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L'ORGOGLIO RITROVATO DEI CONTADINI SENEGALESI -INTERVISTA A MAMADOU CISSOKHO.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media inferiore, Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio
Abstract: L'ORGOGLIO RITROVATO DEI CONTADINI SENEGALESI
INTERVISTA A MAMADOU CISSOKHO

a cura di A. GARUSI

Se i contadini, gli allevatori, i pescatori, gli orticoltori senegalesi stanno acquisendo peso politico, il merito è di quest’uomo. Un leader, dal quale l’Europa ha molto da imparare.

   È l’uomo che ha restituito l’orgoglio e la fierezza ai contadini del Senegal. Nato 55 anni fa in questo paese dell’Africa occidentale, vive attualmente nel villaggio di Bamba – distretto di Koumpentoum, regione di Tambacounda – dove tuttora coltiva i suoi campi; ma viaggia spesso in Europa ed è conosciuto a livello internazionale. Nell’arco di due decenni, ha creato diverse associazioni, fra cui la Federazione delle organizzazioni non governative del Senegal (Fongs) e il Consiglio nazionale della concertazione e della cooperazione dei contadini (Cncr), una piattaforma che rappresenta tre milioni di agricoltori, allevatori, pescatori, forestali, orticoltori, ecc. Nel settembre 1999, a Ouagadougou, assieme ad altri leader ha ideato una Rete di organizzazioni contadine e di produttori dell’Africa dell’Ovest (Roppa), che opera attivamente dal luglio 2000. Un lunghissimo impegno, di cui oggi si comincia a vedere i frutti. Ecco l’intervista che ci ha rilasciato.

Innanzitutto come si definisce: un leader d’opinione o un leader contadino?
Sono un leader contadino. Dato però che i senegalesi sono in maggioranza contadini, è quasi impossibile separare le due figure. Una categoria di persone, quella di chi lavora la terra, che tuttora non ha consapevolezza della propria forza, è poco organizzata e dispersa sulla superficie nazionale. Il primo obiettivo del Cncr è dunque questo: trovare dei punti d’accordo sulle questioni essenziali. Abbiamo un solo governo, che è stato democraticamente eletto e che parla a nome del paese. È con l’attuale Amministrazione, che dobbiamo confrontarci.
   Innanzitutto le nostre attività attraversano tutte le stesse difficoltà. La prima è data dalla rapida degradazione delle risorse naturali: che tu sia pescatore, contadino o allevatore, comunque devi confrontarti con l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, la desertificazione, ecc. Il secondo problema è l’accesso ai finanziamenti. In Europa, il tasso del credito agricolo oscilla fra il 2 e il 4%. Da noi, nel 1997, era arrivato al 12,5%. Quanto i piccoli chiedono un prestito, devono inoltre essere in grado di dare delle garanzie; e la maggioranza non è in questa condizione.
   La terza questione è quella della formazione: i meccanismi di comunicazione, come noi li vorremmo, non esistono. Il governo, a partire dall’indipendenza fino a trent’anni fa, aveva ideato un sistema di animazione rurale, in funzione degli scopi che si era prefissato (aumentare la produzione per l’esportazione, ecc.). Mentre avremmo bisogno di conoscenze di tutt’altro genere: dalla gestione finanziaria alla pianificazione.

Il Cncr esiste dal 1993. Se lei dovesse fare un bilancio di questi otto anni di attività..
   Siamo riusciti ad innescare un cambiamento all’interno dell’Amministrazione. Oggi ci interpellano, ci riconoscono come partner. Fino al ‘97, il governo riconosceva solamente il sindacato, le organizzazioni imprenditoriali, ma non i contadini. Quattro anni fa, appunto, la svolta.
   Secondo risultato: il fatto di esserci voluti assumere le nostre responsabilità, avviando un lavoro di autocritica. Abbiamo cioè iniziato a chiederci per quale ragione le cose erano andate storte: eravamo stati poco flessibili? O un po’ disorganizzati? Quest’atteggiamento è diventata la regola. Inoltre, eravamo arrivati ad una situazione limite, per cui i contadini si vergognavano di esserlo: sentivano di non contare nulla. Ora è come se avessero ritrovato la fierezza di appartenere a questa categoria. Sanno di avere un ruolo da svolgere nella decentralizzazione amministrativa.
   Allora è diventato possibile partecipare alle negoziazioni. E, quindi, abbiamo iniziato ad orientare diversamente politiche che vengono decise sempre dal governo, ma vengono "fatte per la gente". È in tale contesto che segnaliamo le nostre priorità. Contemporaneamente, il Cncr ha permesso di condurre i contadini senegalesi nelle reti delle organizzazioni contadine dell’Africa dell’ovest. In sintesi, i risultati sono: il risveglio dei contadini, una miglior strutturazione del movimento, la mobilitazione, l’autocritica, il riconoscimento da parte dell’autorità e il cambiamento della politica governativa.

Quali sono le strategie per il futuro?
   Serve un rafforzamento delle federazioni nazionali che compongono il Cncr. Il futuro poi si giocherà sui Consigli regionali di concertazione. Inoltre, ci batteremo attivamente all’interno del Roppa, perché i nostri problemi vengano discussi a livello della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) e mondiale. La lotta sarà dura.

Durante l’ultimo seminario regionale sulla politica agricola dell’Uemoa (Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest), lo scorso ottobre, a Ouagadougou, lei ha detto: "La realizzazione di una politica agricola dell’Unione non ci appartiene. Vogliamo cambiare le regole del gioco". Che cosa intendeva esattamente?
   Ho detto che non ci appartiene, perché è ancor oggi lo Stato che definisce la politica agricola, non sono i contadini. Si ripete continuamente che il mercato è favorevole a tutti, che bisogna essere competitivi e che così poi si fanno i soldi. Ma questo è falso. I prezzi agricoli sono fissati dalle multinazionali e, dunque, fittizi. Non a caso, l’Europa sta compensando i contadini per i mancati guadagni.
   Veniamo alle nuove regole. Innanzitutto, bisogna accettare l’idea che i contadini di ciascun paese producano per il mercato interno. In secondo luogo, ogni popolo ha il diritto, attraverso i programmi del proprio governo, di assicurare la sovranità alimentare. Sarebbe folle, ad esempio, che gli italiani importassero il grano per produrre la pasta. Lo stesso vale per noi. Mangiamo sorgo, miglio, mais, patate, igname, manioca, che sono reperibili solo nei paesi dell’Africa subsahariana. Per continuare a produrre questi alimenti, è necessario proteggere le frontiere.
   Altri prodotti come il cotone, il cacao o il caffè sono invece sul mercato mondiale. Nel caso del cotone, ad esempio, l’Europa assicura un miliardo di euro alla Grecia e alla Spagna, perché lo producano. Mentre noi non riceviamo alcun aiuto dallo stato e accediamo allo stesso mercato. Parallelamente, gli Stati Uniti destinano migliaia di dollari per produrre cotone in America latina. Ecco dove vogliamo delle nuove regole: bisogna consentire ai singoli paesi di produrre per se stessi, resistendo alle pressioni delle multinazionali.

Su quali diverse basi va reinventata la politica?
   Sulla famiglia. Anche in Italia l’agricoltura si fonda sui nuclei familiari. Va quindi studiato il modo di contribuire al loro sostentamento. Bisogna mettere in primo piano gli uomini e le donne che producono, non altri parametri come i tempi di produzione o la quantità. Non siamo operai di una fabbrica, ma gente che lavora con la natura ed è depositaria di culture antichissime.

Che tipo di integrazione vogliono i contadini senegalesi? Un’integrazione regionale?
   All’epoca della colonizzazione, gli europei hanno tentato di recidere i legami tra popoli africani che, fino ad allora, avevano vissuto fianco a fianco. Sulla carta, sono stati fatti dei paesi. Ma noi abbiamo continuato a vivere, ignorando tutto ciò: abbiamo continuato a sposarci fra etnie diverse, a parlare la stessa lingua in nazioni diverse. Siamo rimasti cioè perfettamente integrati. Poi sono arrivate le indipendenze. Di nuovo, ci hanno detto che dovevamo rispettare ciò che i bianchi avevano stabilito. Ma, ancora una volta, abbiamo continuato a seguire quello che gli antenati avevano sempre fatto. Ecco che cosa la gente spesso dimentica. Se oggi gli ex colonizzatori vogliono tornare, devono chiedere ai popoli africani come hanno fatto a mantenere l’integrazione, malgrado tutto.

Come leader di un movimento contadino, come vede l’evoluzione democratica dell’Africa?
   Bisogna riconoscere che ci sono stati molti progressi. Oggi, nella nostra regione, la gente ha possibilità che un tempo erano impensabili. Resta un problema: siamo in una sorta di prêt-à-porter. Le democrazie di cui si parla, sono venute da fuori. Non c’è stato il tempo, o forse la volontà, le capacità, di elaborare soluzioni nostre. Siamo degli ibridi: convinti di cose, che non arriveremo mai a mettere in atto. Di regole della "democrazia", come la intendete voi, ce ne sono e tante. Si discute, si vota, esiste il multipartitismo. La questione è che non siamo noi. Dobbiamo seguire l’esempio dell’Europa? E, seguendolo, arriveremo a digerirlo? O dobbiamo guardarci invece indietro, ripescando fra le forme democratiche che avevamo ideato in epoca precoloniale?

C’è qualche cosa che gli italiani, da qui, possono fare?
   Innanzitutto vorrei che aprissero gli occhi sulla cooperazione. Si dice: "Stiamo facendo della carità l’Africa da trent’anni..". Invece, fino ad oggi, la cooperazione è stata puro business. La gente deve saperlo. E gli italiani hanno, in questo senso, un loro ruolo da giocare: di coscienza critica. Lo stesso vale per la Francia, il Belgio, ecc. Personalmente non sono contro il fatto di fare affari; le cose però devono essere chiare. Esattamente come da noi si deve riconoscere che, a volte, dei responsabili stornano dei finanziamenti sui loro conti privati: la corruzione esiste ovunque. Detto questo, le relazioni fra la società civile italiana e quella senegalese vanno sostenute.

Che aiuto può dare l’Europa all’Africa?
   All’Europa siamo legati tramite gli Accordi di Lomé e poi quelli di Cotonou. La difficoltà sta nel fatto che tutti i paesi europei che rientrano nell’Accordo di Cotonou, singolarmente hanno le loro politiche di cooperazione e fanno parte della Banca mondiale, della Fao, ecc. Ci sono troppe contraddizioni.
   Se l’Europa vuole davvero aiutare i paesi africani, deve accettare di entrare nel dibattito. Sono 25 anni che mi batto all’interno del Movimento associativo contadino, e da una quindicina chiedo agli europei di spiegare alla propria gente la vera natura della cooperazione. Gli aiuti non sono solo un problema di soldi, ma sono fatti innanzitutto di dialogo, di concertazione e della volontà di accettare le differenze. Non sono convinto che ci siano solo tre o quattro criteri per poter essere "sviluppati". Ogni popolo deve poter scegliere la propria via.
   Al mondo ci sono abbastanza risorse per tutti. Bisogna smetterla di alimentare questo pessimismo da una catastrofe imminente. Poi siamo dei credenti, soltanto in minima parte possiamo considerarci gli artefici dell’universo. L’artefice resta Dio che ci ha dato delle responsabilità, ma si è conservato un suo ruolo. Il nostro dovrebbe bastarci
   Con l’Europa esiste un rapporto di vecchia data. Non limitiamolo al piano materiale, scientifico e monetario. Ci dicono che bisogna conoscere il mercato, ad esempio. Chi può dire di conoscerlo meglio? Persino il nostro sangue è stato sul mercato… Eppure ci rifiutiamo di ridurre il pianeta ad una mera questione di scambi commerciali. Ci sono altre regole, altri valori.

Si spieghi..
   Ogni evoluzione è una scala: si sale, si arriva in cima e si ridiscende. Dico sempre che gli antichi romani non avrebbero mai immaginato qualcosa di più grande di Roma. Eppure.. Questo vale per qualsiasi potere, Stati Uniti compresi.

Torniamo alla Cncr. Avete rapporti con associazioni e Ong che in Europa si occupano di difendere i diritti della terra? Leader come José Bové sostengono di battersi anche per analoghi organismi del Sud del mondo. Sono davvero consapevoli del vostro punto di vista?
   Penso che sì. Ciò che ci accomuna, innanzitutto, è il fatto di vivere in stretto contatto con la natura. Si dice che i contadini siano ovunque conservatori, ma non è perché non amino il cambiamento. Piuttosto perché sanno che la natura non è una macchina. Si è visto quello che è successo recentemente con le farine animali... Chi ha pagato poi? Sempre loro, i contadini. E non sono i contadini ad aver inventato quelle farine, o i pesticidi. Ma, a forza di pressioni, li hanno costretti ad utilizzarli. Ed è esploso l’inquinamento. Quindi è stato detto loro: la produzione è eccessiva; vi pagheremo per diminuirla. Ai produttori non viene chiesto niente, se non di lavorare e di vivere del proprio lavoro. Nel frattempo, tutti guadagnano più di loro.
   Ecco dunque dove sta il problema. Si è cominciato a dire che bisognava cambiare. Così si sono instaurate relazioni fra i contadini dell’Africa, quelli dell’Asia dell’America latina, dei paesi europei. Il legame è questo: viviamo dell’acqua, della terra, degli alberi, allo stesso identico modo. Ciò oltrepassa gli stati. Siamo una multinazionale dei valori.

Quali?
   L’amore per la terra; la fierezza di mangiare ciò che si produce e di vendere perché la gente possa nutrirsi; il rispetto della natura. Ecco che cosa ci accomuna, qualunque sia il colore della pelle. Una visione, questa, che siamo sviluppando attraverso la Confederazione contadina, la via campesina, la Fipa (Federazione internazionale di produttori agricoli) e l’incontro di Porto Alegre. Qui tenteremo di dare vita ad un movimento sociale più strutturato per calmare un po’ gli animi. Un surriscaldamento, infatti, appare inutile. Con metodi nonviolenti, in Senegal, ormai siamo così forti da poter bloccare qualsiasi istanza contraria alla nostra linea.

a cura di ALESSANDRA GARUSI




http://www.saveriani.bs.it/missioneoggi/arretrati/2002_03/Garusi.htm


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