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Arte
Pizzica, gruppi storici: il Canzoniere grecanico salentino. Intervista a Daniele Durante

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma, Formazione permanente
Tipologia: Documentazione
Abstract:

Intervista a Daniele Durante pubblicata su “opillopillopiopillopillopa”

Racconta la tua esperienza di musicista e di ripropositore di questa musica

Nell’autunno del ’74 ero a Bologna a frequentare l’università, iscritto al 2° anno di Economia e Commercio. Dovendo preparare l’esame di inglese, decisi che valeva la pena andarlo a studiare direttamente a Londra.

Era chiaro che questo era un pretesto, quello che m’interessava maggiormente era poter prendere contatto con il mondo musicale inglese. I miei gruppi allora preferiti erano i Gentle Giant ed i Genesis.

Sono stato a Londra fino al febbraio del ’75, ma già dopo pochi giorni mi accorsi che l’atmosfera non era quella che mi aspettavo. Allora avevo 20 anni e nei miei precedenti viaggi da adolescente ero rimasto sempre colpito dagli hippies, e dalla loro filosofia di vita. Certo non avevano molta pratica con l’igiene e spesso le loro teorie, per la risoluzione dei problemi, erano di un’ingenuità disarmante ma, sicuramente erano felici e lo si leggeva nei loro occhi, tanto che per questo li invidiavo non poco.

A Bologna per tutta la buona stagione frequentavo di sera Piazza Maggiore dove abitualmente si formavano gruppi occasionali per improvvisare canti e musica. Questo mi aspettavo di trovare a Londra, in maniera più amplificata ed internazionale, ma, le cose cambiano, e Londra, che dal dopo guerra in poi è stata la fucina del pop europeo, lo faceva vedere chiaramente. I ragazzi per strada non stavano bene, non avevano più teorie ingenue risolutrici dei problemi cosmici e i loro occhi non erano felici. Gli hippies non avevano combinato niente e di loro non volevano neanche sentirne parlare. Non sapevano più che dischi comprare: il rock suonava la musica del registratore di cassa. Carnaby Street, ormai, era un indirizzo buono giusto per i turisti “mordi e fuggi”, per dimostrare con un ricordo di essere passati da Londra, e non perciò un luogo di “identità”. Un posto dove stazionavano sempre le stesse facce era la stazione metropolitana di Piccadilly Circus. Forse quello era un luogo di “identità”, ma certo non era quella che io cercavo, questi ragazzi avevano gli occhi vuoti, assenti e cerchiati. Un’altra cosa che mi colpì non poco fu la presenza sui loro volti e mani, di ferite; sembrava che lo facessero apposta, come un segno distintivo. Una volta mi capitò di assistere in un locale ad un’esibizione di gruppi musicali di ragazzi Londinesi, i cui volti assomigliavano a quelli visti sotto la metropolitana e fra il pubblico sicuramente vi erano alcuni di loro. Il locale che li ospitava potrebbe essere paragonato ai nostri “centri sociali autogestiti” ma si trovava però a Piccadilly Circus, in pieno centro di Londra, affianco ad un locale allora famoso che si chiamava “Cokney Pride Tavern” (e questo dimostra la grande lungimiranza degli imprenditori inglesi anni luce avanti agli italiani). La musica che si sentiva era sicuramente la loro musica. Le chitarre erano scordate, e i chitarristi non avevano molta pratica con lo strumento, i cantanti tentavano di imitare le scordature delle chitarre e bisognava dire che ci riuscivano benissimo.

Uscì da quel locale schifato, convinto di essere incappato in una di quelle serate-bidone come tante ne capitano nella nostra vita. Oggi a distanza di oltre 22 anni da quell’episodio, voglio fare delle riflessioni.

Quei ragazzi si compiacevano di risultare putridi, luridi, miserabili, in una parola ributtanti ma quello che a me sembrò un fatto marginale ed occasionale era invece l’espressione di un malessere diffuso nelle realtà metropolitane dell’occidente che portò qualche anno più tardi all’esplosione di quel fenomeno musicale e di costume definito “punk”.

Il punk andava riconosciuto a prima vista, e con disgusto. Erano svanite le mollezze hippy, al motto “love and peace” (amore e pace) si sostituì “hate and war” (odio e guerra), che era il titolo di un brano dei CLASH che con i SEX PISTOLS erano i gruppi più seguiti

quando e con chi hai cominciato a praticare la musica popolare salentina

nel febbraio del ’75, appena tornato da Londra, venni a sapere che Rina Durante cercava  un chitarrista per costituire un gruppo di musica popolare mi presentai e ….. il resto tu lo conosci è la nascita del CANZONIERE GRECANICO SALENTINO

quali erano le premesse a questo tuo impegno

dopo quanto raccontato di Londra è facile capire quali erano le motivazioni che mi spingevano a cercare le mie radici e soprattutto avere una chiarezza di intenti per dare una valenza culturale e politica al lavoro svolto e in questo sicuramente il ruolo del CANZONIERE fu fondamentale.

quale esperienza, fra le tante, ricordi maggiormente?

Come tu sai, difficilmente parlo delle esperienze passate, essendo costantemente in fermento per quelle da fare, ma per darti una risposta ricordo che, quando il Canzoniere andò per la prima volta all’estero (ad Atene), nell’ottobre del ‘76 il successo riscosso mi fece prendere contatto con le potenzialità della nostra musica in quanto tale, priva perciò del contenuto dei testi, che non venivano recepiti dagli stranieri. Questo non poté che esaltare la mia carica di entusiasmo visto che gli arrangiamenti li curavo io.

Secondo te, era più importante divulgare la cultura musicale salentina o dare valenza politica alla riproposta

Io non separerei affatto i due aspetti perché come tu sai, per averlo vissuto personalmente, per noi del Canzoniere riproporre la musica popolare salentina alla nostra maniera aveva già di per sé la sua valenza politica. Rifiutammo infatti i cliché dei gruppi di musica folkloristica in costume e con facili ammiccamenti al mondo bucolico ecc.. Ricordo ancora le interminabili discussioni con i responsabili delle feste dell’Unità di molti comuni salentini ed oltre ai quali spiegavamo che non era necessario cantare “bandiera rossa”  ma che contava molto più far prendere coscienza della propria cultura con i canti che noi eseguivamo.

Ma se nei gruppi in costume vi era una esagerazione nel “tarallucci e vino”, negli altri gruppi fu fatta una strumentalizzazione politica di molti canti. E non poteva che essere così visto che questi gruppi nascevano all’interno di un movimento politico (la sinistra) che sicuramente ha avuto un grosso merito per l’entusiasmo e la mole di lavoro prodotta ma che per per motivi politici “bocciava o promuoveva” un canto in base al contenuto del testo. Non vi erano, per esempio, nel Salento canti di protesta politica e solo qualche canto (lu sule calau, la tabaccara, fimmene, lu furese per citare qualche esempio) che denuncia la dura condizione di lavoro, e allora giù a scervellarsi per colmare questa lacuna .In questa situazione chi ne faceva le spese era logicamente la musica. Nei dibattiti di quel periodo (e purtroppo spesso ancora oggi) la musica (popolare) veniva etichettata come funzionale al testo, per cui non aveva importanza sapere o meno suonare, anzi il saper suonare (abilità tecnica allo strumento) poteva danneggiare l’esecuzione. Tu sai che in sala di registrazione alla FONIT-CETRA  a Roma mi fu vietato da alcuni componenti del Canzoniere di fare l’arpeggio che facevo di solito ad aremu rindineddha perché la chitarra sembrava un clavicembalo. Questa linea però non passò perché, tornati a Lecce, nel Canzoniere chiarì che la mia chitarra non poteva essere usata in maniera limitativa, e che questi equivoci interpretativi certamente contribuivano ad allontanare un sacco di giovani che trovavano più entusiasmante suonare il blues, il folk americano, il latino-americano, quello irlandese, quello spagnolo, napoletano, insomma tutto tranne quello salentino che era catalogato come il “solito zum pa pa”. Per dovere di cronaca bisogna dire che non solo la mia posizione fu accettata di buon grado ma, addirittura il gruppo contribuì al 50% della spesa delle lezioni di chitarra che presi per migliorare la mia tecnica, che mi servirono poi per entrare al conservatorio e diplomarmi. Dopo aver ascoltato i concerti, molti venivano colpiti dalla mia maniera di eseguire alla chitarra la musica popolare e l’aver inserito perciò la tecnica appresa in conservatorio negli arrangiamenti dei canti popolari salentini ha sicuramente tracciato una via che ha stimolato un approccio più entusiasmante (dal punto di vista esecutivo) da parte dei musicisti.

Quale e’ stato il contributo del CANZONIERE GRECANICO SALENTINO per la conoscenza della musica popolare e le problematiche legate a questa cultura?

Nel Salento, qualche decennio fa, la popolazione aveva una propria cultura, strettamente collegata ad un mondo agricolo e di conseguenza una produzione culturale che era caratterizzata da un’evidente “identità”. L’industrializzazione ed il boom economico italiano hanno costituito dei modelli, che veicolati attraverso i media, sono stati un forte richiamo per la popolazione salentina, che ha avuto un alto tasso migratorio, producendo notevoli danni all’economia locale e soprattutto disgregando il tessuto culturale nelle sue principali espressioni, con una evidente situazione di dipendenza sia economica che culturale.

Spesso questi modelli sono accettati acriticamente proprio perché si è rifiutato o addirittura perso la propria “identità culturale”.

Ma che cosa è “identità culturale” di una realtà locale e quali sono gli elementi che la costituiscono? Molteplici e difficilmente separabili: la lingua parlata, la musica, il canto, i balli, i riti, le tradizioni, i modi di esprimersi, i gesti, i rapporti umani e il posto in cui si vive.

Ma attenzione! Gli elementi specifici di un’area - per quanto isolata – non sono immutabili; sono già mutati nei secoli, mutano sotto i nostri occhi e muteranno ancora nella loro specificità, prima più lentamente, oggi più velocemente e niente può arrestare il loro mutamento: illudersi che non cambino è solo un sogno conservatore di chi vuole ridurre intere comunità a musei, in una visione estetizzante della “civiltà contadina”, ormai abbondantemente superata e rifiutata nella vita quotidiana. Il mutamento dell’economia, il sorgere di nuove classi sociali, i nuovi rapporti con l’esterno, i nuovi modelli di comportamento indotti, il confronto e le tensioni tra vecchio e nuovo, hanno prodotto in tempi brevi significativi ed irreversibili mutamenti socio-culturali e psicologici, anche se non ancora definiti o non sufficientemente maturati.

Guai a ripiegarsi sul passato e la tradizione, alla ricerca difensiva di un’identità perduta, mitizzando i più dimenticati segni, materiali e simbolici, di una cultura dimenticata: così facendo, invece di sviluppare un’area, ne facciamo una riserva, buona per essere fotografata dai turisti.

Bisogna, al contrario, individuare le radice uniche ancora vitali delle vecchie culture, cogliere i tratti essenziali che ne sopravvivono e tener conto di come si sono trasformate e come potrebbero trasformarsi nell’incontro-sintesi con altre espressioni culturali: solo così queste culture si rivitalizzano e si orientano in funzione di componenti attive dello sviluppo.

In tal modo un processo formativo metterà in condizione la cultura di una comunità a continuare in modo vitale a svolgere il suo ruolo simbolico di identificazione, presupposto per uno sviluppo non distorto.

In questa ottica il CANZONIERE GRECANICO SALENTINO ha svolto ininterrottamente per 22 anni un lavoro i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti.

Che idea ti sei fatto, dopo tanti anni, della musica popolare salentina? Puoi indicarne i segni caratteristici?</B>

Il Salento è una terra di mezzo e per ciò presenta le caratteristiche tipiche di chi geograficamente e culturalmente ha avuto la possibilità di scambi che altrove non potevano esserci. Pensa alla funzione particolare che assunse Otranto alla caduta dell’impero romano e quanto beneficio e ricchezza culturale ne trasse la nostra popolazione. Ma contemporaneamente la nostra è una “finis terrae”, una penisola che per alcuni tratti presenta le stesse caratteristiche delle isole. Il fatto che il tarantismo si sia conservato fino ai nostri giorni(in un contesto considerato pienamente acquisito alla civiltà occidentale) ne è testimonianza e  non a caso il dialetto salentino presenta caratteristiche morfologiche, di accento e di intonazione del tutto diverse da quelle del resto della Puglia. Tutto ciò lo si ritrova nella produzione della musica popolare salentina tanto che, per dirla come Gianfranco Salvatore, il Salento, con la sua tarantella liturgica può essere considerata una rara “isola sonante e danzante del nostro secolo”, sempre che si tenga presente che le “isole sonanti sono separate dal mare delle categorie ma unite da quel fondale sommerso e solidissimo che è il dominio dei motivi archetipici, tutti vibranti ad un medesimo diapason”.

Il problema per me in questo momento è che se è abbastanza facile citare gli archetipi comuni quali l’emissione della voce a “stisa” con preferenza di “testa” dalle donne e “a risonatore nasale” dagli uomini; l’uso dell’armonia nella polivocalità per terze e quinte; uso degli strumenti. Difficile è per me in questa fase dirti i tratti caratteristici, perché sto riascoltando moltissimo materiale e le idee sono molte ma poco definite e mi riservo di riordinarle quanto prima.

Negli ultimi anni sono nati tanti gruppi di riproposta, perché c’è tanto interesse?

Negli anni ’70 il proletariato giovanile si ntrovava ai margini, senza sogni da sognare, senza uno straccio di mito e senza la minima prospettiva. Dopo le melensaggini hippy tutte natura e buoni sentimenti tornavano la durezza e la chimica con certe stoffine leopardate, da brividi. La plastica veniva monumentalizzata nella sua funzione: se il mondo era una di­scarica e i ragazzi un surplus cui non si sapeva dare né lavoro né divertimento, tanto valeva creare dei vestiti con i sac­chi della spazzatura. Le calze a rete ne­re (strappate) e le minigonne riciclate alla grande non erano più strumento di seduzione ma semmai di tortura per guardoni che mai avrebbero avuto il coraggio di abbordare quelle signorine così perfide e selvagge. Sulle loro magliette si leggevano messaggj per niente al­legri tipo “No future”. Ie chiusure lam­po terminavamo con una piccola sfera di metallo, leggiadra allusione alla palla al piede del carcerato, non mancava qualche esa­gerato con le guance trafitte da spille da balia: soave commistione con le culture altre e vistosa testimonianza di pulsioni autodistruttive. Rappresentate molto bene anche dalla lametta, altro gadget in voga, utile per tagliare eroi­na, cocaina e vene, alla bisogna. Final­mente, i brutti, sporchi e cattivi non fa­cevano nulla per farsi accettare. Spu­tando conipiaciuti per terra, accentua­vano la loro sgradevolezza. Tanto li avrebbero respinti lo stesso.

A me sembra che in qualche maniera in questi anni si stia riproponendo la stessa situazione, penso all’autolesionismo del piercing, alla moda dei tatuaggi,alla discoteca usata come luogo per annullarsi, ai raves, all’uso dell’ecstasy dell’alcool e delle droghe in genere,e mi sembrano segni di un malessere simile a quello degli anni settanta e credo, semplificando molto, che molti giovani stiano ripercorrendo le mie stesse strade alla ricerca di una propria identità, nella quale trovare un punto di riferimento.

Si può tracciare una differenza fra un modo di fare musica popolare ieri e un modo di fare musica popolare oggi?

È chiaro che non è possibile tracciare una linea di demarcazione precisa fra un “modo” di fare la musica e un ”altro”. Io stesso ho sentito spesso la necessità di “cambiare” le mie esecuzioni, inserendo arrangiamenti e strumenti che mi mantenessero vivo l’interesse e il piacere della riesecuzione dei canti. Ma, fatta questa considerazione, posso senz’altro dire che prima vi era una maniera di fare la musica popolare che vedeva due differenti concezioni spesso contrapposte fra loro. Da una parte vi erano i gruppi Folkloristici che erano particolarmente attenti agli aspetti esteriori corredati da costumi e balli tradizionali che puzzavano di falso e di cadavere riesumato per l’occasione ma che esaltavano l’aspetto funzionale della musica poplare nata per il divertimento più di quanto non lo facessero gli altri gruppi “intellettuali” dove dichiarata era la ricerca di una propria “identità”. Nella prima carta intestata del CANZONIERE si leggeva: CANZONIERE GRECANICO SALENTINO, per la ricerca e la documentazione della cultura subalterna.

Oggi questa distinzione si nota di meno, forse perché la propria identità culturale, in qualche maniera è stata affermata, oppure i giovani sentono meno il peso della sofferenza, della malinconia e disagio esistenziale che ha prodotto la maggior parte dei nostri canti. D’altra parte la maggior parte di loro non ha mai avuto contatto diretto con il lavoro duro dei campi, il tarantismo o la lamentazione funebre, per cui in qualche maniera è stato esorcizzato questo aspetto della sofferenza e messo in evidenza quello ludico ed esplosivo del ballo della pizzica.

Tu sai che su questo ho molte perplessità perché non vorrei che la musica popolare salentina fosse ridotta ad un unico aspetto funzionale del ballo della pizzica, accoppiata perciò al liscio, alle lambade, ai balli di gruppo oggi tanto in voga, e poi sparire con essi quando la moda sarà passata. E devo aggiungere che la perplessità diventa disagio quando vedo  molti canti salentini che non sono assolutamente nati come pizziche, stravolti e fatti diventare tali, per accontentare una platea desiderosa solo di “perdere a testa” con il ballo senza preoccuparsi di tutto il resto.

Attenti ragazzi non è questo cercare la propria identità.




http://www.canzonieregrecanicosalentino.net/


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