Marginali, instabili, precarie. Cresce l'occupazione femminile, ma dall'istantanea delle donne italiane che lavorano (o che cercano impiego), emerge che la “questione” esiste ancora, in un contesto sempre dominato dalla presenza degli uomini per numero di occupati e facilità di fare carriera. Qualche esempio? Una donna su due in età da lavoro (15–64 anni) non svolge alcuna attività remunerata e non cerca un impiego; nel pieno della maturità professionale (35-54 anni) lavorano solo sei donne su dieci; quasi una occupata su cinque ha contratti “temporanei”. E intanto il tasso d'occupazione femminile per coloro che non hanno una laurea resta il più basso dell’Unione Europea. È “un incontro molto contraddittorio” quello tra donne e lavoro atipico, come recita il titolo del terzo Rapporto Ires-Nidil che diffonde questi dati.
Le differenze di genere nelle opportunità di lavoro e di guadagno, ricorda la ricerca, rafforzano la tradizionale divisione del lavoro nella famiglia: la marginalità e la discontinuità delle mansioni, insieme al basso reddito, spingono molte donne fuori dal mercato del lavoro. Su oltre 3 milioni e 400mila persone che vivono una condizione d'instabilità, ricorda il dossier, il 53 per cento è composto di donne. Secondo l'indagine, poi, il tasso di disoccupazione femminile nelle fasce d'età 25-34 e 35-54 anni è molto più elevato di quello maschile: 10 e 5,3 per cento contro 6,2 e 2,7 per cento. Resta la spaccatura geografica: nel Centro-Nord è quasi raggiunto l’obiettivo di Lisbona (tasso di attività femminile quasi al 60 per cento) mentre nel Mezzogiorno il ritardo si aggrava progressivamente.
Segnali positivi, comunque, ci sono: l'occupazione femminile in Italia tende ad aumentare di più rispetto a quella maschile (+8 per cento nel decennio 1996-2006). Ma è una crescita incompiuta, poiché tale dinamica trova sbocco per lo più nei lavori part-time e instabili, in cui figurano dipendenti a tempo determinato e collaboratori occasionali: per le donne questi contratti (che rappresentano il 19 per cento sull'occupazione totale femminile) sono aumentati maggiormente rispetto ai colleghi. Una condizione che “punisce le lavoratrici in termini di reddito – aggiunge la ricerca – senza favorire in cambio la conciliazione con gli impegni familiari e la maternità ma producendo al contrario nuove forme di segregazione e disuguaglianza”.
In definitiva, se nel “nuovo” mercato del lavoro un numero crescente di persone deve affrontare condizioni di instabilità occupazionale che si protraggono nel tempo, tra le donne la precarietà è più diffusa e assume caratteri peculiari: riguarda persone relativamente più adulte ed è caratterizzata da impieghi marginali, contratti di breve durata, impegni orari limitati e imposti, minori opportunità di transizione verso occupazioni stabili. Lo dimostra il fatto che più del 7 per cento delle lavoratrici instabili di età 15-54 anni occupate lascia l’anno successivo il mercato del lavoro, principalmente per dedicarsi alla cura della casa e/o della famiglia.
Quanto al reddito delle “atipiche”, emerge come sia mediamente inferiore di quello degli uomini (in alcuni casi arriva appena al 56 per cento di quello dei colleghi maschi). Sul totale dei contratti interinali, le donne con reddito medio-alto (oltre 1.500 euro) sono molto meno della metà degli uomini, mentre quelle che si collocano nella fascia più bassa (meno di 800 euro) sono circa il doppio dei colleghi (37,2 per cento contro il 18,3). In generale, le lavoratrici guadagnano, ovunque, meno degli uomini: la differenza è maggiore nel Nord-ovest, dove l’imponibile medio delle donne è circa il 65 per cento di quello degli uomini. Il paradosso, concludono Ires e Nidil, è che “le donne che non hanno impiego stabile non sono neppure quelle che mettono su famiglia, perché la natalità è più alta nelle regioni dove è maggiore l'occupazione femminile”. |