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Educazione linguistica Italiano
'900: le riviste artistiche e letterarie, schede, luoghi e  approfondimenti.

Lingua: Italiana
Destinatari: Formazione post diploma, Alunni scuola media superiore
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

Le riviste letterarie

    Sommario: La Voce - La Ronda -. Il Marzocco – Leonardo – Hermes - Lacerba Solaria - Il Selvaggio - 900  -  Frontespizio

Le riviste letterarie

     Tra le riviste del primo Novecento due ebbero un particolare peso, e furono “La Voce” e “La Ronda”, poi anche altre sia a Firenze che nel resto d’Italia.

     Se ne consideriamo globalmente l’attività, possiamo dire che il loro ruolo letterario fu di primaria importanza perché fu proprio attraverso di esse che molti giovani poeti esordienti poterono farsi conoscere ed apprezzare, entrare in contatto tra loro, discutere di letteratura, trovare alla fine la propria strada. In particolar modo giovevoli furono l’attività di traduzione di poeti contemporanei stranieri, ed in ispecie dei simbolisti francesi, nonché l’apertura a posizioni di avanguardia come quelle espresse dai futuristi.

     Ad un livello diverso attraverso queste riviste l’Italia superò gli angusti limiti provinciali, entrò in contatto con le più importanti correnti di pensiero, le poté assimilare. Così le riviste fiorentine condussero una battaglia contro il Positivismo, il metodo storico, l’erudizione, il materialismo. Nello stesso tempo fecero conoscere e diffusero il pensiero di Nietzsche, di Bergson e di James. In maniera particolare il pragmatismo e la teoria dello slancio vitale furono poi utilizzati in politica, sia per sostenere l’interventismo, che per condurre una battaglia contro il sistema parlamentare.

     E questa è la terza caratteristica delle riviste, cioè l’impegno politico che si espresse soprattutto in due direzioni: la lotta al socialismo e la critica del sistema parlamentare democratico. Poiché quest’ultimo fu in qualche modo il Leitmotiv ideologico di tanti intellettuali del tempo, a scanso di equivoci occorre riflettere sul fatto che v’erano molti motivi che portavano ad una critica serrata nei confronti del sistema parlamentare, ed erano questi la politica del trasformismo (che naturalmente mortificò la vita parlamentare), la politica economica volta a sostenere soltanto le industrie del nord, la maniera disinvolta di gestire le elezioni da parte dei prefetti giolittiani nel mezzogiorno d’Italia (Salvemini definì Giolitti “ministro della mala vita”), gli scandali continui in cui rimanevano coinvolti anche i capi di governo (vedasi quello della Banca Romana), la questione meridionale, che solo a chiacchiere si voleva risolvere. Ed è il caso di ricordare anche che questa insoddisfazione per il sistema durò a lungo e che lo sbocco politico che vi si trovò fu il corporativismo poi introdotto da Mussolini come elemento qualificante il suo Fascismo. Per tornare alle nostre riviste aggiungiamo che elementi politicamente caratterizzanti furono anche il crescente nazionalismo, l’appoggio al colonialismo e il mito della potenza e della gloria d’Italia, prossima alla sua rinascita. Da ultimo ricordiamo la componente culturale anticristiana che non si limitò ad una affermazione di paganesimo, ma si svolse, riesumando un vecchio ciarpame ideologico, con attacchi diretti e frontali, sia alla dottrina morale cristiana, sia alla Chiesa come istituzione, nella proclamazione, tanto orgogliosa quanto provinciale, di un anticlericalismo militante.

 

 

“La Voce”

     

     Espressione del fermento culturale del paese e della personalità di alcuni intellettuali assai dinamici “La Voce” fu fondata a Firenze nel 1908 da Giuseppe Prezzolini.

     Nonostante la sua breve durata, sospese infatti le pubblicazioni nel 1916 con i problemi determinati dall’ingresso in guerra dell’Italia, essa ebbe una movimentata esistenza che comunemente viene periodizzata in quattro fasi.

     La prima fu quella della direzione di Prezzolini, che durò sino al 1912; la seconda fu una breve parentesi, durante la quale la direzione fu assunta da Giovanni Papini; la terza vide il ritorno di Prezzolini che la tenne dalla fine del 1912 al ‘14; la quarta infine va dal 1914 al ‘16 quando la direzione fu affidata a Giuseppe De Robertis.

     Il titolo era assai suggestivo ed esprimeva la volontà di Prezzolini di “dare voce” appunto agli intellettuali, di fare della rivista di volta in volta “pulpito, tribuna, palestra”. Il programma che “La Voce” si proponeva fu illustrato in un articolo comparso nel 1911 e probabilmente scritto dallo stesso Prezzolini. Vi leggiamo: “ Tre anni or sono, allorché ci riunimmo per fondare “La Voce”, ci trovammo concordi nel riconoscere un particolare carattere della vita italiana: la poca influenza esercitata dagli ambienti colti sullo svolgimento della politica nazionale e la poca attenzione consacrata da questi ambienti alle questioni politiche , pratiche, sociali...Noi della “Voce” ci eravamo riuniti con lo scopo di intraprendere una critica della vita italiana diretta a rialzare i valori della nostra cultura e della nostra vita pratica; perciò ci trovammo subito di fronte al problema dei rapporti tra politica e cultura. E ci parve...di poter trarre queste conclusioni: che gli uomini di cultura hanno il dovere, in Italia, di occuparsi di questioni politiche onde arricchire la coscienza politica della Nazione...”. Dunque la rivista nasceva dall’esigenza di sviluppare un dibattito culturale ad ampio raggio, che determinasse poi le scelte della classe politica al potere; come pure da quella di controllarne e valutarne l’operato ponendosi nei suoi confronti in una posizione non servile. Così agli inizi “La Voce” accolse articoli, spesso di grande valore, strettamente legati all’attualità e che spaziarono dalle problematiche relative alla scuola, al Parlamento, all’educazione sessuale, alla libertà religiosa, ecc. con interventi di intellettuali come Croce, Salvemini, Einaudi, Lombardo-Radice. Persone di orientamento ideologico diverso, ma tutte accomunate da una volontà di partecipazione alla vita democratica del paese, di orientamento dell’opinione pubblica, di dialogo. Sennonché questa concordia di intenti fu messa in crisi dallo scoppio della guerra per la Libia. Mentre Prezzolini infatti, con Borgese, Papini, Slataper, furono favorevoli a quell’impresa, facendone una questione di disciplina nazionale, altri si schierarono contro. In particolare Salvemini si scagliò con violenza contro il progetto della conquista della Libia scrivendo caldi articoli. La rottura fu inevitabile. Salvemini abbandonò la rivista e questa fu affidata a Giovanni Papini che la diresse per alcuni mesi.

     Questa seconda fase, che va dalla fine del ‘12 a tutto il 1913, segnò in qualche modo una svolta. Prezzolini rimasto nella redazione infatti dichiarò che la rivista poteva dare spazio anche alle creazioni artistiche dei suoi collaboratori e che avrebbe pubblicato novelle, racconti, versi così come disegni originali e riproduzioni di quadri e di sculture. Fu così che intorno a “La Voce” si aggregarono giovani speranze come P. Jahier, S. Slataper, C. Rebora, C. Sbarbaro, ecc. Secondo F. Canova “la peculiarità della nuova operazione culturale consistette nell’aprire la scena nazionale della letteratura agli apporti della cosiddetta provincia, nel costituire uno spazio senza soggezioni, disponibile e sensibile alle sperimentazioni. In questo senso...si può pensare ad una sorta di “vocianesimo” a patto di intenderlo non come scuola, ma come la tendenza all’adozione di formule autobiografiche, spesso fuori della tradizione, che prediligevano una prosa lirica, la poesia frammento, l’uso di una lingua fortemente connotativa...”. Quando poi “La Voce” divenne anche una Casa Editrice, offrì l’opportunità a tanti poeti di farsi conoscere a livello nazionale. Secondo E. Gioanola furono pertanto proprio i non fiorentini, i provinciali, a costituire la linfa vitale del movimento vociano.

     Nel 1914 “La Voce”, essendosene Papini staccato assieme a Soffici per fondare un’altra rivista, tornò di nuovo sotto la direzione di Prezzolini che le impose una nuova svolta, stavolta nella direzione di un “idealismo militante”. Voleva con ciò lo scrittore allacciarsi alla filosofia di B. Croce, ma finì poi con l’assumere anche suggestioni gentiliane e del pensiero di Sorel, Bergson e Peguy. La conseguenza fu che assunse atteggiamenti sempre più attivistici e irrazionalistici e Prezzolini arrivò a prevedere l’apparizione di un “capo” che avrebbe incarnato il superuomo. Ciò durò sino a quando non passò a collaborare a Il Popolo d’Italia di Benito Mussolini .

     A questo punto “La Voce” passò nelle mani del critico Giuseppe De Robertis che le impose un altro cambiamento di direzione riportandola nell’ambito della letteratura e della poesia. In questa quarta e ultima fase trovò accettazione, sia a livello teorico che pratico, la poetica del frammento. Si avvicinarono alla rivista poeti come Ungaretti, Campana, Palazzeschi. De Robertis comunque inquadrò la sua attività critica in un’ottica crociana tendente a riconoscere in ogni opera il momento veramente “poetico” e a isolarlo dalle parti non liriche, cioè impoetiche. Come si è già detto, la bufera della guerra nel 1916 pose fine a questa esperienza. A titolo di cronaca vogliamo ricordare che in questo ultimo periodo la rivista fu ribattezzata ironicamente “La voce bianca” a voler significare la sua perdita di nerbo politico e l’allontanamento dal sociale.

     Ora di tutti i poeti vociani si vogliono prendere qui in considerazione C. Rebora, P. Jahier e G. Boine.

     

     

     “La Ronda”

    

     “La Ronda” fu fondata a Roma nell’aprile del 1919 da un gruppo di letterati tutti dal passato vociano. Erano tra questi Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Bruno Barilli, Antonio Baldini, Lorenzo Montano ed altri ancora. Amici di gioventù, essi avevano condiviso alcune scelte ideologiche, come quella favorevole alla guerra, nella visione di un riscatto della dignità nazionale, e che ne condividevano ora altre, come quella della condanna delle deludenti conclusioni dei trattati di pace.

     Nella confusione del momento politico, determinata sia dalle insoddisfazioni per quella che fu detta la “vittoria mutilata”, sia dalle lotte dei sindacati operai e del partito socialista e la successiva nascita sia del Partito popolare che dei Fasci di combattimento, i rondisti vollero isolare la letteratura dalla politica riprendendo una scelta già de “La Voce” quando De Robertis aveva dichiarato “Odio la politica...amo la poesia e l’arte...”. Credettero infatti che non fosse più possibile occuparsi del sociale o che comunque i letterati non sarebbero riusciti ad avere alcun peso politico. Si arroccarono perciò nella difesa dei valori della letteratura e dell’arte.

     Il programma della rivista, che usciva mensilmente, fu illustrato da un articolo di V. Cardarelli. Elementi portanti di questo programma erano il ritorno alla tradizione classica italiana, il valore dato alla forma e allo stile, il proposito di sprovincializzare la nostra cultura. Negli articoli che apparvero nel tempo, si chiarirono ancora meglio le scelte che portarono ad esempio E. Cecchi ad un duro attacco contro i futuristi, considerati barbari, e tutti gli altri a rifiutare Pascoli e il pascolismo, così come D’Annunzio; l’uno considerato come il responsabile primo della decadenza dell’arte italiana, l’altro per la sua propensione alla retorica. I rondisti perciò vollero rinnovare la poesia e restituirle una classicità che sembrava smarrita; propugnarono così il rigore della forma, l’attenzione per lo stile, la restaurazione dei valori sintattici, il senso dell’equilibrio e della misura, il labor limae. Invocarono un ritorno alla tradizione lirica italiana rappresentata da Petrarca e da Leopardi.

     Per quanto riguarda il loro rapporto con la vita politica però, nonostante le prime intenzioni, sulla rivista apparvero poi degli articoli che segnavano precise posizioni. Così Filippo Burzio scrisse un vero elogio della piccola e media borghesia considerandola come la sola garante della democrazia, mediatrice di interessi contrapposti, guardiana della pace sociale e dell’ordine. Giudicò invece il socialismo “l’unica forza reale antidemocratica...negazione di tutta la forma attuale di civiltà”. Antonio Baldini espresse considerazioni sul comunismo bolscevico giudicato paradossalmente positivamente in quanto capace di incutere tanto timore, da provocare un maggiore attaccamento ai valori della proprietà; considerò poi il Re d’Italia il simbolo del popolo di contadini soldati, “ l’espressione del governo dei contadini, conservatori e prudenti ”. Vilfredo Pareto invece in un suo articolo intitolato “Il Fascismo” individuò nella nascente forza politica due caratteristiche, e cioè la violenza e il nazionalismo, ma arrivò quasi a giustificare la prima, contrapponendola a quella di matrice comunista. Con l’avvento del Fascismo comunque la Ronda chiuse i battenti. Era il 1923.

     Tra i maggiori poeti de “La Ronda” possiamo considerare V. Cardarelli.

     

     

     Il Marzocco

    

     “Il Marzocco” (il marzocco è l’emblema di Firenze costituito da un leone seduto che con una zampa sostiene uno scudo con il giglio del comune della città) si pubblicò con cadenza settimanale, dal 1896 al 1930. Il suo carattere agli inizi fu prevalentemente letterario, ma poi vi comparvero articoli sul superuomo dannunziano, sul progresso, sulla natura della democrazia. La rivista, finanziata dalla ricca famiglia ebraica degli Orvieto, fu diretta all’inizio da Enrico Corradini e aveva come suo primo intento quello di realizzare una critica letteraria che evitasse ogni giudizio morale o sociologico, nella convinzione dei suoi redattori che l’arte non dovesse essere messa al servizio delle scienze sociali, volendo con ciò esprimere la loro opposizione al positivismo filosofico. Alla rivista collaborarono importanti intellettuali e poeti come Ugo Ojetti, G.S. Gargano, L. Pirandello, G. Pascoli, G. D’Annunzio. Presto “Il Marzocco” assunse una connotazione politica criticando la democrazia parlamentare ed auspicando una riscossa della borghesia nei confronti del proletariato e del partito socialista che lo aggregava. Con l’inizio del nuovo secolo ad essa si avvicinarono elementi come B. Croce, Sem Benelli, Achille Loria. L’ascesa al governo di Giolitti vide uno scemarsi della polemica contro la classe politica al potere e quando scoppiò prima la guerra di Libia e poi la prima guerra mondiale, dalle colonne del giornale furono espresse posizioni patriottiche ed interventiste, fino ad arrivare ad un certo nazionalismo e a sviluppare una battaglia antigermanica. Finita la guerra, la rivista si fece portavoce del mito della “vittoria mutilata” e sostenne l’impresa fiumana di D’Annunzio. Condannò invece il bolscevismo, esprimendo opinioni sempre più vicine e gradite al capitalismo imprenditoriale italiano. Dopo la marcia su Roma si schierò con Mussolini, che fu considerato come l’uomo che avrebbe potuto realizzare una ricostruzione del Paese prostrato dalla grande guerra.

 

 

Il Leonardo

    

     Altra rivista fiorentina fu il “Leonardo”, ma di molto più breve durata. Uscì infatti dal 1903 al 1907, diretta da G. Prezzolini e G. Papini. Coerentemente alla personalità di questi intellettuali, svolse una vivace polemica contro il Positivismo in filosofia e il Verismo in letteratura. Singolarmente i due G. P. vollero combattere sia il materialismo che il Cristianesimo; quest’ultimo perché considerato come una dottrina inducente debolezza di carattere nell’uomo, orientandolo verso una bontà mielata. In politica essi furono sia contro il socialismo che contro la democrazia parlamentare. Nazionalisti, ribelli ed insofferenti nei confronti di ogni autorità e legge, anche morale, combatterono il conformismo e ogni forma di costrizione, propugnando l’arte come supremo valore della vita. Nel primo numero della rivista pertanto i redattori si presentarono come “un gruppo di giovani desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale...per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte”. Si dichiararono pagani ed individualisti, amanti della bellezza e dell’intelligenza ed adoratori della natura e della pienezza della vita. Da un punto di vista filosofico invece espressero un loro idealismo che li portò fuori da ogni corrente, da ogni sistema, per farli ritrovare in un’idea dell’arte e della bellezza come figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena. Alla rivista pertanto collaborarono con continuità Giovanni Costetti, pittore, Adolfo de Karolis, incisore, e G. Antonio Borgese; occasionalmente invece comparvero i nomi di D’Annunzio, Emilio Cecchi e Ardengo Soffici. Dal 1904 il “Leonardo” assunse una veste più filosofica e ad essa si avvicinarono il pragmatista Giovanni Vailati, il filosofo Mario Calderoni e poi Giovanni Amendola. Il Vailati riconobbe alla rivista il merito di aver messo a contatto e favorito il dibattito e lo scambio di idee tra cultori di studi filosofici di aree geografiche diverse e lontane, tra matematici e mistici, tra biologi e poeti. Quando Papini e Prezzolini decisero di porre la parola fine alla vita del periodico dichiararono che il loro scopo nel fondarla era stato quello di sperimentare “ l’anima vile italiana” e che, dopo cinque anni di queste esperienze, s’erano persuasi che non valesse più la pena di continuare.

    

    

    Hermes

          “Hermes” fu fondato sempre a Firenze nel 1904 dal critico Giuseppe Antonio Borgese che ne assunse anche la direzione, ed ebbe vita ancora più breve; uscirono infatti solo dodici numeri e nel 1906 le pubblicazioni cessarono. Nel primo numero anche i redattori di Hermes si presentano come idealisti in filosofia, aristocratici in arte, individualisti nella vita. E non c’è da meravigliarsi, considerato che si trattava sempre delle stesse persone, e cioè Papini, Corradini, ed ora anche Maffio Maffii e Marcello Taddei. Nella Prefazione comunque leggiamo: “Siamo, diranno, pagani e dannunziani. E sì: noi amiamo ed ammiriamo Gabriele D’Annunzio più di ogni altro nostro poeta moderno, morto o vivo che sia, e da lui ci partiamo nella nostra arte”. La rivista pertanto pubblicò sia saggi che opere poetiche dei suoi collaboratori, tutti ovviamente nella scia del grande pescarese. Nell’ultimo numero nell’articolo titolata “Congedo” si traccia un bilancio di questa esperienza e i redattori vi affermano: “Le nostre parole saggiarono, come la pietra diasproide fa dell’oro, le correnti di idee e di pensiero...e fummo alacri scandagliatori di verità e di bellezza... ci sentimmo Italiani ed avemmo ed abbiamo incrollabile fede in un prossimo risorgimento di tutte le attività nazionali...il nostro odio contro qualunque forma di bassezza, di falsità, di miseria, volle dire insonne desiderio di preparare il fortunato e maraviglioso evento”.

 

 

     Lacerba

     “Lacerba” fu fondata da Giovanni Papini e da Ardengo Soffici nel 1913 e durò fino al maggio del 1915. Il titolo fu pensato ricordando quello di un poemetto di Cecco D’Ascoli da cui ripresero il motto “Qui non si canta al modo delle rane” e scherzosamente deformandolo, ché il titolo dell’opera di Cecco era “L’Acerba”. Sulla prima pagina del numero 1 appare l’articolo di presentazione “Introibo” nel quale si legge: “Queste pagine non hanno affatto lo scopo né di far piacere né d’istruire, né di risolvere con ponderatezza le più gravi questioni del mondo. Sarà questo un foglio urtante, spiacevole e personale. Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi e moralismi”. Espressioni dalle quali si evince subito un linguaggio aggressivo e una volontà di ribellione e di lotta: la solita solfa, aggravata dalla presenza di elementi ideologici ancora una volta superomistici: “c’è un piano superiore dell’uomo solo, intelligente e spregiudicato, in cui tutto è permesso e tutto è legittimo...”. A questa rivista collaborò anche Aldo Palazzeschi che pubblicò brevi racconti ed una serie di poesie. Ma comparvero anche articoli che fecero scandalo, come ad esempio quelli di Italo Tavolato sui problemi del sesso, la lussuria, la prostituzione. Alla rivista approdò ad un certo momento anche Gian Piero Lucini e cominciarono a trovarvi spazio i futuristi che vi pubblicarono alcuni loro manifesti: la rivista si politicizzò. Papini vi pubblicò così un famoso articolo, “Freghiamoci della politica”, con il quale invitava gli Italiani a non partecipare alle prime elezioni d’Italia a suffragio universale. Nello stesso mese, poco più di una settimana prima delle elezioni in questione, apparve il Programma politico futurista nel quale si proclamavano l’anticlericalismo e l’antisocialismo e dove si legge: “Italia sovrana assoluta - la parola ITALIA deve dominare sulla parola LIBERTA’ ?. Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani. Una più grande flotta e un più grande esercito: un popolo orgoglioso di essere italiano, per la Guerra, sola igiene del mondo, e per la grandezza di un’Italia intensamente agricola, industriale e commerciale. Difesa economica ed educazione patriottica del proletariato”. Con lo scoppio della guerra, conseguentemente, la rivista fu con gli interventisti adducendo a motivazione che quella che si combatteva allora non era una guerra solo generata da motivi economici, ma culturali, guerra di cultura e civiltà. Della civiltà latina contro la barbarie tedesca. E intanto alla redazione erano approdati prima Piero Jahier e poi Giuseppe Ungaretti. Ma pochi giorni prima dell’entrata in guerra anche dell’Italia la rivista cessò le pubblicazioni.

    

    

     Solaria

    

     Tra il 1926 e il ‘36 a Firenze si pubblicò anche un’altra importante rivista: “Solaria”. Agli inizi diretta da Alberto Carocci e da Giansiro Ferrata, nel 1930 passò sotto la direzione di Alessandro Bonsanti, per tornare poi di nuovo nel ‘33 nelle mani di Carocci. Il titolo, egli poi spiegò, voleva indicare che essa era una città, una città di utopia, e non una scuola di pensiero; una piccola polis letteraria, una società in nuce.

     Essa non ebbe subito un preciso programma, ma nasceva chiaramente da un’esigenza di libertà; fu disposta ad accogliere l’attenzione allo stile, come voleva “La Ronda”, ma avvertì anche la necessità di un impegno morale e sociale, reagì così contro le gratuite licenze letterarie ed inclino verso un’arte drammatica e umana.

     Da un punto di vista storico letterario, due furono i suoi maggiori meriti: aver volto lo sguardo alle letterature straniere e aver accolto numerosi giovani scrittori. Essa infatti richiamò l’attenzione dei suoi lettori su autori come Kafka, Joyce, Proust e poi Dos Passos, Faulkner e Hemingway; pubblicò nello stesso tempo prose di Gadda, Loria e Vittorini. A quest’ultimo scrittore si deve l’intervento della censura del regime che sequestrò il numero di aprile del ‘36 della rivista con l’accusa di immoralità, per i contenuti di alcuni brani de “Il garofano rosso” che vi comparivano. Successivamente Vittorini ricordò il clima di ostilità che si era venuto a creare intorno alla rivista, scrivendo “...solariano era parola che negli ambienti letterari di allora significava antifascista, europeista, universalista, anti-tradizionalista...ci chiamavano sporchi giudei per l’ospitalità che si dava a scrittori di religione ebraica e per il bene che si diceva di Kafka e di Joyce. E ci chiamavano sciacalli...”.

     Questa presunta caratteristica ebraica di Solaria fu infatti sottolineata non solo dalla stampa di regime del tempo, ma anche da una rivista come “Il Frontespizio” intorno a cui gravitavano diversi esponenti della cultura cattolica fiorentina.

     Ma intanto nel suo interno si era determinata una divisione dei collaboratori in due gruppi gravitanti rispettivamente attorno a Carocci e a Bonsanti. Fu la fine della rivista stessa.       

    

    

     Il Frontespizio

    

     “Il Frontespizio” si pubblicò dal 1929 al ‘40. Il suo più importante direttore fu Piero Bargellini. La nascita di questa rivista fu resa possibile dalla conciliazione tra Stato e Chiesa intervenuta con la firma dei Patti Lateranensi. Intorno ad essa si raccolsero intellettuali come Papini, Soffici, Giuliotti, Bo, Macri, Bigongiari, Luzi. Vollero i suoi collaboratori esprimere un cattolicesimo ortodosso ed impegnato che li portò a svolgere una polemica serrata contro certi aspetti della cultura cosiddetta laica. Tra gli interventi più significativi, furono quelli di Giordani, Papini, Bargellini. Igino Giordani attaccò Freud ed Einstein scrivendo: “Einstein e Freud, due scienziati, due israeliti, remoti anche dalla fede dei profeti...pur combattendo il comunismo, hanno d’accordo chiesto la esclusione effettiva della Chiesa da una pacifica civiltà futura”, asserzione questa nascente dalla convinzione che Einstein volesse sottrarre agli ecclesiastici l’istruzione, e Freud instaurare una dittatura della ragione che potesse risolversi anch’essa con una condanna della Chiesa. Egli comunque li considerò esponenti di un pensiero pseudorazionale al quale occorreva opporre “l’intelligenza sana, casta, paziente, a cui la Fede fa da piattaforma”. Bargellini, tra le altre cose, cercò di chiarire quale dovesse essere il rapporto tra cattolicesimo e arte scrivendo: “In questo mondo o si è con Dio o si è contro di Dio. Anche la indifferenza in letteratura diventa una teoria contrariante e contrastante la fede...”. Papini poi ebbe ad esaltare le antiche matrone romane, mogli dei patres così raffigurandole: “dai seni profondi e dai fianchi possenti, fattrici di lunga figliolanza, stavano a tu per tu coi guerrieri e con Dio medesimo, e sapevano aspettare i mariti anni interi...filando lana o tessendo mantili, guardiane del fuoco, dei figlioli e dei servi...”. Di fronte a certi eventi storici poi, gli scrittori di questo gruppo avvertirono un certo disagio ed espressero contrarietà, come fece ad esempio R. Paoli con l’articolo “Il cardinale e i germani” condannando il razzismo. Non mancò tuttavia chi espresse il proprio consenso nei confronti del Fascismo. Guido Manacorda, ad esempio, ebbe a scrivere che il Fascismo fosse l’unico governo al mondo mostratosi capace di rappacificare le coscienze cattoliche, annientare la criminalità, educare una generazione alla purezza dei costumi e alla santità della fede. Nell’ambito de “Il Frontespizio” insomma c’erano posizioni non omogenee che, anche in questo caso, determinarono la fine d’una esperienza.

    

    

   Il Selvaggio

    

     “Il Selvaggio” nacque a Colle Val d’Elsa nel 1924 e pubblicò i suoi numeri sino al ‘43. Animatore ne fu soprattutto Mino Maccari, suo direttore a partire dal ‘27. La rivista nacque come espressione dello squadrismo fascista toscano e divenne l’organo del movimento di “Strapaese” svolgendo una impegnata battaglia sia contro il Futurismo, che contro il “900", espressione del movimento opposto di “Stracittà”, sia infine contro certi aspetti del Fascismo stesso. Contro il Futurismo, in quanto ormai movimento che aveva perso ogni slancio con la riduzione di Marinetti ad accademico d’Italia; contro la rivista “900" di Massimo Bontempelli, animatore del movimento di “Stracittà”, in quanto questi intendeva dare una verniciatura urbana, moderna ed europea al Fascismo; contro il Fascismo stesso nella misura in cui perdeva lo slancio rivoluzionario e si burocratizzava. Maccari proclamava infatti che bisognava “impedire l’annacquamento del fascismo, sfottere tutti i pompieri del fascismo, gli accomodanti, i tiepidi, gli amanti del compromesso e delle transazioni. Conservare, diffondere, imparare lo stile fascista, che esige coraggio, lealtà, strafottenza, energia, rapidità, aggressività”. Egli pertanto esaltava l’Italia paesana e provinciale, contadina, cattolica e tradizionalista, identificando in essa la vera forza del Paese, la base sociale su cui avrebbe dovuto tenersi saldo il Fascismo. Esaltava così un tipo umano spontaneo e genuino come poteva essere il toscano di campagna, rude ma sano, in opposizione alla gente di città. E del movimento che la rivista rappresentava, il suo direttore così scriveva: “Strapaese è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana; vale a dire, oltre che l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove sono custodite, per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre. Strapaese si è eretto a baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle civiltà moderniste, in quanto tali mode, tali pensiero e civiltà minacciano di reprimere, avvelenare, distruggere le qualità caratteristiche degli Italiani”. Sennonché “Il Selvaggio” arrivò poi ad attaccare gli stessi esponenti della cultura fascista, come ad esempio Ugo Ojetti, o Piacentini, aggredendoli con l’arma del sarcasmo, della satira, con battute spiritose quando non con barzellette o con i disegni ironici dello stesso Maccari. Quando poi arrivò ad ospitare e a dare spazio a intellettuali ed artisti agli esordi, del tipo di Guttuso, Morandi o la Morante, il regime espulse dal partito Maccari ed interruppe bruscamente le pubblicazioni della rivista.

     Fra i collaboratori si ricordano Comisso, Soldati, Moravia, Tobino, Brancati, ma un ruolo ancora più importante vi ebbe Curzio Malaparte.

      Questi, il cui vero nome è Kurt Erich Suckert, ebbe vivacissima personalità e passo nella sua vita (1898-1957) attraverso esperienze culturali che possono apparire contraddittorie. Egli infatti allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come volontario e andò a combattere nelle Argonne e da quella esperienza ricavò il suo primo libro: “La rivolta dei santi maledetti”. Aderì poi al Fascismo, sentito e vissuto come una rivoluzione antiborghese, antifilistea, fatta “dal popolo dei contadini e dei montanari” contro gli Italiani “falsi e bacati, di destra e di sinistra, liberali, democratici, socialisti...che dal settanta in poi hanno sputtanato in mille modi l’Italia eroica, santa, cristianissima”. Ma poi nel ‘28 pubblicò “Don Camaleo” che conteneva espliciti riferimenti critici nei confronti del dittatore, tanto che Mussolini ne fece cessare la pubblicazione che avveniva in rivista. Nel 1931 pubblicò “Tecnica del colpo di Stato”, libro ispirato alla figura di Lenin, ma che non piacque né a Hitler né ai gerarchi fascisti, tanto che gli costò una condanna di cinque anni di confino a Lipari, scontata tuttavia a Forte dei Marmi. Partecipò alla seconda guerra mondiale e da quelle nuove esperienze ricavò due altri libri: “Kaputt” (1945) e “La pelle”(1949), il primo sugli orrori della guerra nazista, il secondo, forse il suo capolavoro, sulla città di Napoli durante l’occupazione alleata. Egli infatti fu ufficiale di collegamento tra Il Corpo italiano di liberazione e il Comando americano di occupazione. Successivamente chiese la tessera del partito comunista ma Togliatti gliela rifiutò. Nel corso di un suo viaggio fu colpito da un tumore. Trasportato a Roma, morì dopo una lunga agonia nel luglio del 1957, riscosso il successo di “Maledetti toscani”.

      Per quanto riguarda comunque l’esperienza di Strapaese e del Selvaggio, le opere sue più significative sono “Italia barbara”, le “Avventure d’un capitano di sventura” e le cantate de “L’arcitaliano” del 1928. In quest’ultima si possono leggere versi di questo tono e contenuto : “O Italiani ammazzavivi / il bel tempo torna già: / tutti i giorni son festivi / se vendetta si farà / son finiti i tempi cattivi / chi ha tradito pagherà. / Pace ai morti e botte ai vivi: / cosa fatta capo ha. / spunta il sole e canta il gallo / o Mussolini, monta a cavallo”, da considerare una legittimazione e un incitamento allo squadrismo.

    

    

     Novecento

    

     “900” come si è detto è la rivista fondata da Massimo Bontempelli che diede voce al movimento di “Stracittà” e che si pubblicò dal 1926 al ‘29, agli inizi redatta in lingua francese. Non si deve credere però che Novecento sia stata una rivista di opposizione al regime, Bontempelli infatti considerava la letteratura e l’arte in dipendenza della politica fascista rispetto alla quale si poneva come fiancheggiatore. Solo che mentre Maccari intendeva difendere la peculiarità del carattere italiano, egli voleva superare i confini dell’Italia, il provincialismo della nostra tradizione, entrare nel circuito culturale del resto del mondo. Una volontà di svecchiamento, di “liberarsi dalla ripetizione delle vecchie idee, delle formule vecchie, e favorire l’atmosfera del tempo nuovo”. “900", Maccari dichiara, alla fine non vuol essere che modernità, “affinché il nostro secolo, il Novecento, acquisti il più rapidamente possibile una fisionomia propria inconfondibile”.

     La rivista pertanto ebbe un importante ruolo culturale in quanto fece conoscere scrittori stranieri come Joyce, Lawrence, V. Wolf ed altri ancora, pubblicando frammenti delle loro opere, ed ebbe tra i suoi collaboratori personaggi come Picasso, Carrà, Campigli, Corrado Alvaro.



http://www.novecentoletterario.it/correnti/riviste.htm



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