperienza bolscevica irrompe nella tradizione socialista tardo-ottocentesca come un qualcosa di lacerante che frantuma le teorie riformiste alla Bernstein e apre un orizzonte del tutto differente per il movimento operaio. Un orizzonte che, paradossalmente, si oscura dopo il fallimento della rivoluzione in occidente proprio per aver sgretolato la tradizione riformista, la quale però si rivela incapace di porsi all'altezza della nuova società di massa (e qui il fallimento della repubblica di Weimar appare illuminante). E' proprio tale inadeguatezza del riformismo che lascia lo spazio a un'altra prospettiva di tipo rivoluzionario, quella nazionalista, segnata da un'essenza profondamente reazionaria, che alla fine vince in Europa e anche oltre l'Europa, con un suo progetto di modernizzazione fondato su una struttura gerarchica e sulla negazione dell'uguaglianza come condizione del benessere diffuso. Nell'irruzione vincente di questa cosiddetta rivoluzione nazionalista - il fascismo in Italia e in Spagna, il nazismo in Germania, e così via - consiste il secondo evento cruciale che si produce con l'avvento della politica di massa.
Il movimento operaio tra le due guerre si trova intrappolato all'interno di una specie di tenaglia: da un lato, l'esperienza vincente della rivoluzione sovietica, che però non ha trovato sbocchi nell'occidente; da un altro lato, il modello nazionalista dei vari fascismi, da un terzo lato, la presenza delle democrazie rappresentative occidentali. Il nodo da sciogliere per il movimento operaio occidentale è proprio quest'ultimo: in quali forme collocarsi dentro le democrazie, avendo da scontare una totale ristrutturazione del riformismo bernsteiniano, e tanto più in presenza di un'esperienza come quella del New Deal, che viene dalla democrazia americana.

Alla fine della seconda guerra mondiale, cancellata dalla storia l'esperienza dei fascismi, accanto all'ipotesi comunista rimane in piedi per il movimento operaio - e in forme non più instabili come tra le due guerre - proprio l'ipotesi della democrazia rappresentativa. E' in questa prospettiva che si produce una forza propulsiva, che dà un impulso alle democrazie, che modella lo stato sociale e che prospetta un'integrazione delle classi subalterne in un progetto di libertà formali, di diritti di piena cittadinanza, e di promesse di benessere. Il movimento operaio, compreso il partito comunista, si dispone in questa direzione, modificando spesso l'impianto culturale. Tuttavia all'interno della prospettiva democratica, la forma di classe non solo permane, ma si approfondisce man mano che il processo di industrializzazione di tipo fordista si sviluppa. Il movimento operaio mantiene il suo fondamento nella rappresentanza della classe operaia e delle masse proletarie, anche se rimangono sacche rurali che, per esempio in Italia, e in particolare in Emilia, hanno un peso enorme nella formazione della base comunista. Ed è fuori di dubbio - pur restando l'esperienza sovietica un forte polo di attrazione - che sia la socialdemocrazia europea il modello più vitale nel governo del cambiamento. Il comunismo sovietico appare comunque talmente improponibile per l'occidente (e del resto i partiti comunisti occidentali lo sapevano bene), che nel momento in cui si esaurisce il modello fordista, e conseguentemente le coesioni sociali che aveva prodotto nel bene e nel male, è proprio la cultura riformista che va in crisi, e la socialdemocrazia si trova con le armi spuntate e senza risposte di fronte al dilagare del neoliberismo e ai suoi assalti allo stato sociale.
E' da chiedersi se una risposta a un tale nodo attuale possa essere ancora concepita in una prospettiva socialista, cioè fondata sulla sua tradizione, senza che tale prospettiva venga ripensata radicalmente, e riportata magari all'idea originaria, profondamente marxiana, del movimento che trasforma lo stato presente delle cose.



http://www.casadellacultura.it/site/materiali/archivio/politica/002_sinistra_novecento.html



I giudizi degli utenti

Assenti

Aggiungi il tuo giudizio    Precedenti risultati   


  Iscriviti alla news
Ricevi in posta elettronica le novità e una selezione di risorse utili per la didattica.

Iscriviti qui


Novità
Le ultime risorse per la didattica catalogate ed inserite nel nostro database.

 

 

PRESENTARSI
Proposta d'apprendimento di italiano per stranieri - livello A1

 



ENGLISH LESSONS AND TESTS.

Percorsi
Proposte di selezioni e percorsi fra le risorse e i materiali in archivio.

Percorsi
Feste e calendari multiculturali.
Calendari solari e lunari, festività religiose e tradizionali delle diverse culture.

Percorsi
Steineriane
Le ''scuole nuove'' della pedagogia steineriana, contrassegnate dal paradosso di un’accettazione pratica e di un’ignoranza teorica da parte degli stessi utenti e degli operatori della scuola pubblica, tra ''fedeltà karmica'', incarnazioni di individualità che ritornano sulla terra, bambini indaco e apparente buon senso pedagogico.

  Ambiente virtuale collaborativo in evoluzione ideato e sviluppato da Maurizio Guercio è una iniziativa DIDAweb