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Storia
I campi del duce: l’internamento dei civili e le deportazioni sotto il fascismo. Angela L. Garofalo commenta un libro, edito da Einaudi, su drammatici dati, oggi nel totale oblìo

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media inferiore, Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:
Internati e violenze nei “campi del duce”
Angela L. Garofalo commenta un libro, edito da Einaudi,
su drammatici dati, oggi nel totale oblìo


L’internamento civile italiano durante il regime fascista è un fenomeno rimasto sepolto, per quasi mezzo secolo, nell’oblìo della memoria del nostro paese.
La tragedia vissuta in quel periodo è una realtà che probabilmente appartiene più ai ricordi personali di chi l’ha vissuta che a quelli della collettività. Una simile “rimozione storica” appare incomprensibile e inaccettabile, soprattutto perché legittima una visione distorta e sommaria del passato.
Un recente saggio di Carlo Spartaco Capogreco, «I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943)» (Einaudi, pp. X-320, € 16,00), ricostruisce, sulla base di una documentazione attenta e accurata, quei drammatici fatti, alzando un velo su questa pagina dimenticata, forse perché ritenuta “imbarazzante”, della storia.
L’immagine stereotipata degli italiani “buoni e sensibili”, incapaci di emulare le nefandezze commesse dai nazisti; e il confronto con Auschwitz, considerato il luogo-simbolo dell’orrore, del genocidio e dell’olocausto, hanno portato ad una sin troppo facile assoluzione delle nostre responsabilità durante il regime.
A ciò si aggiunga una diffusa volontà, dopo la fine del conflitto bellico e l’esaurimento dell’esperienza fascista, di “ricostruirsi una reputazione” scevra di colpe troppo infamanti da sostenere.
Si consideri poi che l’istituzione dei luoghi d’internamento italiani aveva una “ratio” ben diversa (allontanare soggetti ritenuti “pericolosi”) rispetto a quella dei campi nazisti.

Amnesie e rimozioni storiografiche
Capogreco, storico, esperto di questi temi e autore, tra l’altro, di diverse pubblicazioni sul campo di concentramento di Ferramonti a Tarsia, evidenzia che «sia l’insabbiamento delle indagini sui criminali di guerra italiani che l’epurazione di facciata del personale coinvolto col fascismo contribuirono al formarsi di una coscienza collettiva della recente storia nazionale largamente autoassolutoria e rassicurante». Si è preferito, insomma, edulcorare ed occultare quegli eventi piuttosto che ammettere i propri crimini.
Questa bonaria e ingenua (?) valutazione dei fatti è stata avallata, per esempio, anche da un intervento dell’attuale presidente del Consiglio, il quale, nel settembre 2003 –“dimenticando” non solo le violenze e i soprusi, ma anche i linciaggi e le fucilazioni – dichiarava che: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno; […] mandava la gente a fare vacanza al confino».
Sembra chiara l’importanza di confutare simili “certezze” storiche.
Nel suo libro l’autore denuncia sin da subito l’intento di «dare “visibilità” ad un argomento tuttora sconosciuto, attraverso un inquadramento generale della materia e una mappatura storico-geografica dei campi».
Un’impostazione rigorosa, dunque, che si propone di illustrare le pratiche di internamento adottate, i gruppi di persone colpite dai provvedimenti emanati dal regime e la vita degli internati, cercando di sciogliere anche alcuni nodi problematici (come la distinzione tra internamento civile “regolamentare” e “parallelo” e quella tra campi di internamento e di concentramento, questi ultimi ritenuti illegittimi poiché le persone vi erano state rinchiuse «con l’abuso e in spregio alla legalità» dello stesso regime).

L’Italia fascista e le strutture d’internamento
Il testo inizia, significativamente, con la testimonianza di un civile iugoslavo deportato e internato (cioè rinchiuso in un campo di concentramento) in provincia di Udine durante la Seconda guerra mondiale: «La tradotta che partì da Lubiana […] giunse a San Giorgio di Nogaro verso mezzogiorno. Fu allora che ci venne comunicata la nostra destinazione: campo di concentramento di Gonars. Ci trasferirono con un treno locale […]. Nel primo paese […] fummo accolti da una folla di donne, bambini e anziani. Il nostro aspetto era deprimente. Assonnati, con la barba lunga, mal vestiti, assetati e affamati […]. Le donne e i bambini incominciarono ad inveire contro di noi […]. Fummo oggetto di lanci di frutta avariata […]. Dal nostro gruppo qualcuno esclamò in italiano: “Non siamo banditi, ma studenti buttati giù dai letti solo perché antifascisti! Lottiamo per la liberta!”. Le sue parole, però, non sortirono alcun effetto. Evidentemente la gente era stata condizionata dalla propaganda fascista».
Come appare evidente, il trattamento che gli italiani riservarono agli internati fu tutt’altro che benevolo.
Istituiti dal Ministero dell’Interno nel giugno del 1940 per «il “normale” internamento di guerra degli stranieri nemici e/o indesiderabili», i campi “ospitarono” antifascisti, allogeni (le minoranze etnico-linguistiche presenti in Italia e nei territori annessi), zingari, ebrei (italiani e stranieri) e “sudditi nemici” (ovvero residenti nel nostro paese ma appartenenti a nazioni “rivali”).
A seguito dell’entrata in guerra dell’Italia furono, infatti, internati cittadini stranieri ed italiani ritenuti, per varie ragioni di sicurezza e ordine pubblico, pericolosi. Questo provvedimento si esplicò attraverso l’internamento “libero” e quello nei campi di concentramento. Nel primo caso gli individui venivano obbligati a soggiornare in zone periferiche della penisola; nel secondo, invece, erano costretti a risiedere in apposite strutture. Nei territori occupati si praticò anche un internamento “parallelo”, svincolato dalla normativa regolamentare e gestito dall’esercito.

La drammatica realtà dei campi
In Jugoslavia (sia nelle terre slave annesse, sia in quelle occupate militarmente) l’esercito italiano ricorse a metodi brutali che prevedevano fucilazioni di civili e distruzione dei villaggi. A questo proposito si veda quanto abbiamo già denunciato sulla nostra rivista “consorella cartacea” (Antonio Tripodi, «Venezia Giulia e precarie convivenze: nazionalismi e realtà plurietniche», in «Rnotes», n. 16, febbraio 2004, pp. 40-42).
Nel quadro di un progetto di “pulizia etnica” in quei territori, migliaia di persone furono deportate e internate.
Le scarsissime condizioni igieniche, il freddo, il sovraffollamento, la fame, la denutrizione e l’insorgere di diverse malattie contraddistinsero un gran numero di campi italiani, e molti internati morirono in conseguenza dei forti disagi che furono costretti a patire.
Il libro offre una descrizione accurata delle sessantatré strutture d’internamento, dislocate in Italia e nei territori jugoslavi annessi. Non mancano i resoconti che testimoniano, in alcuni casi (esempio emblematico fu il campo di Arbe), una situazione desolante di dolore e morte. Mario Cordaro, ex ufficiale medico, racconta che nel campo di Gonars «il nostro lavoro era divenuto bestiale, ma purtroppo non potevamo fare altro che constatare la nostra impotenza, sia perché i malati non venivano aiutati con la dieta, sia perché c’era una grande scarsezza di medicinali. Il cimitero […] non poteva più accogliere i morti che si contavano a varie decine ogni giorno e così fu in fretta costruito un nuovo cimitero».
Tali testimonianze ribadiscono la necessità di riscoprire e ripensare avvenimenti che, per quanto siano poco edificanti, sono appartenuti alla storia della nostra nazione.

Angela Luisa Garofalo

(«www.scriptamanent.net», anno II, n. 13, luglio 2004)


http://www.scriptamanent.net/scripta/public/dettaglioNewsCategoria.jsp?ID=1000588



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