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LE NAZIONI UNITE E LA PARITA' TRA I SESSI: RECENTI SVILUPPI - di Paola Maceroni

Lingua: Italiana
Destinatari: Formazione post diploma, Alunni scuola media superiore, Alunni scuola media inferiore
Tipologia: Materiale di studio
Abstract:
LE NAZIONI UNITE E LA PARITA' TRA I SESSI: RECENTI SVILUPPI
di Paola Maceroni

Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito, all’interno del sistema delle Nazioni Unite, alla realizzazione di progetti incisivi e interessanti riguardanti la tematica dei diritti delle donne. Alcuni di questi hanno avuto come tema principale la tutela dei diritti umani in generale, prevedendo interventi che vadano a proteggere le donne da problemi specifici (come ad es. dalla violenza); altri hanno cercato di perfezionare e rendere più efficaci i meccanismi di prevenzione e punizione delle discriminazioni di cui esse sono oggetto. Senza dubbio, entrambi i tipi di progetto hanno costituito un aiuto nel lavoro di sensibilizzazione della comunità internazionale verso i problemi della popolazione femminile di tutto il mondo.

Sarebbe certamente troppo lungo esporre le iniziative che anno per anno sono state dedicate alle donne; prenderò quindi in considerazione gli eventi più salienti del decennio passato. In primo luogo, la Conferenza Mondiale sui Diritti Umani di Vienna del 1993 che ha dato nuovo impeto alla campagna internazionale di promozione e protezione dei diritti umani delle donne, focalizzando l’attenzione soprattutto sul tema della violenza. Due anni più tardi si è tenuta a Pechino la IV Conferenza Mondiale sulle Donne, i cui risultati positivi hanno contribuito alla continuazione e conclusione dei lavori riguardanti la creazione di un meccanismo di ricorso individuale messo a disposizione delle donne il cui Stato abbia ratificato la Convenzione del 1979. Infine, dal 5 al 9 giugno 2000, si è tenuta a New York una Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dedicata alla revisione dei progressi realizzati dal ’95.


La Conferenza di Vienna sui Diritti Umani

La Conferenza Mondiale sui Diritti dell’Uomo, che si è tenuta a Vienna dal 14 al 25 giugno del 1993, ha avuto come scopo principale quello di presentare alla comunità internazionale un piano comune per il lavoro di rafforzamento dei diritti umani in tutto il mondo. Essa è stata caratterizzata da una grande partecipazione: circa 7000 tra studiosi, istituzioni nazionali, organismi internazionali e rappresentanti di più di 800 ONG sono confluiti a Vienna, cercando di trarre profitto dalle loro diverse esperienze. Alla fine delle due settimane di discussioni è stata adottata la Dichiarazione di Vienna unitamente al Programma d’Azione, due documenti volti al rafforzamento dei meccanismi di tutela dei diritti umani e contenenti importanti previsioni in merito ai diritti delle donne.

Dalla lettura della Dichiarazione e del Programma d’Azione adottati alla fine della Conferenza, risultano essere molteplici gli argomenti trattati e gli obiettivi prefissati. Per citare alcuni dei più rilevanti, basta pensare al risalto dato al diritto all’autodeterminazione (tenendo a mente la particolare situazione delle popolazioni sottomesse a occupazione straniera e prevedendo per esse il controllo del rispetto di standard, regole comuni sui diritti umani) o al diritto allo sviluppo come parte integrante dei diritti umani fondamentali e la cui realizzazione deve essere oggetto di una forte cooperazione a livello internazionale. Ancora, si fa riferimento alla protezione di persone appartenenti a minoranze, obbligando gli Stati di cui queste fanno parte ad assicurare l’esercizio completo di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali; ai diritti dei minori per i quali si richiede la ratifica universale della Convenzione sui Diritti del Fanciullo per il 1995. Accanto a questi argomenti ce ne sono altri non meno importanti, ma ai quali è dato minor risalto come, ad esempio, il richiamo fatto alla comunità internazionale affinché partecipi al processo di smantellamento dell’apartheid o la condanna di qualsiasi forma di terrorismo, causa della distruzione dei diritti umani e della democrazia.

Anche i diritti delle donne sono stati oggetto delle discussioni tenutesi a Vienna e presenti come tema rilevante nel documento finale. Ed infatti, dall’analisi di tale documento, si evince una particolare attenzione rivolta alla parità tra uomo e donna, sia in termini generali, sia affrontando problematiche specifiche di cui le donne sono le principali vittime. Sin dal Preambolo viene richiamato il principio della non discriminazione basata sul sesso quale punto fondamentale del sistema delle Nazioni Unite e viene introdotto il tema della violenza come una delle tante forme di discriminazione, tema che verrà trattato in seguito.
La sezione I al par.18 si occupa ancora delle donne, ma richiamando di nuovo principi generici come l’importanza di considerare i diritti delle donne e dei bambini parte integrante dei diritti umani universali e il principio dell’uguale partecipazione della popolazione femminile alla vita politica, civile, economica, sociale e culturale di un paese. Inoltre le Nazioni Unite vengono chiamate ad intensificare il loro impegno nel rafforzamento della protezione accordata alle donne, soprattutto nella promozione di strumenti internazionali aventi tale scopo.

Ma è nella sezione II parte B dedicata all’uguaglianza, dignità e tolleranza, al punto 3, che vengono trattate questioni fondamentali per la realizzazione completa delle donne. Innanzitutto, ancora una volta si sottolinea l’importanza dell’integrazione e della piena partecipazione delle donne nel processo di sviluppo “as both agents and beneficiaries” (par.36), tenendo presente le dichiarazioni adottate in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno del 1992. Per raggiungere questo ed altri obiettivi, è necessario incrementare la cooperazione e trovare un terreno comune su cui lavorare; tale cooperazione si riferisce a tutti gli organi delle Nazioni Unite che dedicano la loro attività alla protezione della donna come la Commissione sullo Status della Donna, la Commissione sui Diritti Umani e il CEDAW (Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Contro le Donne, istituito nel 1982 per monitorare l’applicazione della Convenzione del ’79). Altri punti rilevanti si trovano ai parr.39 e 40, entrambi concernenti questioni riguardanti la Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro le Donne, di cui si richiede la ratifica universale entro l’anno 2000. La prima questione riguarda il problema dell’elevato numero di riserve apposte dagli Stati alla suddetta Convenzione, invitando il CEDAW a continuare il suo lavoro di studio sulle riserve avanzate e gli Stati parti ad annullare quelle riserve che risultino incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione o contrarie al diritto dei trattati internazionali. Il par.40 invece introduce un argomento di rilevanza fondamentale per rendere le donne capaci di usare in modo più efficace gli strumenti volti alla loro tutela. Oltre a ricordare la necessità di disseminare informazioni tra le donne sui diritti che loro spettano, si vuole dar loro la possibilità di ribellarsi ad una mancata protezione di quelli da parte dello Stato di cui fanno parte. A questo scopo la Commissione sullo Status delle Donne e il CEDAW sono invitati ad esaminare la possibilità di introdurre il diritto di petizione, attraverso la preparazione di un Protocollo facoltativo alla Convenzione del ’79. Si tratta senza dubbio della previsione più importante a favore delle donne contenuta nel Programma di Vienna; inoltre, è la prima volta in cui viene presa seriamente in considerazione l’eventualità di fornire alle donne un diritto così rilevante ed efficace e quindi costituisce la premessa che porterà all’adozione, sei anni dopo, del Protocollo. Come già detto, a Vienna è stato affrontato un altro problema che impedisce alla popolazione femminile di partecipare attivamente alla vita sociale, quello della violenza. È bene sottolineare il fatto che fino a questo momento le allarmanti dimensioni del problema non erano state avvertite dalla comunità internazionale; la maggior parte dei governi tendeva a considerare la violenza come un problema privato tra individui che non richiedeva pertanto un loro intervento. A Vienna sono state gettate le basi per una futura azione volta all’eliminazione di tale problema. La Dichiarazione e il Programma d’Azione adottati in quell’occasione condannano in più punti la violenza basata sul sesso ed ogni forma di sfruttamento sessuale, perché contrari e incompatibili con la dignità e il valore della persona umana. Per eliminare tale forma di discriminazione la Conferenza insiste sull’importanza di lavorare verso la sua eliminazione nella vita pubblica e in quella privata e nell’amministrazione della giustizia. Ma la previsione più rilevante contenuta nel documento citato è quella che chiama l’Assemblea Generale ad adottare la Dichiarazione sulla violenza contro le donne e che giudica positivamente la decisione di creare uno Special Rapporteur sulla violenza. Dando seguito a queste previsioni, l’Assemblea Generale nel dicembre del ’93 ha adottato la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza Contro le Donne che, in sei articoli, chiarisce i termini del problema e chiama gli Stati, nonché gli organi e le agenzie specializzate delle Nazioni Unite a prendere ogni misura necessaria alla sua soluzione. Come dice l’art.4, gli Stati non possono eludere gli impegni presi invocando come giustificazione considerazioni di tipo religioso, culturale o che comunque abbiano a che fare con le tradizioni del paese. Quel che maggiormente colpisce è la molteplicità delle aree in cui la violenza deve essere combattuta. L’art.2 afferma che la nozione di violenza cui si riferisce la Dichiarazione comprende: la violenza che avviene all’interno delle pareti domestiche, incluso l’abuso sessuale delle figlie o anche pratiche legate alla tradizione quali la mutilazione degli organi genitali femminili; la violenza fisica, sessuale e psicologica che ha luogo all’interno della comunità in generale, come il traffico delle donne, la prostituzione forzata, ma anche l’intimidazione sul posto di lavoro e a scuola; la violenza perpetrata dallo Stato, anche se non si chiarisce bene a quale tipo di abuso si pensa, né cosa si intenda per “Stato”. È innegabile la rilevanza che assume tale documento, il primo strumento internazionale che si riferisce esclusivamente al tema della violenza. Accanto a questa Dichiarazione, ricordiamo solamente la risoluzione adottata dalla Commissione sui Diritti Umani nel marzo del ’94, con la quale si dà vita allo Special Rapporteur sulla violenza contro le donne. Le sue funzioni sono triplici: in primo luogo deve raccogliere informazioni sulla violenza e sulle cause e conseguenze da fonti quali organi governativi, agenzie specializzate e organizzazioni non governative. Una volta analizzati i dati raccolti, raccomanda misure volte all’eliminazione del problema a livello nazionale, regionale e internazionale ed infine si serve, nell’espletare le sue funzioni, di altri gruppi di lavoro ed esperti indipendenti della Commissione sui Diritti Umani. Con tali iniziative si è finalmente preso coscienza delle dimensioni del problema che affligge le donne di tutto il mondo. Bisogna tenere a mente che il fenomeno non interessa esclusivamente il Terzo Mondo o i paesi in via di sviluppo e per questo è necessario un approccio a livello globale.

Pechino 1995: la IV Conferenza Mondiale sulle Donne

Con la risoluzione n.36/8 sulla preparazione della IV Conferenza Mondiale sulle Donne: Azione per Uguaglianza, Sviluppo e Pace, la Commissione sullo Status della Donna ha deciso di includere nell’agenda di quella Conferenza la seconda revisione circa l’applicazione del Testo sulle Strategie Future adottato a Nairobi nel 1985. A tale scopo il Segretario Generale avrebbe dovuto presentare un rapporto contenente informazioni e dati relativi soprattutto alla condizione delle donne nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS).
La seconda revisione è stata così preparata sulla base delle informazioni contenute nei rapporti predisposti dai vari governi, dei risultati ottenuti alle grandi Conferenze Regionali su tale tema e delle informazioni raccolte dagli Istituti Specializzati delle Nazioni Unite. E’ stato anche utile il contributo fornito da altre organizzazioni governative e non, e dal Women’s Indicators and Statistics Database (WISTAT).

Dallo studio dei rapporti pervenuti, la Commissione ha da subito preso atto delle difficoltà incontrate dalla maggior parte degli Stati nell’applicazione delle norme programmatiche decise a Nairobi. Tale mancata applicazione verrà poi ribadita perfino in uno dei due documenti finali di Pechino (Programma d’azione, Cap. III par. 42), ma non deve essere considerata il fallimento della comunità internazionale nella sua azione volta al miglioramento della condizione della donna. Essa può essere vista come una delle conseguenze di un cambiamento che nel giro di un decennio, ha coinvolto l’economia così come la politica e che di conseguenza ha alterato drammaticamente il quadro delle condizioni in cui quel Testo era stato pensato e adottato.

Tra gli eventi più rilevanti ricordiamo la fine della Guerra Fredda che ha permesso un maggiore intervento della comunità internazionale per la risoluzione di conflitti, ma che è stata anche accompagnata dal risveglio della violenza etnica e di guerre civili; la crescita smisurata dell’interdipendenza economica, legata al fenomeno della globalizzazione, ha da una parte contribuito alla nascita di nuove opportunità nel settore economico, ma dall’altra ha rivelato la vulnerabilità di quei paesi che devono sopportare il peso dei debiti esteri e che sono quindi esclusi da qualsiasi competizione, anche a causa dei bassi livelli di tecnologia. E’ stata soprattutto la situazione economica ad alterare e rendere più difficile alle donne il raggiungimento degli obiettivi fissati nel 1985. Essa è stata il risultato di due eventi principali: la crisi degli anni ’80 (“aggiustamenti strutturali” nei PVS, ricostruzione nell’economia in transizione dell’ex URSS ed Europa dell’est) e la crescita del commercio estero.

Innanzitutto, la crisi economica di quegli anni ha interessato maggiormente l’Africa, l’America Latina e Caraibi e il Medio Oriente, a causa della riduzione della domanda di beni primari, gli alti tassi di interesse e, nel caso del Medio Oriente, il collasso dell’economia del petrolio. Per rispondere ad una situazione tanto grave, tali paesi hanno sperimentato una politica di aggiustamenti strutturali, per stabilizzare le economie e correggere le loro distorsioni. Sfortunatamente, queste politiche non hanno preso in considerazione il fatto che le donne erano completamente incapaci di rispondere a cambiamenti tanto rilevanti; non erano mutate le condizioni di partenza, persistevano cioè ineguaglianze nelle relazioni tra i due sessi ed era rimasta inalterata la divisione sessuale del lavoro.

Anche l’Europa dell’est e l’ex URSS, protette dalla crisi dei primi anni ’80 poiché chiuse nella loro autarchia, si sono trovate ad affrontare, alla fine del decennio, una forte recessione produttiva; in particolare il venir meno del COMECON ha contribuito a un forte accumulo di debiti internazionali. Il processo di transizione è stato caratterizzato soprattutto dalla privatizzazione che ha investito tutti i settori. Ma le donne non hanno beneficiato di tale cambiamento perché, nel momento in cui si concretizzava la possibilità di accedere ai servizi bancari, finanziari e del commercio, venivano scavalcate dagli uomini. La disoccupazione è diventata la parola chiave per le donne dell’economia in transizione e questo, di sicuro, non può far altro che rallentare il loro processo di emancipazione. Alcuni PVS hanno così deciso di aprire le loro economie al commercio internazionale che proprio in quegli anni ha conosciuto un’espansione di notevole portata e tale scelta ha comportato una crescita enorme della partecipazione delle donne nell’industria. Ciò è accaduto perché la produzione destinata al mercato estero ha fatto aumentare l’offerta di lavoro (i prodotti artigianali labour-intensive hanno cominciato a dominare i flussi delle esportazioni dai PVS) e la necessità di minimizzare il costo del lavoro ha contribuito al coinvolgimento sempre più massiccio delle donne. In tutti i paesi con una produzione export-oriented, il lavoro femminile è stato di gran lunga preferito a quello maschile per il suo basso costo.

Tutto questo potrebbe far scaturire un giudizio non del tutto negativo sugli effetti che i paesi a economia export-led hanno portato alle donne. Se da una parte è innegabile che la popolazione femminile di tali paesi abbia ricevuto, dalla partecipazione alla produzione industriale, nuove opportunità di lavoro e quindi di guadagno, dall’altra non va dimenticato che la maggior parte dei lavori erano in nero, con stipendi bassissimi e non davano nessuna opportunità di acquisire nuove conoscenze tecniche né di poter usare un proprio potere contrattuale. Questa era la situazione economica e politica internazionale alla vigilia della IV Conferenza Mondiale sulle Donne che prenderà atto di tali problematiche, individuando di conseguenze aree nelle quali agire con urgenza.

Dal 4 al 15 settembre 1995, si è tenuta a Pechino l’ultima Conferenza Mondiale sulle Donne, il più grande raduno femminile della storia, cui hanno partecipato quindicimila delegate provenienti da 189 paesi membri delle Nazioni Unite, affiancate dalle rappresentanti degli organismi internazionali e degli Stati osservatori. Inoltre, nella vicina Huairou, sono intervenute al Forum delle ONG trentaseimila donne appartenenti a movimenti, associazioni, all’imprenditoria, al mondo della scienza, dell’arte e della cultura, portando il loro importante contributo e forza propositiva.

In tale contesto, sono stati sanciti importanti principi che costituiranno poi la base dei due documenti adottati alla fine della Conferenza (la Dichiarazione e il Programma d’Azione). Per la prima volta i diritti delle donne vengono definiti diritti umani ed universali (come era stato per altro anticipato a Vienna), con la conseguenza che nessuna ragione di fede, cultura o estremismo religioso possa giustificarne la violazione.

L’uguaglianza non è più intesa solo come fine, ma anche come mezzo per raggiungere i due obiettivi dello sviluppo e della pace. Inoltre, ogni questione deve essere studiata e analizzata tenendo conto del punto di vista delle donne, le quali stanno acquistando la consapevolezza di essere non un problema, bensì una risorsa.

Le parole chiave della Conferenza di Pechino sono empowerment e mainstreaming. La prima implica l’attribuzione di potere alle donne, ma non limitata ai processi politici di decision-making; c’è bisogno di una loro partecipazione attiva a tutti i livelli e questo potere costituisce uno stimolo ad accrescere le proprie abilità e competenze. Il mainstreaming, invece, si riferisce alla necessità di inserire nelle politiche generali tematiche propriamente femminili. Tali principi sono diventati a Pechino veri e propri pilastri ideologici sui quali impostare l’intero dibattito della Conferenza. Tutto questo ha spostato la riflessione delle donne alla società perché, per ottenere scopi così ambiti, c’è bisogno di riconsiderare l’intera struttura della società e le relazioni tra uomo e donna. Si richiede un rinnovamento della politica, delle istituzioni e dell’economia, rinnovamento che può passare solo attraverso la partecipazione diretta delle donne a tutti i livelli e a tutte le istanze. Inoltre, considerandola crisi economica che in quegli anni stava deteriorando la condizione della maggior parte dei PVS, si è delineata la possibilità di studiare un nuovo modulo economico che punti alla ridistribuzione della ricchezza.

Bisogna riconoscere però che il Programma d’Azione affronta il problema del debito solo in linea di principio e, per quanto riguarda le risorse e i finanziamenti aggiuntivi destinati al sud del mondo, questi debbono essere reperiti solo dalle iniziative private. Si tratta di un punto importante, perché la mancanza di risorse per l’applicazione del Programma di Pechino renderà del tutto prive di significato le norme in esso sancite.

La consapevolezza dell’esistenza di una forte crisi economica e politica che aveva investito, e ancora stava interessando diversi paesi, ha portato le delegazioni governative presenti alla Conferenza a individuare dodici aree di crisi, in cui si riteneva essere più urgente l’intervento. Prima di passare brevemente all’analisi di ogni area, è bene ricordare che, mentre la Dichiarazione è stata adottata all’unanimità, così non è avvenuto per il Programma d’azione, al quale sono state apposte numerose riserve.

Per ogni area di crisi vengono stabiliti degli obiettivi strategici che devono essere perseguiti dai governi e dalla società civile.
La prima area (punto A) è dedicata al crescente peso della povertà sulle donne, situazione strettamente legata all’impossibilità di accedere alle strutture istituzionali ed alla mancanza di diritti. Per questo i governi sono chiamati a portare avanti strategie di sviluppo rivolte alle donne povere, alle quali deve essere riconosciuto il diritto di accedere valle risorse economiche, al risparmio e agli istituti di credito in condizioni di assoluta eguaglianza.
Il punto B
si occupa di istruzione e formazione delle donne. La situazione in questo campo è drammatica solo se riferita però a determinate regioni perché nella maggior parte dei paesi i tassi di analfabetismo sono diminuiti sia per le donne che per gli uomini. Ma nell’Africa Sud-Sahariana e nell’Asia meridionale, la mancanza di strutture, gli elevati costi delle poche scuole esistenti, i matrimoni contratti in giovane età, insegnanti non qualificati e altri fattori, impediscono l’educazione di ragazze e donne.

Il Programma d’Azione richiama i principi generali della libertà di accesso all’istruzione e alla formazione professionale, e la necessità di riformare l’intero sistema educativo. Per ciò che riguarda la salute e quindi l’accesso libero alle strutture sanitarie, l’attenzione è focalizzata soprattutto sulle malattie trasmesse sessualmente, in particolare il virus dell’ HIV. Inoltre, si richiedono miglioramenti nella prevenzione delle complicazioni da parto o che si manifestino nei primi anni di vita.
La quarta area di crisi riguarda la violenza contro le donne e richiama pressappoco i principi contenuti nella Dichiarazione del ’93, di cui abbiamo già parlato.
Il punto E risulta essere particolarmente interessante perché costituisce la risposta ad un problema molto sentito in quegli anni, in cui si era assistito ad una crescita drammatica dei conflitti armati e del numero delle donne coinvolte. Ed infatti, non solo le donne erano escluse totalmente dalle decisioni politiche riguardanti i conflitti o dalle missioni di peace keeping, ma rimanevano le principali vittime di tali eventi (il loro stupro o altro tipo do abuso erano e sono tuttora usati come armi per umiliare l’avversario). Per questo, viene ribadito l’auspicio di una riduzione delle spese militari, con conseguente promozione di forme non violente di soluzione dei conflitti e chiesta assistenza per le rifugiate. L’area di crisi riguardante le donne e l’economia prende atto delle difficoltà incontrate da queste nel partecipare al processo produttivo e dei problemi che da ciò derivano.

Gli altri punti del documento (donne, potere e processi decisionali; meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne; diritti fondamentali delle donne con richiesta della ratifica universale della Convenzione del ’79; donne e ambiente) non offrono spunti interessanti di riflessione, tranne forse il punto J che parla di donne e media. Si tratta senza dubbio di una problematica nuova, legata all’enorme rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato proprio gli anni immediatamente precedenti alla Conferenza di Pechino. Malgrado però il verificarsi di tale rivoluzione, il rapporto delle donne con i mezzi di comunicazione è risultato non essere cambiato e soprattutto la loro immagine risulta sempre essere legata a stereotipi. Comunque, la partecipazione alle organizzazioni sui media a tutti i livelli è cresciuta di molto; inoltre, la televisione nazionale insieme alla radio sono state usate in modo proficuo in molti PVS per la campagna di alfabetizzazione, per le vaccinazioni dei bambini e contro pratiche e violenze derivanti da tradizioni culturali. Possiamo affermare con certezza che a Pechino sono stati fatti enormi passi avanti. Si è voluto far luce sui problemi che hanno caratterizzato quel particolare momento storico per capire lo spirito con cui donne appartenenti a società diverse hanno affrontato la Conferenza e sottolineato la necessità di rivedere l’intera struttura della società per raggiungere gli obiettivi della parità.

Il Protocollo Facoltativo alla Convenzione del ‘79

La prima richiesta di un diritto di petizione, da accordare alle donne che fossero vittime di discriminazione, fu avanzata durante i lavoro di stesura della Convenzione Contro l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro le Donne, ma non vi fu dato seguito. In quell’occasione, alcuni delegati giustificarono la loro posizione affermando che la previsione di un meccanismo di ricorso individuale poteva essere necessaria solamente per la punizione di crimini internazionali come l’apartheid e le discriminazioni razziali, ma non per quelle basate sul sesso. Fortunatamente, la posizione della comunità internazionale verso tale importante strumento è cambiata nel corso degli anni e nel corso della Conferenza di Vienna sui diritti umani è stato dato ampio rilievo al problema.

Nel marzo del ’97 è stato creato un working group della Commissione sullo Status della Donna, proprio allo scopo di elaborare il testo del Protocollo Facoltativo alla Convenzione del ’79, che avrebbe finalmente previsto la possibilità per le donne di essere tutelate in modo più efficace, chiedendo una applicazione rigorosa dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa. Nel corso della 42ª e 43ª sessione della Commissione, sono stati adottati i vari articoli del Protocollo e nella sessione successiva (ottobre ’99) l’Assemblea Generale ha adottato tale documento, aperto alle firme degli Stati il 10 dicembre, giornata internazionale dei diritti umani.

L’adozione di questo testo rappresenta senz’altro una innovazione assoluta per quel che riguarda la tutela delle donne, ma ha dei precedenti nel campo della protezione dei diritti umani in generale. Ricordiamo il Protocollo Facoltativo al Pdcp (Patto sui Diritti Civili e Politici), che permette agli individui appartenenti a uno degli Stati parti, e che abbiano esaurito le possibilità di ricorsi interni, di sottomettere all’attenzione del Comitato sui Diritti Umani delle Nazioni Unite comunicazioni scritte. Certamente, le donne possono in ogni momento usare tale strumento per far valere i loro diritti civili e politici, ma quello che prevede il Protocollo dell’ottobre 1999 è una tutela completa, che copre tutte le aree in cui potrebbe verificarsi una discriminazione contro di loro, dalla famiglia al lavoro.

Le ragioni, che hanno portato la comunità internazionale ad incoraggiare la stesura e l’adozione di un simile documento, sono molteplici e quasi tutte volte a far sì che gli Stati possano assicurare un’applicazione puntuale della Convenzione. Inoltre, la possibilità di ricorso ad un organo internazionale potrebbe rappresentare un incentivo nel migliorare e rendere più efficaci i rimedi di ricorso locale ed evitare quindi che le proprie cittadine si rivolgano al Comitato. Non meno importante è il fatto che l’adozione del Protocollo può creare una maggiore conoscenza, all’interno dell’intera comunità, degli standard sui diritti umani riguardanti le donne. Questo avviene non solo per la richiesta, contenuta nel preambolo, di pubblicizzare le norme in esso sancite e le procedure (art.13), ma anche e soprattutto perché le comunicazioni e le inchieste portate avanti dal Comitato saranno rese pubbliche.

Nel discorso tenuto il 10 dicembre ’99 in occasione dell’apertura alla raccolta delle firme al Protocollo, la Special Adviser on Gender Issue and the Advancement of Women, Ms. Angela E.W. King, parlando dell’importanza della messa in pratica di un meccanismo che preveda il diritto di petizione per le donne, insiste sul fatto che il Protocollo “will act as an incentive for Governments to take a fresh look at the means of redress that are currently available to women at domestic level”. Questo è ritenuto essere il contributo maggiore dato da quel documento, perché solamente un’azione efficace a livello nazionale sarà in grado di creare un ambiente in cui le donne possano godere pienamente dei diritti umani fondamentali.

Il Protocollo Facoltativo è formato da un Preambolo e 21 articoli, nei quali si specificano le due procedure grazie alle quali vengono sottoposti al CEDAW questioni riguardanti l’avvenuta violazione di uno dei diritti sanciti nella Convenzione del ’79. Il Preambolo richiama gli strumenti internazionali più rilevanti che abbiano tra i loro principi anche quello della parità tra uomo e donna, come la Carta delle Nazioni Unite o la Dichiarazione Universale. Inoltre si afferma la volontà di assicurare alle donne di tutto il mondo il godimento di tutti i diritti umani e libertà fondamentali, impegnandosi ad intraprendere un’azione efficace volta alla protezione dalle violazioni di tali diritti.

Il primo articolo stabilisce che gli Stati, che diventino parti del Protocollo, debbono riconoscere la competenza del Comitato nel ricevere e analizzare le comunicazioni sottoposte alla sua attenzione da parte di individui. Dall’art.2 all’art.7 viene descritta la procedura della comunicazione, che permette di presentare ricorsi individuali o collettivi alle persone che ritengano di essere vittime di una violazione di qualunque diritto presente nella Convenzione.

Ovviamente vengono elencate le condizioni necessarie affinché un ricorso possa essere preso in considerazione dal Comitato: le comunicazioni devono essere presentate per iscritto, non essere anonime e infine provenire da cittadine il cui Stato di appartenenza sia parte della Convenzione e del Protocollo. Quindi, se lo Stato ha ratificato solamente la Convenzione, ma non il Protocollo, le comunicazioni non potranno essere ricevute dal Comitato. Altra condizione necessaria (che troviamo in tutti gli strumenti internazionali che prevedono il diritto di petizione) è che l’individuo abbia esaurito tutte le vie di ricorso interne.

Una comunicazione presentata davanti al Comitato può da questo essere considerata inammissibile qualora: il ricorso sia stato o sia in quel momento sottoposto all’esame di un altro organismo internazionale; il ricorso sia incompatibile con le previsioni della Convenzione, sia infondato o rappresenti un abuso del diritto di petizione stesso. Inoltre, per il principio dell’irretroattività delle norme, i fatti che siano oggetto della comunicazione devono necessariamente riferirsi a una data anteriore all’entrata in vigore del Protocollo.

Ancor prima di decidere sul merito del ricorso, il Comitato ha la possibilità di contattare lo Stato coinvolto attraverso una procedura d’urgenza, affinché quello Stato prenda appropriate misure interne ritenute necessarie e improrogabili. Tale richiesta può in molte occasioni evitare il protrarsi di situazioni che portino a gravi violazioni, le cui vittime potrebbero essere ulteriormente danneggiate nell’attesa di una condanna dello Stato. Infatti, prima che il Comitato prenda una decisione definitiva possono passare vari mesi, e nel caso in cui venga accertata una responsabilità dello Stato nel creare una situazione di ineguaglianza a danno delle sue cittadine, queste, nel caso si tratti di discriminazioni gravi, potrebbero non ricevere beneficio alcuno dall’accoglimento del loro ricorso.

Gli artt.6 e 7 specificano in cosa consista realmente la procedura della comunicazione una volta che questa sia ricevuta dal Comitato e abbia anche superato il test sui criteri di ammissibilità. Se il ricorrente dà il suo consenso affinché venga dichiarata la sua identità, il Comitato invia una comunicazione allo Stato interessato che entro sei mesi, deve a sua volta inviare una spiegazione scritta circa l’oggetto del ricorso. Nel lavoro di analisi del ricorso, il Comitato può utilizzare qualsiasi informazione che gli sia stata data dal ricorrente stesso e chiedere, se queste non fossero sufficienti, ulteriori informazioni allo Stato. Le raccomandazioni adottate dal Comitato vengono poi trasmesse allo Stato, che ha sei mesi per rispondere, includendo in tale risposta anche i rimedi che può prendere per dar seguito a quelle. Si tratta di una procedura abbastanza semplice, che implica uno scambio di informazioni tra Stato e Comitato per la verifica della sussistenza di qualsiasi comportamento discriminatorio contro le donne.

I due articoli successivi (8 e 9) sono invece dedicati alla procedura dell’inchiesta che, a differenza di quella della comunicazione, ha inizio non su iniziativa del singolo, ma su iniziativa propria del Comitato, senza bisogno che questo riceva un ricorso individuale o collettivo. Tale procedimento, infatti, viene attivato autonomamente dal Comitato, allorché questo riceva informazioni circa gravi e sistematiche violazioni dei diritti delle donne di uno Stato. Una volta ricevute informazioni in tal senso, si invita lo Stato parte a cooperare nella loro analisi e ad inviare osservazioni sul loro contenuto.

Tenendo conto delle osservazioni inviate e facendo ulteriori indagini, il Comitato, credendo fondata l’ipotesi della presenza, all’interno dello Stato in questione, di pratiche discriminatorie contro le donne, può designare uno o più suoi membri a condurre un’inchiesta vera e propria e comunicare urgentemente i risultati da questa ottenuti. Se necessario, l’inchiesta può richiedere anche una visita dei membri del Comitato sul territorio. Dopo un’analisi dettagliata di ciò che dall’inchiesta è emerso, il Comitato trasmetterà allo Stato il materiale rilevato, unito a commenti e raccomandazioni; lo Stato è tenuto ad inviare entro sei mesi osservazioni scritte ed è inoltre obbligato a cooperare in ogni momento.

Trascorso il periodo di sei mesi, lo Stato può essere chiamato ad inviare al Comitato informazioni circa le misure adottate per porre fine a una qualsiasi situazione discriminatoria risultata dall’inchiesta. Tali informazioni possono anche formare parte del Rapporto che, ai sensi dell’art.18 della Convenzione, lo Stato è tenuto a presentare proprio per rendere noti i progressi realizzati nel campo dell’uguaglianza tra i sessi.

Se uno Stato non considera in modo positivo la possibilità per il Comitato di cominciare un’inchiesta di sua iniziativa, può decidere di sottrarsi a tale procedura. L’art.10 infatti prevede la “opt-out-clause”, grazie alla quale lo Stato, al momento della ratifica del Protocollo, dichiara di non riconoscere la competenza del Comitato a condurre un’inchiesta come previsto dai due articoli precedenti. Peraltro lo Stato può in qualsiasi momento annullare una decisione in tal senso, notificandola al Segretario Generale.

C’è una norma che merita considerazioni più approfondite, l’art.17 che vieta agli Stati di porre riserve al Protocollo in questione. È una previsione strettamente correlata al problema dell’elevato numero di riserve apposte dagli Stati alla Convenzione del ‘79, oggetto di riserve più di qualsiasi altro strumento internazionale. Alcune di esse sono vaghe e generiche, ma altre si riferiscono ad articoli fondamentali e sono quindi contrarie all’oggetto e allo scopo della Convenzione stessa.

Queste riserve materiali rappresentano una grossa limitazione agli obblighi contratti dagli Stati. Come abbiamo visto, la necessità di limitare il loro numero è già stata sottolineata a Vienna, e ora, prevedendo il divieto di riserve al Protocollo, si vuole in qualche modo richiamare l’attenzione sul problema. Gli Stati sono così obbligati, una volta ratificato il Protocollo, a seguire le disposizioni che esso contiene e a non poter giustificare in alcun modo una loro violazione.

La Sessione Speciale dell’Assemblea Generale

Come abbiamo già visto, la Conferenza Mondiale di Pechino ha rappresentato un notevole successo nel determinare un nuovo impegno internazionale verso gli obiettivi dell’uguaglianza, dello sviluppo e della pace per tutte le donne del pianeta, ed ha fatto evolvere l’agenda globale verso il progresso delle donne nel ventunesimo secolo. La Dichiarazione e Programma d’Azione, adottati in quella sede, rappresentano un’agenda potente per l’attribuzione di potere alle donne e l’uguaglianza dei sessi. Essi, stabilendo gli obiettivi strategici e le iniziative che debbono essere assunte dai governi, dalla comunità internazionale e dal settore privato, hanno puntato ad accelerare l’attuazione delle strategie di Nairobi e a rimuovere gli ostacoli che si frappongono a un’attiva partecipazione femminile in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Nonostante ciò, il cammino compiuto dalle donne in numerose società, i progressi realizzati sono stati lenti e irregolari.

La Sessione Speciale dell’Assemblea Generale conosciuta con il nome di “Pechino +5”, tenutasi presso la sede centrale delle Nazioni Unite, a New York, dal 5 al 9 giugno 2000, ha presentato esempi relativi alle pratiche positive, alle iniziative di successo intraprese da diversi paesi, ma anche gli ostacoli e le sfide chiave che ancora devono essere superate. La richiesta di una revisione di ciò che era stato deciso nel ’95 è stata avanzata dall’Assemblea Generale nel gennaio del 1998, mediante la risoluzione 52/231, riaffermando che l’attuazione del Programma di Pechino aveva bisogno di un’azione concertata da parte di tutti i governi, per garantire il rispetto dei diritti umani in tutte le società. Come di consueto, la Commissione sullo Status della Donna ha lavorato per l’attuazione di questa sessione speciale. A tal fine, ogni anno ha condotto ricerche per verificare i progressi compiuti dagli Stati in ognuna delle dodici aree di crisi e rilevando anche gli ostacoli incontrati ha formulato delle raccomandazioni che servissero a facilitarne il raggiungimento. È bene ricordare che, fino ad oggi, 116 Stati hanno presentato piani d’azione nazionali per l’attuazione del principio di parità tra i sessi; si sono tenuti, dall’ottobre ’99 al febbraio 2000, cinque incontri regionali oltre che ad un seminario ONU, proprio sul tema “Pechino +5-Azioni e Iniziative Future”, svolto in Libano nel novembre scorso. Inoltre, i vari organismi ONU hanno portato avanti numerose attività, tra le quali voglio ricordarne una particolare, la creazione di gruppi di lavoro on line sulle dodici aree di crisi, condotti sul sito web delle Nazioni Unite WomenWatch.

Da queste ed altre attività, è emerso un considerevole numero di processi portati avanti dai vari Stati per la promozione della donna: sono state create nuove leggi e modificate le normative esistenti per allinearle con le disposizioni contenute nella Convenzione del’79; l’accesso delle donne alla giustizia è migliorato e finalmente i governi, nel formulare le loro politiche generali, hanno tenuto conto delle realtà della popolazione femminile. Anche il peso e il numero delle donne coinvolte nei processi decisionali sta crescendo.

Prima di passare ad esaminare i progressi che sono stati realizzati dai diversi Stati, è bene focalizzare l’attenzione sui problemi che maggiormente ostacolano il processo d’affermazione e applicazione degli obiettivi strategici decisi nel’95. Nel documento presentato dall’Assemblea Generale, vengono analizzate, una per una, le dodici aree di crisi e, per ognuna di esse, vengono enunciati i risultati ottenuti e gli ostacoli incontrati. Senza soffermarci su tutto il documento, vorrei parlare di due problemi che, a mio avviso, più di altri impediscono alla popolazione femminile di godere dei diritti fondamentali che sono loro riconosciuti da strumenti internazionali e da leggi nazionali: la povertà e le malattie trasmesse sessualmente.

Il primo problema riguarda soprattutto le donne appartenenti ai PVS e al Terzo Mondo, nei quali le condizioni economiche sono sfavorevoli per tutti e dove la distribuzione della ricchezza avviene in modo ineguale. Si è parlato da più parti di “Femminilizzazione della povertà”, espressione che sta a testimoniare che tale difficoltà interessa le donne più degli uomini. Già a Pechino una delle dodici aree di crisi è stata dedicata proprio alla soluzione di tale problema, riconoscendo quindi la sua dimensione sessuale; sempre in quell’occasione, la definizione di povertà è stata allargata, ricomprendendo, oltre alla mancanza dei bisogni fondamentali, anche la negazione di opportunità e di scelta.

La povertà delle donne nega loro di ottenere l’accesso a risorse importanti quali la terra, il credito e il patrimonio ereditario. Questa negazione comporta una totale mancanza di prospettive. Il loro lavoro non viene spesso riconosciuto o retribuito. Ci si riferisce in particolare alle donne che vivono nelle zone rurali che devono sopportare anche le difficili condizioni di vita. Durante la Sessione Speciale, oltre a sottolineare l’impatto negativo che la globalizzazione ha avuto sulle condizioni delle donne, si è cercato di proporre una chiave per il cambiamento, che potrebbe in qualche caso migliorare una situazione tanto grave. Si tratta della disponibilità di credito da accordare alle donne affinché possano partecipare ai più importanti processi economici. Tale strategia è già stata adottata da alcuni governi che hanno stanziato ingenti somme per finanziare, sottoforma di piccoli prestiti, l’attività di donne imprenditrici o solo per migliorare la realtà di quelle molto povere.

Il secondo grande ostacolo è invece rappresentato dal diseguale accesso alle risorse sanitarie di base. Anche in questo caso, il diritto delle donne agli standard più elevati di salute fisica e mentale è stato riconosciuto in occasione della Conferenza di Pechino, il cui Programma d’Azione chiama i governi ad intervenire urgentemente per la soluzione di tale problema. La Commissione sullo Status della Donna, nel corso di un incontro tenuto nel’99 in virtù dell’incarico per la preparazione della Sessione Speciale, ha voluto sottolineare la necessità di adottare ulteriori misure per migliorare la qualità della salute delle donne. Tali proposte sono state affrontate anche nel giugno scorso, quando, fra le varie discussioni, si è affrontato anche l’argomento sulle malattie a trasmissione sessuale, in primo luogo l’ HIV.

Dei 5.6 milioni di adulti che hanno contratto il virus nel 1999, 2,3 milioni sono donne. La maggior parte delle persone infettate dall’ HIV, il 95%, vive nei PVS, dove la situazione continua a peggiorare. La vulnerabilità della popolazione femminile si può attribuire a fattori biologici, ma anche culturali, quali la mancanza di conoscenza e di accesso alle informazioni o la dipendenza economica. Nonostante la drammaticità della situazione, si registrano numerose iniziative volte alla prevenzione della diffusione dell’ HIV, come i programmi che forniscono assistenza sanitaria e distribuiscono profilattici.

Accanto ai problemi, agli ostacoli che impediscono agli Stati, come alla comunità internazionale, di realizzare gli obiettivi di Pechino, la Sessione Speciale ha anche presentato dei progetti efficaci messi a punto dai governi di paesi diversi per promuovere la posizione della donna in vari settori. Citerò alcuni di questi progetti, tenendo soprattutto in considerazione gli sforzi fatti dai PVS dove le donne sopportano le discriminazione più gravi e dove quindi l’intervento dei governi è più urgente.

Per quanto riguarda l’istruzione, viene presentato un progetto interessante che coinvolge Bangladesh, Brasile, Cina, Egitto, India, Indonesia, Messico, Nigeria e Pakistan, nove Stati in cui vive metà della popolazione mondiale ed il 70 % degli analfabeti. Tale progetto, E-9, ha puntato all’ottenimento dell’istruzione per tutti, dando priorità assoluta a donne e bambine. Ricordando inoltre l’importanza dell’accesso universale all’istruzione elementare, viene citato, tra gli altri, il piano della Turchia che ha modificato la durata dell’obbligatorietà scolastico, passata da cinque a otto anni.

L’obiettivo di incrementare la partecipazione femminile ai livelli decisionali più alti ancora deve essere raggiunto da parecchi paesi. Da Pechino in poi, sono comunque aumentate le discussioni su quest’argomento, sia a livello governativo sia non governativo e questo ha fatto nascere una maggiore consapevolezza dei cambiamenti che sono necessari nel raggiungere un equilibrio dei sessi. Molti paesi hanno quindi applicato politiche che prevedono iniziative contro i pregiudizi, sviluppato programmi di formazione per la leadership femminile e introdotto misure per conciliare la famiglia e le responsabilità professionali tanto alle donne quanto agli uomini. Tra questi, il Ghana con le tante iniziative volte a far sì che il 40 % dei posti disponibili negli organismi deliberativi siano donne; o l’Uganda che ha costituito il Ministero per lo Sviluppo Sessuale, Lavorativo e Sociale il cui scopo è quello di realizzare una politica di iniziative contro i pregiudizi.

Anche nel settore economico si sono avuti esempi positivi rispetto all’uguaglianza dei sessi per un accesso paritario all’occupazione o per un pari diritto alle retribuzioni. È stata soprattutto sviluppata una legislazione che va a rafforzare le capacità esecutive e professionali delle donne, per consentire loro di gestire le proprie attività lavorative. Tra gli esempi più significativi e interessanti, c’è quello della Corea che, nel 1999, ha approvato una legge che istituisce un’Associazione delle Imprenditrici Coreane e che incoraggia gli organismi governativi locali e centrali a offrire sostegno alle attività imprenditoriali femminili, sia nuove sia consolidate. La Croazia anche ha risposto positivamente a questa sfida, sviluppando un programma che garantisce prestiti a condizioni finanziarie favorevoli alle piccole imprese e, in particolare, alle imprenditrici. Questi sono solamente alcuni dei tanti esempi di successo presentati alla sessione Speciale.

Pechino +5 ha avuto quindi lo scopo di far conoscere gli esempi positivi di realizzazione di politiche volte al raggiungimento degli obiettivi strategici decisi nel 1995. Inoltre, essa ha focalizzato l’attenzione sugli ostacoli che creano i maggiori problemi nell’applicazione dei principi sanciti a favore della popolazione femminile. Ho voluto parlare dei due problemi che negano alle donne il godimento dei diritti umani fondamentali e degli esempi che mi hanno maggiormente colpito, esempi dei PVS, i cui sforzi debbono essere apprezzati ancora di più se si pensa alle condizioni di vita in cui versa la loro popolazione e alle difficoltà, soprattutto finanziarie, che incontrano nello sviluppare politiche nazionali specifiche.

Bibliografia

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http://www.onuitalia.it/indicesito/donne.htm




http://www.onuitalia.it/


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