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Quando i venti uomini, attraversato l'enorme capannone ingombro di
merci, entrarono nella sala mortuaria e si allinearono in silenzio
intorno alla bara, il tempo si fermò per un lunghissimo momento.
Con loro, ai quattro angoli d'uno squallido sgabuzzino senza finestre,
quattro agenti della Polaria e il direttore dello scalo merci di Fiumicino.
Il sonoro ronzio di un moscone attrasse alcuni sguardi. Veniva dal
sole caldo dell'ottobre romano. Dalla vita. Attraversò la stanza
e volò subito fuori, come spaventato.
Quaranta occhi tornarono a fissare il telo grezzo bianco malamente
appuntato sotto un mazzo di fiori mezzo stecchiti, su una cassa di
legno innaturalmente grande per il corpo di una giovane donna. Nessuno
fiatava. Qualche mano si mosse esitante a sfiorare il legno, i chiodi,
la tela. Alcuni occhi si chiusero forte sotto le fronti aggrottate
per scacciare un pensiero, un'immagine. L'immagine di quel corpo che
doveva essere stato bello e fresco un tempo, e il giorno prima non
era potuto partire perché troppo gonfio e guasto.
Dopo due giorni nella stiva di quella nave e poi dieci giorni in
chissà quale magazzino a Crotone, il comandante aveva rifiutato
di caricare la bara. Troppo forte l'odore della morte. Forse avevano
dovuto cambiarla con una più grande e più ermetica,
che potesse contenere ciò che era diventato il corpo di Malli
Gullù.
***
Il moscone rientrò nella stanza con un ronzio leggero e si
posò piano sulla bara. Si guardò intorno disorientato,
fece un mezzo giro su sé stesso, poi volò ancora dritto
verso la porta e si scagliò verso il cielo, tendendo le ali
brillanti come un aereo in fase di decollo.
***
L'aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese le ali
brillanti in alto, verso il sole…
***
"Riprénditela, ma falle cambiare vita. E cambia strada pure
tu, finché sei in tempo. Lo sappiamo che sei un terrorista,
tu e tutti i tuoi parenti laggiù a Sirnak. Ce l'hai portata
tu nella sede dell'Hadep, tua moglie, e tu sei responsabile dei suoi
guai. La prossima volta non la rivedrai tanto facilmente!"
L'uomo sentì i muscoli del viso e delle braccia tendersi dolorosamente
nello sforzo di non rispondere, di non colpire. Si chinò e
sollevò quasi di peso il corpo sottile di Malli afflosciato
su una sedia. Sentì all'orecchio il suo respiro pesante, quasi
un rantolo. I lunghi capelli erano rappresi dallo stesso sangue che
macchiava il vestito, il viso era annerito dai lividi. Lentamente,
un gradino dopo l'altro, riuscì a portarla giù per le
scale della caserma di Gebze. Ogni movimento le strappava un gemito.
Il gendarme di guardia al portone li guardò entrambi con odio
prima di premere il pulsante.
Fuori accorsero le donne, la sollevarono delicatamente sulle braccia
robuste intrecciate a barella, volarono verso la macchina in attesa.
I loro veli bianchi le fluttuavano attorno come un vestito da sposa.
***
"Mi hanno torturata…"
Il medico finse di non sentire, si cacciò le mani nelle tasche
del camice e si rivolse bruscamente all'uomo in attesa. "Portala via,
ha solo contusioni, guarirà presto". Guardò gli occhi
imperiosi dell'ufficiale in piedi in fondo alla stanza, poi distolse
lo sguardo dalla domanda muta dell'uomo.
"Lo so che vorresti una certificazione, ma non ce n'è bisogno.
Tua moglie non ha versamenti interni o fratture, i lividi spariscono
in fretta. Se dovessimo metterci a scrivere per ogni sciocchezza…"
***
Quando le tavole di lamiera si chiusero con colpi secchi di chiavarde
sopra le loro teste, Malli barcollò e sarebbe caduta se non
avesse trovato, nel buio, il braccio di suo marito. Gli si strinse
e le due bambine si strinsero ad entrambi. L'aria era irrespirabile,
rappresa di calore e fetore.
"Come in quella cella…" mormorò. "Manca l'aria e la luce,
come là dentro. Ricordi? Mi sento male come allora. Ma qui
almeno non verrà nessuno a picchiarmi, e ci siete voi…"
Scandiva le parole con difficoltà, ansimando. Lui le accarezzò
con dolcezza i capelli e la fronte, come faceva sempre quando le tornavano
quei ricordi. "Calma, Malli. Siamo come in prigione, è vero,
ma ti attendeva una prigione molto peggiore. Invece stiamo andando
verso la libertà. Fatti forza, è l'ultima fatica".
Qualcuno nel buio gli toccò il braccio, poi una voce in kurdo
con l'accento del sud: "Hevàl, avete cibo e acqua con voi?
Siamo chiusi qua dentro in quattrocento da tre giorni, fermi ad aspettare
voialtri dalla Turchia. Abbiamo messo in comune tutto, dovreste farlo
anche voi. Abbiamo sete. Ci è rimasta solo una tinozza d'acqua
sporca e dei pani ammuffiti che non vi consiglio, hanno fatto apposta
a lasciarceli vicino alla latrina. Hai acqua e pane per i miei bambini,
hevàl?"
Lui si svincolò lentamente dall'abbraccio di Malli, si chinò
a rovistare nel grande zaino militare e ne trasse una bottiglia e
due pani rotondi odorosi di sesamo. L'altro quasi glieli strappò
di mano mormorando un "grazie, hevàl". Con gli occhi ormai
abituati all'oscurità, lo videro farsi largo nel groviglio
di corpi fino a un gruppo di donne e bambini addossati alla parete,
accasciati sul terriccio misto a letame che copriva il fondo della
stiva. I pani e l'acqua finirono in un attimo.
***
Questa volta tutti, anche i poliziotti, si volsero a seguire affascinati
il volo del moscone. Poi tornarono a guardare alternativamente la
bara e i propri piedi, incerti.
Avevano lasciato il centro d'accoglienza così in fretta da
dimenticare sul tavolo il gran mazzo di fiori gialli e rossi un po'
appassiti che il giorno prima avevano comprati per poche lire da un
fioraio amico e s'erano dovuti riportare indietro. Che fare davanti
a una bara, senza neanche un fiore?
L'italiano ripensò alla burocrazia aeroportuale che aveva
escluso categoricamente la possibilità di esporre la bara nella
chiesetta accanto all'aeroporto, dove avrebbero potuto circondarla
di fiori, pensieri e parole con quella serenità che danno le
chiese di campagna anche a chi non crede o crede in un altro Iddio.
"Non si può, il feretro ha già i fogli per l'espatrio,
dunque è come se fosse già all'estero, e la chiesa è
territorio nazionale, non può rientrare in Italia neanche per
pochi metri, le norme son chiare…"
Così dovevano salutarla fra quelle mura scrostate chiuse da
una saracinesca, unico arredo un lavandino nella parete di fronte.
L'italiano strinse i pugni e inghiottì un fiotto di rabbia
impotente.
Il piccolo Mahsun fu il primo a sollevare lo sguardo. Si schiarì
la gola e cominciò a parlare in turco in tono sommesso, poi
via via più alto. Tutti pendevano dalle sue labbra.
"Questo corpo, compagni, è di una donna del partito Hadep.
Ha conosciuto la prigione e la tortura per lo sciopero della fame
che le donne intrapresero in tutte le città tre anni fa, quando
fu sequestrato il nostro presidente. E' fuggita dalla Turchia con
il marito e le figlie perché per quello sciopero della fame
l'attendeva una condanna a lunghi anni di carcere. E' morta soffocata
nella stiva di una nave…"
***
Quelle navi di legno fradicio e di ferro arrugginito… Chi veniva
dai villaggi il mare non l'aveva mai conosciuto, e ne aveva paura.
Negli incubi di ciascuno di loro, anche dei bambini, soprattutto dei
bambini, ritornava il mare e quelle stive fetide, e le armi spianate
dei poliziotti che li scortavano nella notte fino al porto, e poi
quelle degli equipaggi mafiosi, le banconote passano di mano in mano
in pacchetti sempre più grossi, le onde sempre più alte
nella notte nera, i colpi che sembrano spaccare il fasciame, gli ordini
secchi, il pianto dei bambini, il puzzo pungente di orina, l'imbarazzo
delle donne per la promiscuità, il rombo dei motori e delle
eliche, e poi d'improvviso il silenzio, lunghe attese sballottati
in mezzo al mare, e nuovi carichi umani e la nave riparte, i vestiti
si fanno ruvidi d'untuosa polvere salmastra, le barbe lunghe e la
fame, e le canzoni le storie gli scherzi in dieci lingue per far passare
la fame e la paura, ma i racconti tornano sempre alla prigione e alla
guerra e qualcuno protesta, basta pensiamo al futuro, siamo quasi
in Europa, e l'Europa prende forma di scogli appuntiti e neri nel
mare in tempesta, il timone impazzisce e l'equipaggio fugge, la nave
fa acqua, torna il terrore della morte, le urla non sovrastano il
muggito del mare nella notte nera o nell'alba livida, e poi finalmente
una nave, un elicottero, qualcuno in aiuto, e l'incubo finisce ma
torna ogni volta che chiudi gli occhi, soprattutto i bambini, che
non vogliono più dormire per non rivedere in sogno il mare…
Venti pensieri corsero alle navi che ciascuno aveva conosciuto. Uno
dopo l'altro, tutti si sorpresero a tirare un respiro profondo. L'atmosfera
s'era fatta d'improvviso ancora più soffocante, come in quelle
stive o nei cassoni di quei Tir allineati nel ventre dei traghetti.
***
Il terzo giorno Malli svenne. Quando si riprese fra le braccia del
marito, sentì che qualcosa le si era spezzato dentro. Rantolava.
Ogni respiro era come una coltellata sempre più profonda.
Intorno a loro tutti dormivano addossati gli uni agli altri. Respiravano
forte o russavano, e quel rumore ritmato di quattrocentocinquanta
respiri all'unisono s'impastava con il rombo pulsante dei motori.
Malli si portò le mani alle orecchie che fischiavano, si sentì
svenire un'altra volta.
Si fece forza. "Forse sto per morire" disse piano all'orecchio dell'uomo,
che protestò debolmente. Bisbigliò ancora alcune parole
e l'uomo scosse la testa con forza, poi la sua bocca si stirò
in un sorriso incerto. "Se non è che questo… Non morirai, sta'
tranquilla, era solo un malore. Comunque, se proprio vuoi… Ma come
facciamo, in mezzo a tutta questa gente?"
Alla fine cedette, frugò nello zaino e ne tirò fuori
un vestito. Era il più bello, quello rosso e verde rilucente
dell'oro delle monete e dei monili, quello delle danze e delle feste
più importanti. Le stese intorno una coperta e distolse lo
sguardo, ma con la coda dell'occhio la guardò mentre a fatica,
gemendo, lei si sfilava il vestito scuro e si fasciava di lucida seta.
Si sentì soffocare dalla tenerezza. La sua compagna (così
la chiamava, non moglie, malgrado le proteste dei suoceri) non era
mai stata così bella.
Quando gli occhi di Malli divennero vitrei, la sua bocca sorrideva
ancora. Lui capì subito e cominciò a urlare. Tutti si
svegliarono. Il suo grido divenne l'urlo disumano di quattrocento
gole. Continuò per due giorni e due notti quell'urlo, perdendosi
nel vento e nel mare.
"Sono impazziti là sotto… Se gli apriamo ci saltano addosso,
non se ne parla nemmeno. Buttategli qualche bottiglia d'acqua, qualche
scatola di antibiotico. Che ci siano morti come gridano, non ci credo,
hanno la pelle dura quei cani, sentite? ululano proprio come cani…"
***
Quando al largo di Crotone la issarono sopra coperta, il suo corpo
snello s'era gonfiato al punto che tutti pensarono che fosse stata
incinta. Ma sembrava ugualmente una regina. Sulla seta lucente il
vento agitava i lunghi capelli neri e faceva tintinnare le monete
d'oro.
***
Svegliato di soprassalto dal suo stesso urlo l'uomo si drizzò
nel lettino, madido di sudore. Si portò le mani alla gola.
Lentamente tornò a respirare. Per fortuna le bambine non s'erano
svegliate… Le guardò dormire abbracciate e si chiese con angoscia
se avrebbero mai avuto una vita normale, se avrebbero messo da parte
il ricordo dei giorni trascorsi in quella stiva accanto al cadavere
della madre.
Tornò a stendersi senza chiudere gli occhi. Quel pomeriggio
il corpo di Malli era volato via verso Roma e Istanbul. Ne aveva avuto
la certezza dall'interprete, ma non aveva potuto nemmeno rivedere
la bara. Voleva accompagnarla fino a Roma nell'ultimo viaggio. La
burocrazia l'aveva bloccato là nel campo di Crotone: niente
da fare, non aveva ancora il permesso di soggiorno.
Quella sera, per la prima volta in dieci giorni, era riuscito a piangere.
"Vorrei tornare anch'io con lei…" Dalle roulotte rugginose allineate
sulla pista dell'ex aeroporto erano usciti in tanti, gli si erano
stretti intorno senza parlare. Il suo dolore era anche il loro.
"Vorrei tornare…" Indicava in direzione del mare, oltre il mare e
le montagne di Grecia e d'Anatolia. Tendeva le mani verso un villaggio
del Botan, le ombre dolci delle montagne e il verde della valle del
Tigri, il profumo del fieno, i canti e le risate nel tramonto, i vecchi
accoccolati davanti alle case, le donne alla fontana, l'odore del
pane appena cotto…
Lo sentirono tutti all'improvviso, l'odore del fieno e del pane.
Fu quando un anziano gli prese le mani e disse con voce forte, a lui
e a tutti: "Non piangere più. Tua moglie ha finito di soffrire.
E' tornata nel vostro villaggio e ti aspetta. Un giorno prenderai
per mano le tue figlie e tornerai laggiù con loro. Con tutti
noi. Torneremo un giorno nel nostro paese, ricostruiremo i villaggi
distrutti e canteremo nella nostra lingua, e taglieremo il fieno e
spezzeremo il pane…"
***
"Possiamo scrivere due parole di saluto sulla stoffa della bara?
Nella fretta abbiamo dimenticato anche i fiori…"
Il sottufficiale si strinse nelle spalle e fece segno di sì.
Un agente sorrise e trasse di tasca un pennarello nero. Scrissero
lentamente sulla tela, in stampatello, due frasi di commiato in turco.
"Noi, popolo kurdo in Italia e amici italiani…". In kurdo, lo sapevano,
quelle parole sarebbero state cancellate all'arrivo a Istanbul.
Come in un rito sfilarono davanti alla bara passandosi il pennarello
e firmarono. Alcuni con uno sgorbio, per non far riconoscere il proprio
nome; altri per esteso, come per sfida.
Si guardarono incerti. Mahsun alzò le braccia. Era finita.
Il direttore dello scalo merci annuì: l'aereo attendeva in
pista. I kurdi si posero le mani giunte sul viso in un gesto di raccoglimento,
quasi di preghiera, poi le appoggiarono sulla bara. Gli italiani li
imitarono. Il funzionario tossicchiò, imbarazzato e impaziente.
Uno dopo l'altro staccarono le mani dalla bara. Uno degli italiani
disse in turco, a voce alta: "Un giorno le tue figlie torneranno nel
tuo paese libero, te lo giuriamo".
In fila indiana, con un ultimo sguardo alla bara, si avviarono verso
l'uscita.
***
Il moscone saettò verso l'alto, libero…
***
I venti uomini si scossero, come folgorati dalla stessa idea. Si
volsero all'unisono. Le loro braccia sollevarono la bara con facilità.
Si mossero lentamente, solennemente, verso la pista dove l'aereo per
Istanbul scaldava i motori. Gli agenti, sorpresi, li lasciarono passare.
Quegli occhi incutevano rispetto.
Il piccolo corteo raggiunse l'aereo in attesa. A un chilometro di
distanza i passeggeri si stavano stipando in un bus navetta. Ma era
troppo tardi.
Caricarono la bara nella stiva, poi salirono la scaletta. Nessuno
mosse un dito contro di loro, neppure quando ordinarono all'equipaggio
di chiudere i portelloni e decollare. Non avevano armi e non ce n'era
bisogno. Bastarono gli sguardi.
Quando l'aereo atterrò sulla vecchia pista dell'aeroporto
di Crotone, l'uomo già sapeva che sarebbero arrivati. Non disse
una parola, ma prese per mano le sue bambine e seguì l'anziano.
In cento uscirono dalle roulotte e salirono a bordo. Nessuno osò
fermarli.
Pochi minuti dopo l'aereo lacerò la ragnatela delle nuvole
e protese verso il cielo le ali brillanti.
All'arrivo a Istanbul una grande folla lo attendeva. Travolsero i
cordoni di polizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono
dall'aeroporto, la bara di Malli Gullù in testa, ed erano già
in mille.
Quando attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila,
fu chiaro che neanche i blindati li avrebbero fermati. La notizia
volò. Milioni di profughi si misero in cammino dall'Europa
e da tutta la Turchia verso oriente. Verso il Kurdistan, verso il
sole, il fieno e il pane.
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Dino Frisullo - 27 ottobre 2001
(E' tutto vero, tutto... tranne il finale: vi prego, facciamo che
un giorno sia vero anche quello...)