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Intercultura
ABITARE IL LIMITE. Per una cultura della sobrietà.
37° CONVEGNO NAZIONALE CEM/MONDIALITA' - ATTI

Lingua: Italiana
Destinatari: Insegnanti
Tipologia: Programmazione, Progetto, Curriculum

Abstract:

ABITARE IL LIMITE.
Per una cultura della sobrietà.

Relatore: Prof. Wolfgang Sachs.
del Wuppertal Institute

Prima parte

Seconda Parte

Dibattito


Facendo la passeggiata dall'Hotel Europa per arrivare qui all'Istituto delle Salesiane, sono stato colpito all'improvviso dall'idea che io oggi, e voi oggi e nei prossimi giorni abitiamo il limite qui a Città di Castello, perché questa città con le sue piazze, i suoi vicoli, gli spazi di incontro, è un prodotto del limite, è un prodotto delle mura che circondano questa città. In un certo senso, ho pensato alla creatività del limite: è un testimone di questa grande tradizione, se non mi sbaglio europea, che fa nascere città. Le vostre città sono nate dal limite, vale a dire dal confine. Nella nostra tradizione è impossibile pensare la città senza confine. Il confine era la condizione per far crescere le città con le loro "densità", con le loro interazioni, con tutta la dinamica di innovazione che si è verificata, attraverso i secoli. Quindi, questo potrebbe già servire come una metafora per comprendere come il confine a volte abbia la capacità di generare qualcosa di nuovo, che non ci sarebbe senza di esso. Città come questa offrono un simile abbraccio attraverso le mura.

Vorrei svolgere le mie riflessioni in due puntate. Nella prima parte vorrei cercare di mostrare la cornice globale, o se si vuole, il concetto dell'abitare il limite su scala globale: il discorso sarà più teorico, astratto. Nella seconda parte si tratterà piuttosto di dipingere, all'interno di questa cornice, alcune scene, tratte dalla vita quotidiana. Pertanto, nella seconda parte parlerò maggiormente delle nostre esperienze e delle cose più tangibili.

Prima parte

La prima parte comprende 5 tappe:

1. Il doppio messaggio del pianeta blu.

La sigla CEM indica Centro di Educazione alla Mondialità ed io ritengo che, nonostante la mondialità e la globalizzazione, siano processi molto astratti, tutti noi abbiamo un'idea nella testa quando parliamo di essi: è l'immagine del pianeta blu. Quella foto scattata dallo spazio ci mostra un cerchio che è la terra, dolcemente illuminata e appesa nell'universo nero e freddo. In quest'universo nero, la terra sembra essere un luogo molto caldo, illuminato, di cui sono chiaramente visibili i confini che separano questo interno caldo ed illuminato dall'esterno nero e freddo. Poi voi tutti conoscete l'immagine in cui si vedono i continenti marroni, gli oceani blu ed alcune nuvole bianche. Questa immagine è diventata l'icona del nostro tempo. Forse è un sacrilegio dire questo, ma a me viene in mente quest'altro simbolo: la croce e il suo potere unificante. Oggi, in questo simbolo si ritrovano tutti; non c'è nessuno che contesti questa immagine. I più radicali e i più conservatori, i più rivoluzionari e i più capitalistici: tutti si ritrovano in questa immagine e ciò significa che essa incorpora un sentimento, una nozione essenziale del nostro tempo. Io vorrei meditare su questa immagine per introdurvi a quello che io considero il conflitto fondamentale dei nostri tempi. Faccio prima un'osservazione: forse voi non vi siete mai resi conto del fatto che il viaggio di Armstrong sulla luna ha reso la terra visibile per la prima volta nella storia umana. Tutti gli uomini sapevano di essere e di camminare sulla terra, però non hanno mai visto la terra come un qualsiasi oggetto. Questa rottura è accaduta nel '69 ed è un motivo profondo che spiega perché siamo nell'era della globalizzazione e possiamo vedere il tutto, l'intero (anche se mediato da una foto). Da questa esperienza è scaturito ad esempio il famoso "Rapporto Brundtland" sullo sviluppo sostenibile che comincia a parlare del nostro pianeta. Io credo che le generazioni precedenti non fossero capaci di parlare del nostro pianeta perché non sapevano ancora come fosse, non l'avevano visto. Tuttavia, quello che vorrei richiamare alla vostra attenzione è che l'aggettivo "nostro", riferito al pianeta, ha un significato molto contraddittorio, dietro al quale si nasconde la conflittualità del nostro tempo. Da un lato, infatti, parlando del "nostro" pianeta possiamo ritenerci parte di questa realtà molto più grande di noi, così come è accaduto per la bandiera del movimento ecologista già da Earthday nell'aprile 1970 negli Stati Uniti: l'immagine mostra bene che noi non siamo singoli, che non possiamo fare quello che vogliamo; pertanto, mostra chiaramente che c'è un limite. Un famoso manifesto cercava di esprimere il fatto che tutti noi insieme formiamo una comunità su questa terra. In un certo senso noi siamo colpiti dall'idea che l'umanità sia tutta una. A tale proposito, il manifesto in questione mostrava solo il pianeta blu con la scritta "home", cioè questa è la nostra casa. Certamente quest'immagine evoca l'idea che noi facciamo parte di qualcosa di grande e che tutte le parti sono meno importanti dell'intero, dell'insieme delle cose. Se non prendiamo in considerazione l'insieme delle cose, alla fine tutto ritorna su di noi come un boomerang. Questi confini, questi limiti della terra mostrano chiaramente che tutto alla fine deve arrestarsi a un certo punto, che non è possibile spostare le conseguenze delle nostre azioni, perché rimarranno all'interno di questa terra. Questa immagine del pianeta, l'idea del "nostro" pianeta veicola due messaggi. Il primo messaggio è olistico: noi tutti formiamo una comunità, noi tutti partecipiamo all'olismo del pianeta. C'è anche un altro significato: - se voi camminate nell'aeroporto di Fiumicino vedete un numero elevato di manifesti che mostrano il pianeta, ma poi c'è scritto "Mastercard. Il mondo è nelle tue mani"-. Ciò significa che noi possiamo andare ovunque; questo pianeta si vede e non ci sono limiti, non ci sono frontiere, non ci sono nazioni, non ci sono culture, non ci sono nemmeno uomini in questa immagine. Il pianeta, quindi, è tutto aperto e accessibile fino all'ultimo posto e, anzi, è un grande richiamo a scoprirne tutti gli angoli e i posti, perché per esso non ci sono frontiere, ma solo un limite esteriore. Così questa immagine viene utilizzata, da assicurazioni, dal turismo: perché possiede un messaggio "imperioso": tu puoi andare ovunque, perché non ci sono frontiere. Quindi rappresenta l'espansione illimitata, la penetrabilità del mondo. Entrambi i messaggi, quello olistico e quello imperioso, abitano in questa immagine. Credo sia questa la contraddizione profonda del nostro tempo, poiché si può dire che oggi da un lato siamo davanti alla limitatezza del pianeta e dall'altro ad una espansione illimitata. Da un lato emerge la misura del pianeta, dall'altro lato assistiamo ad una dinamica della dismisura, superando tutti i limiti. Questa è la grande contraddizione dei nostri tempi: la comprensione della globalizzazione, l'ondata dell'espansione illimitata si verificano proprio nel momento in cui i limiti più fisici della terra si fanno sempre più sentire.

Vorrei ora soffermarmi sulla finitezza della terra e poi parlare della spinta alla illimitatezza per valutare meglio queste due forze che sono all'opera. Si tratta del dinamismo economico che punta verso l'illimitatezza e, al tempo stesso, verso la finitezza fisica della terra che ci obbliga a pensare al limite.

2. La finitezza della terra.

Essa è connessa con l'idea del confine, all'interno del messaggio olistico. Se guardate la terra notate che essa è composta prima di tutto da oceani, deserti e di grandi tratti di vegetazione. Oggi gli uomini utilizzano già il 40% di tutta la produzione primaria di biomassa nel mondo, senza parlare di altre specie quali gli animali. Quindi solo una specie, quella umana, utilizza il 40% di tutto il prodotto verde del pianeta. Secondo i biologi, è una situazione molto fragile che mette già in un angolo le altre specie. Se questa dinamica prosegue, sono minati tanti equilibri biologici tra cui, a proposito del tema "energia", voi conoscete l'effetto serra. Il periodico Spibel presenta un articolo in cui vengono riferite le opinioni di un paio di scienziati nel mondo che cominciano a collegare il fenomeno del niño e della niña all'effetto serra e voi sapete che quest'anno abbiamo assistito ad una serie di eventi climatici molto strani, quali le piogge fortissime sulla costa del Perù e del Cile e l'assenza di pesce, la siccità in Indonesia, la siccità in Texas e negli Stati Uniti del Sud, gli incendi delle foreste, e le alluvioni in Cina. Non ci saranno mai le prove incontestabili che le cause dell'allergia tua e di quella di tua figlia siano legate all'impatto ambientale: sappiamo solo che ci sono dei forti legami, ma non sono documentati. Anche la nostra emissione di anidride carbonica in qualche modo è coinvolta in questi fenomeni climatici. I vincitori di questa situazione sono piuttosto al Nord e i perdenti al Sud, così come l'impatto del riscaldamento della terra colpirà maggiormente il Sud; già si fa sentire in Italia dove le condizioni metereologiche e di terra sono rese più fragili dall'impatto perverso dell'effetto serra che qui si fa sentire maggiormente che in altri paesi più saturi di natura, di massa, di acqua e così via. Per comprendere questa situazione di limitatezza del pianeta, noi al Wuppertal Institute abbiamo elaborato il concetto dello spazio ambientale, secondo il quale tutta l'umanità ha ricevuto un "tot" patrimonio di natura, e di spazio ambientale da condividere con altre specie. Ogni paese ha diritto solo ad una parte di questo spazio ambientale e quando si vuole quantitativamente definire cos'è la sostenibilità per un paese, ci si può chiedere come si misura la porzione dello spazio globale che spetta ad un paese come la Germania o ad un paese come l'Italia. Se facciamo questo calcolo risulta che i nostri paesi utilizzano già in modo eccessivo lo spazio ambientale di tutto il pianeta. Noi utilizziamo la formula del fattore 10: per indicare la necessità di alleggerire l'economia tedesca in modo che non pesi troppo sulla terra e su altri popoli. Dobbiamo pensare a una riduzione del peso del "Fattore 10", ciò significa una riduzione dall'80 al 90% rispetto al valore di oggi. Se parlo di peso, penso a tutta l'energia e a tutti i materiali che vengono utilizzati e consumati da parte dell'economia tedesca. Se consideriamo che abbiamo uno spazio ambientale limitato, che l'economia tedesca è solo una economia nel mondo e che sono poche persone rispetto ai miliardi di persone che vivono nel resto del globo, quale sarebbe in 50 anni la porzione che la Germania potrebbe prendere, senza ferire la sostenibilità e i diritti di altri popoli? Sarebbe un decimo di quello che la Germania utilizza oggi, cioè l'80-90% in meno. Davanti a questa finitezza della terra, a questa grande sfida di civilizzazione, davanti alle nostre società ricche dobbiamo diventare capaci di alleggerire le nostre economie di un fattore 10 nei prossimi 50 anni.

3 La spinta alla illimitatezza, la dismisura.

La risposta più facile e più giusta della precedente, come hanno detto tutti i filosofi da Aristotele in poi, è che quello che è veramente infinito è il denaro. Perché il denaro può essere sempre accumulato senza materialmente recare danno a nessuno. Tutta la storia dell'economia monetaria di accumulazione dell'Occidente, quindi, è un grande viaggio verso una ulteriore illimitatezza. Però, per il momento, vorrei focalizzare l'attenzione sul fatto che questa dinamica della moneta, del denaro sarebbe sempre rimasta limitata se non avessimo scoperto la capacità di usufruire di tesori nascosti della terra, se non avessimo scoperto la capacità di attingere alle isole di sintropia che si sono formate attraverso i millenni nella storia della terra (parlo del carbone, del petrolio, dei minerali e così via…). Solo duecento anni fa, questa dinamica del denaro è potuta veramente esplodere perché allora erano disponibili forze della natura per incrementare il valore monetario. Vi racconto con un aneddoto l'esempio che mi ha fatto scoprire questo legame. Io sono un amatore del treno e della locomotiva. La locomotiva ha portato l'esperienza dell'infinito ai nostri padri e nonni, poiché prima del 1830-1840 c'erano solo cavalli e uomini ed essi possono essere allenati a correre, a coprire le distanze, possono essere selezionati; però, l'uomo e il cavallo alla fine si stancano, si feriscono, si esauriscono, devono dormire, mangiare, non possono continuare a correre. Questa situazione cambia radicalmente con la locomotiva, perché può correre senza esaurimento, senza fatica, anche dopo dieci ore; anzi può accelerare. I contemporanei all'improvviso vedono che è possibile avere il movimento, che non è più limitato dalle capacità del corpo, che i limiti organici dell'uomo o dell'animale non contano più, così come i limiti topografici del paesaggio, grazie ai binari che tagliano valli e montagne. La locomotiva e i binari per me sono il simbolo di quello che è successo nella prima metà del secolo scorso quando i limiti della natura, del paesaggio, del nostro organismo e del nostro lavorare all'improvviso sono esplosi e sono stati soffiati via, perché c'erano la potenzialità del motore, della macchina a vapore e, più tardi, della macchina a petrolio, della combustione e dell'elettricità. Tutte queste infrastrutture però sono fatte per attingere alle isole di sintropia, di energia di altissimo valore, di altissima potenzialità lavorativa, che poi vengono utilizzate dall'umanità in un attimo di tempo, secondo questa capacità di mobilitare in nome nostro le risorse nascoste della terra e di bruciarle nel giro di cento, centoventi anni. Un'altra prova di questa teoria è che tutti gli economisti classici, incluso Adam Smith, Maltus, Ricardo … non conoscevano ancora l'idea della crescita illimitata perché consideravano l'economia come un qualcosa che si alimenta dell'energia vivente. In un'economia che vive di agricoltura, di alberi, di animali, si sa intuitivamente che tutto ciò che si produce poi deve essere rigenerato, perché gli uomini, gli alberi, le piante devono continuamente rigenerarsi. Quindi, c'è sempre un ciclo di rigenerazione che fa da freno alla freccia della illimitatezza. È solo nel momento in cui l'immaginazione della gente - inclusi i teorici dell'economia -, è affascinata dalla macchina a vapore, nel momento in cui la tecnologia diventa guida che le idee cambiano, perché diventa auspicabile che il processo di economia/produzione possa accelerare infinitamente. Questo è un altro indicatore del fatto che la transizione alla "società fossilistica" rappresenta una rottura importante e ci ha avviati sulla strada della infinitezza. Abitare il limite ora che questi limiti più fisici della terra ci mostrano la loro presenza, su scala globale può anche significare cercare la transizione a una società postolistica, postfossilistica, solare, se volete; comunque, a una società che man mano consente di attingere ai tesori nascosti della terra. Tuttavia, questi patrimoni nascosti della terra sono sempre limitati e sono molto più difficili da assorbire (come l'anidride carbonica e le sostanze che vengono rilasciate come rifiuti). Il riscaldamento della terra, quindi, è un'altra parola che indica questo disequilibrio …..

4. L'impasse globale

Da questa infinitezza, emerge l'impasse globale a cui assistiamo. Per tanti anni abbiamo vissuto nella ideologia della crescita che aveva una speranza: quella che alla fine i benefici superino i costi. Questo è il famoso "ottimismo del progresso", secondo il quale l'azione umana alla fine avrà più benefici che costi. Questo ottimismo ha solo duecento anni. In tutte le società non moderne c'era il sospetto che non si potesse sapere se l'azione umana alla fine sarebbe stata positiva o negativa. Comunque, non possiamo essere noi a determinarne il risultato. Quindi c'era la consapevolezza che l'azione umana fosse intrisa di fragilità, possedesse un significato molto ambivalente e quindi ci si affidava ad altri poteri quali la preghiera, i rituali e così via per chiamare aiuto esterno affinché si determinasse in modo positivo il risultato incerto dell'azione umana. Questa consolazione è stata spazzata via già duecento anni fa e si è fatta strada l'idea che l'azione umana alla fine sia sempre positiva, così come gli economisti in fondo in fondo credevano che il risultato sarebbe stato positivo anche se ci sono costi. Una visione politica connessa con le teorie dello sviluppo dell'ultimo mezzo secolo, ci ha portato a pensare la giustizia globale come una torta crescente da cui tutti avranno la possibilità di avere una fetta maggiore senza sacrificare niente. Questa era la grande speranza: lo sviluppo, la crescita, porteranno alla fine ad una maggiore giustizia. Attenzione! Il presupposto nascosto è che questa crescita avrà meno costi che benefici. Nel momento in cui - e mi sembra che questa situazione sia già attuale - abbiamo il sospetto che forse i costi siano maggiori dei benefici, tutta questa equazione non funziona più; ed è quello che sta succedendo. Per anni e per decenni la crescita aveva costi, rimasti tuttavia invisibili perché spostati in tre dimensioni

  1. I costi sono stati spostati nella dimensione del tempo: oggi noi abbiamo il riscaldamento dell'atmosfera non solo per la nostra attività ma già a causa delle emissioni dei nostri nonni. Per esempio la frana non si sarebbe formata se i nostri padri, nonni, e bisnonni non avessero disboscato e così via. Quindi già noi oggi sentiamo le conseguenze delle azioni delle nostre generazioni precedenti. Ugualmente noi oggi in un grado maggiore spostiamo conseguenze nel futuro; quindi, oggi, diventa sempre più chiaro che la distanza tra il presente e il futuro si sia ridotta. Il niño sta già arrivando: noi viviamo in un'epoca che già soffre le conseguenze dell'anidride carbonica.
  2. Per tanto tempo negli ultimi duecento anni abbiamo spostato i costi del nostro sviluppo a destinazioni e luoghi lontani. Quindi la distanza geografica ci ha impedito di vedere i costi, di viverli: (vedi lo sfruttamento e la distruzione naturale in altri paesi e così via…). Oggi, tuttavia è diventato più difficile, perché colui che subisce le conseguenze lontane delle nostre attività prende un aereo, affitta una barca, arriva alle nostre coste, e ai nostri aeroporti. Quindi con la riduzione del tempo e dello spazio nella globalizzazione non solo le cose positive sono più vicine, ma anche le cose più spiacevoli lo sono.
  3. Abbiamo sempre spostato i costi attraverso la gerarchia sociale, cercando di addossarli a quelli che non potevano difendersi. Così è avvenuto, anche nel senso ecologico, in tanti paesi del Sud, dove le risorse naturali sono rubate a quei gruppi che ne abbisognano per la loro sussistenza. Finora i limiti potevano essere nascosti dietro il velo della distanza temporale, della distanza geografica e della distanza sociale. Peraltro questi meccanismi non funzionano più bene anche a causa della globalizzazione in senso lato, perché la globalizzazione non globalizza solo come oggetto le cose buone, globalizza anche le cose problematiche. Non riduce solo la distanza dell'evento, (per esempio del Sig. Clinton e di me che guardo la televisione), ma riduce anche la distanza fra tutti i punti di sfruttamento e le conseguenze della limitatezza.

5. Il nuovo colore della giustizia.

Cosa ne consegue dai fattori della illimitatezza, e della finitezza? C'è una conseguenza su scala globale che io chiamo il nuovo colore della giustizia. Come già accennato prima, ribadisco che noi abbiamo creato paesi molto ricchi, molto confortevoli, forse paesi che vivono le epoche più splendenti della loro storia, però nello stesso tempo abbiamo creato una ricchezza che né è capace di futuro, né è capace di giustizia. Mi concentro sulla giustizia. Voi conoscete tutti i numeri dell'effetto serra e che la terra potrebbe assorbire tutta l'anidride carbonica emessa se ciascun cittadino del mondo emettesse 2,3 tonnellate di CO2. Con 2,3 tonnellate di CO2 all'anno, infatti, le cose potrebbero andare lisce, perché certo la terra assorbe anidride carbonica attraverso la massa, le alghe, gli alberi e così via… Il fatto è che un tedesco medio ne emette 12 tonnellate all'anno e un americano 20 all'anno, quindi considerando solo questo aspetto si vede subito che la nostra ricchezza è oligarchica. Con questo voglio dire che il problema della nostra ricchezza non risiede in primo luogo nel fatto che non viene condivisa, ma nel fatto che essa è strutturalmente oligarchica: se condividessimo la nostra ricchezza in modo democratico nel mondo, la biosfera andrebbe a picco! Questa è la situazione: dobbiamo scegliere tra democrazia (uguaglianza) e catastrofe. Gli esempi sono chiari: la società automobilistica: non tutti possono permettersi la macchina; l'agricoltura chimica: le riserve di acqua, le riserve di suolo della terra non basterebbero se tutti cominciassero a utilizzare l'agricoltura chimica, la nutrizione a base di carne: la carne, almeno quella a produzione industriale, costa così tanto grano che non serve a sfamare la gente... Questi sono tutti esempi che ci mostrano che questa ricchezza è oligarchica e non capace di giustizia. Quindi la giustizia oggi cambia colore, perché non vuol dire in primo luogo dare qualcosa agli altri, far partecipare gli altri alla nostra ricchezza; significa invece trasformare la nostra ricchezza in una ricchezza che sia capace di giustizia. Questa è una critica implicita al discorso dello sviluppo perché, come voi sapete bene, per tanto tempo quando si parlava della giustizia nel mondo i riflettori erano puntati sui poveri. I poveri devono essere sollevati, devono essere istruiti, devono alla fine raggiungere lo standard di vita dei ricchi; però quasi nessuno parlava della trasformazione del vertice. Tutti parlavano del sollevamento dei poveri. Ora il nuovo colore della giustizia è quello di mettere in questione il nostro tipo di benessere, di renderlo più democratico. La giustizia è piuttosto quella tradizione classica: cambiare il ricco per cambiare il povero. Anche nella tradizione filosofica, biblica ecc. quando si parla di giustizia si parla del ricco, perché puntare tutta l'attenzione sul povero è un modo del ricco di proteggersi. Quindi mi sembra che l'idea della giustizia portata avanti attraverso la crescita della torta, sia arrivata ormai al capolinea. Bisogna pensare che l'idea della giustizia non possa più essere collegata all'idea dello sviluppo illimitato, ma piuttosto sia molto vicina alla sufficienza, perché solo la giustizia che sa esercitare la sufficienza permetterà a tutti di avere la loro porzione. Così cambia anche la prospettiva della giustizia internazionale: non si tratta di imparare a dare di più, ma di diventare capaci di prendere di meno. E così concludo la prima parte.

Seconda Parte

In questa seconda puntata vorrei lasciare dietro di me la cornice globale per porre maggiore attenzione alla società odierna e alla nostra vita quotidiana. Sin dall'inizio ho trovato molto bello il vostro titolo "Abitare il limite", perché cerca di esprimere il fatto che in questa transizione verso una società sostenibile, verso una società non fossilistica, ciò che importa è riscoprire la capacità emancipativa del limite, ridefinendo e rivedendo il limite, quindi abitando il limite. E per abitare si intende da un lato fare la pace con il limite e dall'altro lato costruire su di esso, sentirsi a casa, appropriarsi del limite. Il confine può essere trasformato in qualcosa di nuovo; per esempio questa città, almeno storicamente, ha abitato non solo nel senso metaforico il limite. Ecco perché nel mio primo intervento ho parlato in gran parte di un limite quantitativo -dello spazio ambientale, delle risorse disponibili, del patrimonio naturale - da cui emerge questa richiesta storica di limitare, anche quantitativamente, il volume delle nostre esigenze. Tuttavia non basta parlare dei limiti nel senso di riduzione quantitativa, perché la domanda essenziale è questa: "Sarà possibile trasformare i limiti in nuove opportunità?" Esiste, infatti, come ha detto più volte ieri Antonio Nanni, una produttività del limite. Come vedete qui a Città di Castello il confine è stato un fattore di produttività, ha fatto crescere qualcosa. Forse è possibile che qualcosa di simile esista anche a livello della società e lo sperimentiamo anche a livello personale: uno prosegue per una strada, si scontra con una situazione e subentra la grande crisi. Terminata la crisi, arriva poi ad un livello nuovo che apre ulteriori prospettive. Superare i limiti, trovare qualcosa di nuovo fa parte della nostra esperienza quotidiana, ed è possibile che una transizione del genere avvenga anche a livello della società. Quindi bisogna riscoprire, rivalutare i limiti in tanti modi. Nanni diceva bene ieri che parlare del limite è un altro modo per parlare della misura: questa è la parola classica, la più giusta perché quando parliamo di limite l'intenzione è quella di limitare qualcosa per far crescere qualcos'altro, per ristabilire un equilibrio. L'idea sottostante è un'idea vecchissima ma grande: è quella della proporzione secondo la quale tutte le cose giuste, utili e belle sono cose che osservano una certa proporzione, per cui le parti hanno un certo collegamento fra di loro e con il tutto. Di conseguenza la ricerca del limite è la ricerca, a tanti livelli, di una nuova proporzione, sia nella vita personalissima di tutti noi, sia a livello planetario perché si può anche riformulare la sfida di oggi. Se è vero che l'economia è diventata eccessiva, troppo grande rispetto all'ecosistema della biosfera, si può riformulare la sfida ecologica trovando la proporzione giusta fra antroposfera e biosfera. Quindi, la grande domanda può essere formulata come ricerca della misura giusta, dell'equazione giusta tra antroposfera e biosfera a partire dai gesti quotidiani.

Ora vorrei parlare della riscoperta della lentezza, del luogo e della sobrietà. E questo lo faccio sempre nello spirito di ricerca di un riequilibrio, di una misura giusta sperando di essere esplicito. Nella ricerca attuale si legge il desiderio classico di ritrovare una proporzione nella vita che sia utile, giusta e bella. La ricerca dell'estetica ecologica cerca di riunire queste tre componenti: l'utile, il giusto e il bello. E non è un caso che si possa intendere la ricerca ecologica anche come la ricerca di una nuova estetica. Una metafora per spiegarmi. Uno ha detto una volta: "Perché i limiti più fisici, che sono posti al progresso oggi, dovrebbero essere più restrittivi del numero limitato di fori nel flauto di Jean Pierre Rampal? O della cornice che delimita la tela di un Paul Cézanne? Come è possibile trasformare costrizioni in una nuova creatività?" Nell'arte è più chiara questa intima connessione tra limite e creatività: Cézanne, a causa del fatto che la tela è limitata dalla cornice, è messo nella condizione di produrre un'opera così affascinante che non sarebbe stato capace di realizzare se avesse avuto a disposizione tutto lo spazio. Allo stesso modo, questa metafora di Cézanne che ha creativamente utilizzato la misura delimitata della sua tela può essere applicata all'opera di civilizzazione.

1. La riscoperta della lentezza.

Occorre riscoprire la lentezza e con essa una dimensione fondamentale nella nostra vita: il tempo. Nella società fossilistica regnava la certezza che le velocità più elevate fossero preferibili a quelle più contenute, così abbiamo costruito una infrastruttura che facilitasse la mobilità, l'accelerazione: strade, canali, aeroporti, satelliti per la comunicazione, veicoli di ogni genere (dalla locomotiva, all'automobile, all'aereo ecc.). Si è sempre desiderato aumentare la velocità e rendere lo spazio attraversabile, di conseguenza è sorta una società irrequieta voluta da una convergenza dell'economia, dei consumatori, dei governanti e dei pianificatori. Questo spirito dell'800 si fa particolarmente notare per esempio nella tecnologia automobilistica. Oggi ci vengono offerte macchine con valori di accelerazione e con una potenza tale da ipotizzare di dover fare una corsa sull'autostrada ogni giorno; ma, in verità, un'auto trascorre l'80% del suo tempo nel traffico di città, a velocità medie di 15, 20, 25 Km all'ora. Questa speranza fossilistica della velocità; cioè il fatto che oggi noi mandiamo automobili di alta prestazione sulle strade, è tanto razionale quanto tagliare il burro con la motosega, perché per andare a 20 Km all'ora non occorrono queste macchine. Quindi noi abbiamo creato una flotta automobilistica grottescamente ipermotorizzata, con tutto lo spreco di energia di materiali che ne consegue. Pertanto, anche ciò che sembra essere molto razionale (il progetto ingegneristico della motorizzazione) in verità è molto irrazionale, perché non corrisponde allo scopo. Alla fine, però, nella società fossilistica si fa sentire un certo disincanto, si fa sentire l'idea che forse questi "frutti" dell'accelerazione non sono così numerosi come sembra. Si sente che oltre a una certa soglia l'accelerazione rivela un lato oscuro, una tendenza spiacevole: se uno va sempre veloce arriva sempre più veloce in luoghi dove resta sempre meno. Perché quando cerchiamo di accelerare, di trovare il prossimo treno, di essere più veloci, di mettere più cose in un lasso di tempo, si innesca una situazione in cui proiettiamo tutta l'energia nell'arrivo e nella partenza, dimenticando la presenza. L'accelerazione dunque diventa la nemica del presente e tutti coloro che cercano di riscoprire i pregi della lentezza, che cercano di uscire dalla logica ferrea dell'accelerazione della vita quotidiana, non lo fanno perché sono diventati pigri all'improvviso; bensì perché sentono che è in gioco la qualità della nostra vita. Un modo per cercare la qualità di vita, infatti, consiste nella capacità di confrontarsi con una situazione in modo preciso, attento, rilassato, ascoltando il ritmo che viene richiesto dalla situazione particolare (per esempio dai bambini, dallo studio ecc.). Questo richiede però la capacità di sottrarsi alla logica dell'accelerazione, di cercare la lentezza e il ritmo proprio in quello che si fa. Nella nostra ricerca emerge una proposta. Voi sapete infatti che più veloci sono un auto o un treno, più energia consumano non solo in modo lineare, ma anche in modo esponenziale. Se è così, e se veramente vogliamo costruire un'economia più leggera, dobbiamo guardare con cautela i livelli di velocità nella società: infatti, non possiamo immaginare un futuro sostenibile con la flotta automobilistica di oggi. Una società sostenibile ha bisogno di una flotta automobilistica moderatamente motorizzata in cui nessuna macchina possa andare più velocemente di 100/110 Km all'ora, con la conseguente ottimizzazione del disegno di tutte le macchine rispetto a questo criterio. (Non saranno più importanti l'aerodinamica o il peso di sicurezza e così via…). Quindi, si parla di una nuova generazione di macchine, di una nuova generazione di tecnologie che forse ci aiuteranno a realizzare questa utopia di essere capaci di vivere con eleganza, nel prossimo secolo, all'interno dei miti. Queste erano dunque alcune osservazioni sulla lentezza, sulla dimensione del tempo.

2. La riscoperta del luogo (la dimensione dello spazio).

A proposito di Città di Castello, ho già parlato alcune volte della riscoperta del luogo, del confine e della vita urbana. La situazione odierna, invece, è caratterizzata dalla scomparsa progressiva dei confini, anche delle città che sono integrate in circuiti nazionali e internazionali globali, proprio perché l'economia planetaria è la grande utopia secondo la quale per aver più benessere è necessario costruire un'economia che non conosce più limiti di distanza. Oggi appaiono alcuni problemi rispetto alla suddetta utopia di cui il primo è quello della democrazia. È chiaro che se noi siamo sempre più integrati nel mondo, abbiamo sempre meno un posto nostro e affari nostri; ma la democrazia è l'autogestione degli affari nostri: tuttavia, se viene meno una cosa che si può chiamare nostra, ci sarà sempre meno democrazia. Tuttavia, nessuno ha ancora inventato un governo mondiale democratico. La democrazia può essere strangolata dall'eccessivo autoisolamento e dal "paganesimo"; però, dall'altro lato la democrazia potrebbe essere soffiata via dalla troppa autoesposizione, dal denudarsi dinanzi ad influenze globali. A me sembra che in tutta la dimensione della globalizzazione la cosa più critica sia la dimensione democratica, perché sta scomparendo una eredità che abbiamo costruito in tanti decenni. Un secondo aspetto è quello ecologico, perché non c'è globalizzazione, non c'è grande distanza senza trasporto: voi conoscete certamente i fiori che provengono dal Kenia e le scarpe che vengono da Taiwan e così via. Una città come questa, invece, ci dà l'idea della giusta proporzione fra l'insediamento e i dintorni in quanto nella città tradizionale si cercava di costruire una casa affinché si adeguasse bene alle direzioni del vento, all'ambiente naturale che la circondavano, ai flussi d'acqua, e al micro clima locale. Quindi l'insediamento tradizionale cercava di trovare la proporzione, il rapporto giusto con ciò che lo circondava; ma oggi vediamo, anche qui fuori da Città di Castello, tanti edifici che sono come scatole che non conoscono luogo e tempo. Non conoscono luogo perché sono fatti di materiali che non vengono dall'Alto Tevere e secondo un'idea e una razionalità che non sono quelle dell'ambiente di Città di Castello; quindi, sono pezzi di una architettura senza luogo, senza tempo e senza materialità locale. Per rendere vivibile questa dismisura abbiamo bisogno di energia e di materiali, di tutta l'azione fossilistica di cui abbiamo precedentemente parlato. Per rendere vivibili queste "scatole" occorre avere per esempio la climatizzazione, il vetro e il cemento perché lo sforzo di realizzare un insediamento non in sintonia con il locale può essere sostenuto solamente impiegando energie e materiali fossili. La ricerca del limite nel senso geografico, la ricerca della misura per inserire le cose in armonia con l'ambiente, con i dintorni è anche una ricerca della società post-fossilistica, che riscopre il luogo come criterio, come punto di riferimento per una misura nuova.

3. La riscoperta della sobrietà.

Vorrei cominciare con un aneddoto dello scrittore Heinrich Böll. Egli narra di un turista che incontra su una spiaggia un uomo in vestiti semplici, sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchiante al sole. Tira fuori una macchina fotografica e, mentre gli fa una fotografia, l'uomo si sveglia. Il turista gli offre una sigaretta e si lancia in una conversazione dicendo: "Ah, il tempo è bellissimo e c'è molto pesce da pescare. Perché lei non esce e cerca di catturare più pesce?" Il pescatore risponde: "Perché ho già pescato abbastanza questa mattina". "Però," dice il turista, "se vai fuori 4 volte al giorno puoi portare a casa pesce per tre, quattro volte di più. E sai cosa succederà? Forse tra due o tre anni potrai comprarti una barca a motore, un gran numero di lance, e forse, chi lo sa, un giorno avrai uno stabilimento di surgelamento o per l'affumicamento e poi un elicottero per rintracciare i banchi di pesce". "E allora?" chiede il pescatore. "E allora poi", conclude il turista trionfante, "potrai sedere tranquillamente sulla spiaggia sonnecchiando al sole e contemplando il bellissimo oceano". E il pescatore gli risponde: "È proprio quello che stavo facendo prima che arrivasse lei".

Questo piccolo aneddoto rappresenta la storia dello sviluppo, che consiste nell'acquisire progressivamente l'abbondanza dei beni per poi arrivare all'abbondanza del tempo libero. Se questo è l'obiettivo dello sviluppo, cioè il raggiungimento dell'emancipazione e della maggiore libertà di tempo, dobbiamo dire che le società di oggi non hanno raggiunto questo obiettivo. Perché? Perché il ricco cerca di realizzare un paradosso: vuole arrivare dove il povero è già. L'automobile, per esempio, faceva risparmiare tempo e rappresentava la speranza della liberazione. Dove è finita questa speranza se la gente che possiede una macchina non si muove meno rispetto a chi non la possiede? I motorizzati non trascorrono meno tempo nel traffico rispetto ai non motorizzati; infatti coprono distanze più lunghe, vanno più lontano, scelgono destinazioni più lontane. In quanto il risparmio di tempo offerto dal motore viene subito tradotto in un prolungamento delle distanze geografiche. La stessa cosa si vede in Internet e nell'E-mail in cui si ha un guadagno di tempo incredibile, che però viene subito tradotto nella proliferazione di nuove possibilità, di nuovi impegni e di nuovi compiti. Quello che vorrei dire è che il tempo risparmiato è sempre stato trasformato in distanze più grandi, in maggiori produzioni, attività, nuovi appuntamenti e così via. La nuova crescita divora le ore risparmiate e dopo un po' questa espansione genera altra pressione, nuova accelerazione e in questo modo il ciclo riprende. Quindi l'utopia dell'affluenza ha tagliato le gambe all'utopia della liberazione. Questo perché le cose, oggi, non sono semplicemente cose: l'automobile non è solo un veicolo per il trasporto ma è anche un simbolo culturale, quindi gioca sulla nostra immaginazione e diventa infinito, perché la nostra immaginazione è infinita. Possiamo sempre dare nuova identità, colore, sentimento e significato alle cose, perché l'immaginazione è il combustibile del progresso consumistico. Per questo motivo noi siamo giunti alla saturazione. È possibile avere abbastanza, ma questa possibilità di avere abbastanza è questionabile, è un'area contestata. Oggi, infatti, non abbiamo più bisogno di un tetto, di cibo, e così via; essi però assumono molti significati: ci sono tanti tetti e tanti cibi nel mondo e possono essere ulteriormente differenziati per diventare più sofisticati. Questa esplosione verso una società di tante opzioni rende quindi difficile abitare il limite, anche se al tempo stesso si aprono nuove possibilità per parlare di limite e per abitare il limite. Più cose ci sono più importante diventa per noi relazionarci criticamente alle cose.

Vorrei tornare su un aspetto che ho già ribadito e cioè sul fatto che le cose che abbiamo sono ladre di tempo. I beni che possediamo, infatti, devono essere scelti, acquistati, installati, usati, sperimentati, conservati, riparati, tenuti in buono stato, buttati via… ecc. e tutto questo costa tempo. Anche i tanti appuntamenti che abbiamo devono essere cercati, coordinati, concordati, inseriti nell'agenda, mantenuti, valutati, portati a termine. Quindi le tante cose, le tante opzioni sono sempre un attacco al nostro tempo che è sempre limitato, perché il giorno nel suo moto conservatore ha sempre e solo 24 ore. Di conseguenza la dinamica della società delle multi-opzioni ci mette in una trappola: nella trappola del tempo. Infatti la scarsità del tempo è forse la nemesi dell'affluenza della ricchezza; ma c'è un problema, perché uno non cerca di possedere meno per diventare un uomo migliore, semmai per diventare un uomo più indipendente. La cosa strana che succede è che oggi diventa una cosa di sopravvivenza avere la capacità di dire di no, perché la libertà può essere soffocata in due modi: dalla mancanza di opzioni, per esempio il non aver qualcosa da mangiare; dall'eccesso di opzioni.

Nel primo caso la libertà viene minacciata dalla mancanza, nell'altro caso dalla confusione. Nella società consumistica, dove tutto gira attorno alla moltiplicazione delle opzioni, la nostra libertà sta sgretolandosi nei confronti dello strapotere dell'offerta; siamo minacciati dalla confusione del troppo. I conflitti della nostra società derivano dall'eccesso, non dalla povertà e ci conducono ad una conseguenza: non sappiamo più volere. Non sappiamo più a cosa dedicarci, perché la stra-offerta delle opzioni fa si che diventi sempre più difficile orientarsi. Per esempio con Internet si apre un universo infinito di possibilità che non opprimono la libertà, ma la minano per la sovrabbondanza smisurata di scelte disponibili.

Voi tutti conoscete la grande distinzione di S. Agostino fra libertà da qualcosa e libertà per qualcosa. Noi viviamo in una società che ha massimizzato la libertà da qualcosa: dal villaggio, dalle costrizioni sociali, dalla moglie ecc.; ma, allo stesso tempo, ci ha fatto cadere in una nuova trappola perché "la libertà per" diventa sempre più difficile da esprimere e da indirizzare. Quindi l'arte di saper scegliere mi sembra essenziale nella nostra società, che richiede oggi più che mai la capacità di dire di no. Se tu vuoi essere qualcuno che vuole qualcosa devi esercitare l'arte del no. Sembra paradossale, ma in una società strapiena di opzioni l'austerità diventa la base per la libertà. È questo il punto di ingresso a tutto il mio discorso sulla sobrietà. La capacità di essere frugale oggi nei confronti delle tante possibilità, è diventata una chiave del nostro benessere, non solo per noi ma per tutti, per il pianeta. L'arte del vivere richiede il senso della giusta misura, della moderazione, altrimenti non c'è sopravvivenza nella società. Nell'era delle mille opzioni, la capacità di mettere a fuoco le cose implica il potere di dire di no e diventa l'ingrediente importante per una vita più ricca. L'austerità è sotterraneamente collegata all'edonismo. Questo legame forse è più attuale oggi nelle nostre società ricche, rispetto a un tempo in cui solo alcuni erano ricchi. Un drammaturgo ungherese-austriaco, Ödon von Horvarth, ha detto: "In realtà sono una persona diversa, solo che non trovo mai il tempo di esserlo".

DIBATTITO:

1) Occorre superare la visione ingenua secondo la quale la giustizia avrà come protagonista la conversione del ricco; se i poveri impoveriti, spogliati, ingannati, non si uniscono per far fuori i potenti, non ci sarà giustizia. Non è più il tempo di metterci d'accordo.

Risposta: (…) Questo toglie l'approccio che ha troppo il "puzzo" di idealismo dal mio intervento. Certo la conversione del ricco in un modo paradossale ha bisogno della cattiveria del poveraccio per tanti motivi. Un motivo è che noi uomini non siamo solo idealisti, ma siamo una mistura di ideali e di interessi; quindi i cambiamenti hanno sempre bisogno, come ingrediente, di una buona dose di egoismo. Un secondo motivo è che il "voi e noi" forse non funziona più così bene. Io credo che la cattiveria del poveraccio del Sud possa approfittare della alleanza da parte del ricco che si vuole convertire. Ciò significa che la divisione non è più tra Nord e Sud, ma fra la classe consumistica del mondo che è concentrata al Nord, ma che ha tutte le sue succursali al Sud, e quelli che sono socialmente esclusi. In questa maniera si apre la possibilità di alleanza o almeno di intesa fra gruppi del Sud e gruppi del Nord.

2) Lei pensa che sia stato recepito che le tragedie di questo secolo abbiano prodotto dei costi non sopportabili per lo sviluppo e che i benefici non erano per tutti?

3) Lei conoscerà senz'altro il libro di Fred Hirsch "I limiti sociali dello sviluppo". Il libro suggerisce che non ci sono solamente dei limiti fisici e ambientali allo sviluppo, ma ci sono anche limiti sociali legati alla modalità di produzione e di consumo. Riallacciandoci anche alla seconda domanda: Ci sono conseguenze dannose anche nelle società sviluppate?

Risposte: Negli ultimi duecento anni lo sviluppo è riuscito a superare i limiti che si sono mostrati. Per esempio lo sfruttamento degli operai è un limite che poi man mano è stato in un certo senso superato; anche se poi questo superamento è avvenuto a spese della natura, perché la divisione sociale creatasi nel secolo scorso, è stata superata dal Welfare State che si fonda su uno sfruttamento maggiore della natura (perché deve produrre ricchezza per far crescere il fondo). Si sono inoltre verificati grandi eventi che hanno fatto esplodere la critica al progresso: la prima guerra mondiale, l'intelligenza dell'Europa che cominciava a disperare dell'ideale del progresso e la seconda guerra mondiale con il genocidio. Però, se non mi sbaglio, queste lezioni non sono state dimenticate, e messe da parte davanti alla promessa della americanizzazione. L'America non era stata coinvolta nell'esperienza traumatica del progresso in Europa e ciò alimentava la speranza che l'americanizzazione, la società consumistica, potesse liberarci da queste costrizioni. Adesso, a distanza di soli trenta anni, ci ritroviamo in un ciclo in cui riscopriamo vari limiti: non ci sono solo i limiti della natura o della giustizia, ma anche i limiti sociali e del consumo. L'argomento di Fred Hirsh, che ha scritto il libro intitolato "I limiti sociali dello sviluppo", è stato abbastanza velocemente dimenticato in quanto sostiene che il nostro processo di crescita funziona con una inflazione interna. Ciò significa che noi lavoriamo sempre di più per ottenere sempre di meno e mette in evidenza che tanta parte della nostra ricerca di benessere non mira a trovare le nostre nuove esperienze, ma piuttosto è condizionata dal fatto che noi ci orientiamo all'altro, che consuma insieme a noi, quindi, qualsiasi consumo è anche una risposta al passo che ha compiuto un altro. Se tanti hanno un'automobile diventa interessante avere un'automobile; se tantissimi la posseggono e la società ruota attorno all'automobile, diventa una cosa indispensabile avere l'automobile. Tuttavia, ognuno raggiunge ancora le proprie destinazioni (la scuola, il medico, il lavoro); quindi tutti fanno le stesse cose, ma devono impiegare di più. Hirsh, pertanto, cerca di scoprire quei meccanismi responsabili di un disincanto, di un tipo di consumo che si fa sentire al di là o al di sotto dei limiti naturali.

4) Le grandi città territorialmente circoscritte hanno scaricato la loro crisi sulla popolazione (aspetto demografico) riducendola sostanzialmente come numero. Da una civiltà globale con limiti territoriali assenti, la crisi verrà scaricata come al solito sulla riduzione della popolazione?

Risposta: Certamente uno dei messaggi ambigui, nascosti in questa immagine della navicella spaziale che non ha più posto per altre persone, risiede nel fatto che molti si fanno protagonisti del controllo delle popolazioni utilizzando questo linguaggio. In tutto ciò si trova un pizzico di verità, perché la pressione ambientale sulla terra deriva da due o tre fattori: il numero della popolazione, l'intensità ambientale delle tecnologie e lo standard di vita come aspirazione. Così è vero che tante persone pongono un problema, ma a me piace invertire la domanda: "Normalmente ci si chiede se non sia doveroso controllare la popolazione, può darsi, ma un'altra domanda potrebbe essere: com'è possibile rendere ospitale il mondo per un maggiore numero di persone?" Questa domanda, che viene solitamente elusa, mi sembra altrettanto cruciale quanto quella che chiede come sia possibile mettere meno persone nel mondo.

5) Alla luce della fondazione della Banca Etica e delle altre esperienze affini presenti in vari paesi del mondo, le chiedo qual è la sua opinione sulla concretezza di questi progetti e qual è il rapporto possibile con la finanza ufficiale (il 97% degli scambi valutari è di carattere speculativo secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale), anche considerando la costituzione di fondi etici non particolarmente limpidi da parte di banche tradizionali (per es. S. Paolo di Torino).

Risposta: Non dico nulla della situazione italiana perché ci sono altre persone più competenti di me per dare una risposta. Però, visto che sono un ambientalista, politicamente cerco di essere realista. Tre giorni fa Greenpeace Germania, di cui sono Presidente del Consiglio di Amministrazione, ha deciso di assistere alla apertura di un fondo di investimento etico in Germania e di mettere quindi sulla bilancia il prestigio di Greenpeace che in Germania è molto più alto di quanto non sia in Italia, per far decollare questo esperimento. Noi sappiamo che facendo questo in un certo senso partecipiamo alla maggiore valenza del capitale finanziario del mondo di oggi. Dall'altro lato si cerca di richiamare la pubblica attenzione sulla domanda: "Qual è il valore che deve governare i movimenti di capitale? Quali sono gli indicatori, i criteri di questo valore?". E questo ci permette di dire che noi dobbiamo allargare lo spazio a coloro che guardano al valore lungo gli anni. Il principio sottostante è il seguente: un investimento di oggi deve avere un valore rispetto alla natura e al mondo sociale. Noi supportiamo solo questi investimenti e, considerato che circola tanto capitale, anche capitale molto privato e individuale, questa è la possibilità di dare una piccola spinta ad un'economia più sostenibile



http://www.saveriani.bs.it/cem/Convegno/conv37/atti.html



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