Sessant’anni fa, il 5 settembre 1938, con il Regio Decreto n. 1390 “per la difesa della razza nella scuola fascista” si dava inizio alle leggi razziali in Italia. Nessuno poteva immaginare che l’epilogo di quella sventurata politica sarebbero stati i crematori di Auschwitz, ma lascia sgomenti constatare che quel provvedimento passò senza alcuna percettibile reazione della società italiana. Anzi, soprattutto nel mondo accademico, il più interessato all’esclusione dalle cattedre universitarie dei docenti ebrei, si assistette a scene di invereconda cupidigia per accaparrarsi le sedi che andavano liberandosi. Si dovranno attendere gli anni dell’occupazione nazista, successiva all’8 settembre 1943, per trovare anche in Italia “i giusti” che salvarono tante vite di predestinati allo sterminio, a compensare il comportamento di italiani delatori, carcerieri, strumenti consapevoli della politica dell’occupante nazista. Il decreto espulse novantanove cattedratici ebrei dalle università italiane e un numero mai calcolato di studenti dalle scuole di ogni ordine e grado. Fu proposto al Gran Consiglio del Fascismo dal gerarca considerato il “fascista critico”, il protettore delle eresie e del dissenso dentro il regime: quel Giuseppe Bottai cui il sindaco di Roma Rutelli un anno fa voleva intitolare una piazza della capitale. Pochissimi vollero capire che s' imboccava una strada senza ritorno. Difatti, in quella tarda stagione del 1938 si susseguirono altri decreti, circolari, interpretazioni che in maniera compiuta avrebbero fatto della comunità ebraica italiana, una comunità votata all’esodo, all’emarginazione, alla lenta scomparsa. Era la previsione di un giovane antifascista ebreo, Vittorio Foa, lucidamente espressa dalla galera in cui era rinchiuso ormai dal 1935. Ai genitori, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del decreto, scriveva: “In questi giorni vado passando in rassegna mentalmente quali fra i miei conoscenti sono colpiti dai provvedimenti relativi alla scuola, ma l’esito non è consolante, fra studenti e professori non c’è famiglia che si salvi. A questo seguiranno certo a non lunga scadenza le libere professioni, gli impieghi pubblici e poi i privati. Non c’è da spremersi tanto il cervello, basta ricorrere agli augusti modelli dell’Europa prima della rivoluzione francese e del liberalismo del XIX secolo”. Fra i pochi che tentarono di rompere il muro dell’indifferenza, del non sentire e vedere ci fu in quei giorni Ernesta Bittanti Battisti. Ella aveva avuto nella creativa gioventù in Firenze amici ebrei carissimi come Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo; aveva mantenuto rapporti intensi con la famiglia irredentista di tradizioni mazziniane del triestino Salomone Morpurgo. A Trento nel primo decennio del secolo aveva condotto, col vigore che le era proprio, una vivace campagna per denunciare il falso storico del Beato Simonino che si voleva vittima di un omicidio rituale degli ebrei che vivevano in città. Scrisse dunque, intervenne, aiutò. Tentò di organizzare una protesta fra i professori, ma fu costretta ad ammettere: “Il mio tentativo non ha fatto alcun passo”. La colpiva la mancata reazione del popolo per una vergogna incancellabile della nazione, la consapevolezza delle nefaste conseguenze che l’antisemitismo aveva sempre provocato alla storia d’Europa. Un diario, tenuto dall’autunno del 1938 al maggio del 1943 che lei stessa titolò “ISRAEL - ANTISRAEL”, testimonia le sue iniziative, le sue riflessioni, i suoi sdegni. La tragedia del razzismo in Italia era iniziata con i novantanove professori espulsi dall’università italiana e con le centinaia di ragazzi costretti a lasciare i banchi delle loro scuole. Gli ebrei italiani censiti nel 1938 erano 47.238. Terminò con 7495 di loro internati nei Lager di sterminio. Solo in 610 fecero ritorno. Settantotto furono gli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine. Oltre duemila ebrei combatterono nella Resistenza italiana e sette furono le medaglie d’oro alla memoria. Il senatore Giulio Andreotti, nei mesi appena trascorsi, ha cercato di attenuare le responsabilità dei silenzi del mondo cattolico affiancando ad esse quelle del mondo laico che, pur nelle maglie strette della dittatura, avrebbe ancora potuto parlare e di Benedetto Croce in particolare. Ne seguì una disputa aspra, ma complessivamente deprimente. Troppi assordanti silenzi ci sono stati in ogni parte della cultura e della società italiana, per aver titolo di contrapporre i comportamenti degli uni a quelli degli altri. Nel Trentino dove i segni della convivenza sono stati anche recentemente lordati non solo in termini metaforici, ricordare e riflettere aiuta a tener desta la coscienza civile che appare tante volte assopita. In Israele accanto al monumento all’Olocausto c’è il “Bosco dei Giusti” che ricorda, albero dopo albero, gli Europei che non tacquero, ribellandosi al silenzio e all’acquiescenza di fronte al crimine del razzismo. E' di Giuseppe Tramarollo, allora presidente dell’Unione Democratica Amici di Israele, l’introduzione al lavoro del professor Radice sull’opera di Ernesta Bittanti a favore del popolo perseguitato. Sua la proposta, lì espressa, che il nome di Ernesta Bittanti trovi posto in quel luogo di viva memoria. Potrebbe essere questo un segno eloquente, promosso dal comune di Trento, per ribadire un impegno e ricordare chi, non tacendo, ha dato voce alla tradizione civile della nostra terra. |