La diffusione dell'etnopsichiatria - La questione del come far coesistere culture e saper-fare diversi e di quali forme e compiti dare a servizi sanitari e scuole in società multiculturali
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PIERO COPPO

La società delle cattive maniere


Francesco-Hayez - malinconia  



Cade la distinzione tra tecnica e politica, sono la società e la cultura per l'etnopsichiatria a determinare alcune delle sofferenze psichiche più diffuse. Di fronte alle quali il terapeuta non può più porsi il problema della cura della persona senza mettere in discussione il contesto che l'ammala


[Certo il professor Emil Kraepelin, neuropsichiatra tedesco contemporaneo di Sigmund Freud, non immaginava, partendo per Giava ai primi del '900, di inaugurare un'area di ricerca che sarebbe poi divenuta uno dei tre principali motori dell'etnopsichiatria.


Su questa pista, che Kraepelin aveva chiamato Psichiatria comparativa, hanno continuato a lavorare psichiatri coraggiosi. Henry B. Murphy, per esempio, si era dedicato alla "psichiatria transculturale" (altro termine, con altre sfumature, per dire etnopsichiatria) dopo aver osservato nei campi profughi della II guerra mondiale la varietà dei disturbi psichici presentati dai vari gruppi di internati: polacchi, ebrei, léttoni. Cercando di chiarire le determinanti sociali, economiche, culturali delle psicopatologie considerate da altri come date, biologiche, naturali, spinse la ricerca non solo in aree geografiche lontane, ma anche a ritroso, nella storia; e si convinse, per esempio, (e lo scrive nel suo testo Comparative Psychiatry pubblicato nel 1982), che la depressione nacque, così come oggi la conosciamo, in Inghilterra dalle trasformazioni legate alla rivoluzione industriale e all'impianto del capitalismo cristiano-protestante tra '700 e '800; e non per nulla infatti era chiamata "malattia inglese", spleen, da curare con svaghi e spaesamenti.


Anche Georges Devereux, di cui dirò dopo, ebbe il coraggio della chiarezza. In un testo del 1965, ripubblicato recentemente, scriveva: "Considero la schizofrenia come pressoché incurabile, non perché sia dovuta a fattori organici, ma perché i suoi sintomi principali sono sistematicamente alimentati da alcuni dei valori più caratteristici, più potenti - ma anche più disfunzionali - della nostra civilizzazione." E si chiedeva di conseguenza come un dottore che soffra, senza però ammetterlo o addirittura saperlo, delle disfunzioni che alimentano il male del suo paziente, possa sperare di curarlo.


Occorre sottolineare che non si tratta qui di prese di posizione risentite, passionali, superficiali, basate su slogan, come quelle cui una certa contestazione antipsichiatrica semplicistica (anche se spesso motivata) e di moda ci ha abituati; ma di considerazioni che derivano da un rigoroso, paziente, difficile, laborioso lavoro di analisi e riflessione che si pone dentro l'ambito della Scienza e che a tratti raggiunge alti livelli di elaborazione teorica e metodologica.


Anche altri, in seguito, sull'onda della contestazione antiautoritaria che sconvolse l'Occidente negli anni '60 e '70, criticarono a fondo, ponendosene al di fuori, l'apparato psichiatrico e la società che l'aveva espresso, a volte con la stessa serietà e profondità di argomentazioni, spesso con maggiore radicalità, decisione e forza: Herbert Marcuse, Ronald Laing, David Cooper, Franco Basaglia, per citarne alcuni. Ma, diversamente da essi, gli "psichiatri comparativi" intendevano restare nell'ambito di questa società, della psichiatria e della Scienza. In un certo senso, volevano verificare, dall'interno del sistema psichiatrico, la tenuta del sistema stesso per renderlo, finalmente, coerente.


Per tornare a George Devereux, è suo il primo testo in cui viene organicamente descritto il saper-fare di un popolo altro nelle aree che noi chiamiamo psicologiche e psichiatriche: Etnopsichiatria degli indiani Mohave (1961). Devereux era ungherese, laureato in fisica, pianista, grecista, psicanalista, etnologo. Passò vari anni della sua vita in altri mondi, con altri popoli: con i Mohave della California, ma anche con i Sedang-moï in Vietnam. Ciò che andava via via osservando, e lo sforzo per piegarlo alla gabbia psicoanalitica, lo costrinse a una fortissima tensione teorica. Da quella fatica sono scaturite alcune delle più interessanti scoperte e invenzioni metodologiche della moderna etnopsichiatria, che tuttora orientano chi si avventuri in questo campo.


Devereux formò a Parigi, in seminari e laboratori destinati a una piccolissima cerchia di allievi, alcuni che hanno ruoli di rilievo nell'etnopsichiatria attuale; tra i quali il più conosciuto è Tobie Nathan. Devereux è senza dubbio la figura principale di questo secondo motore dell'etnopsichiatria, quello di matrice etnografica, che ricerca sui saper-fare altri, li studia e li descrive con attenzione anche per scoprire cosa contengano di utile per il mondo della Scienza: se non altro, delle preziose sfide metodologiche, delle feconde impossibilità di traduzione che mettano in luce angoli bui, impasse nel metodo scientifico. Devereux riassumeva in sé le competenze dell'etnologo e dello psicanalista; altri, dopo di lui, saranno obbligati al lavoro interdisciplinare per trattare la stessa materia. Antropologi, etnologi, psicologi, sociologi, psichiatri, medici, storici, etnomusicologi, etnoscienziati e etnobotanici si troveranno d'ora in poi a lavorare gomito a gomito, in relazioni non sempre pacifiche, nelle aree dell'etnopsichiatria. Uno straordinario esempio di gruppo multidisciplinare al lavoro nelle culture subalterne italiane fu quello che riunì, tra gli altri, Ernesto de Martino, Diego Carpitella, Giovanni Jervis, Raffaello Misiti in Lucania, Puglia, Emilia: le loro osservazioni e riflessioni forniscono tutt'ora all'etnopsichiatria materiali di prim'ordine.


Questo ambito di ricerca ha prodotto un ricchissimo archivio di pratiche e saperi espressi da popoli viventi nel presente o nel passato, nello sforzo di assorbire e trasformare il disordine eccessivo e la sofferenza che i disturbi psichici portano a individui e gruppi.


Negli stessi anni altre esperienze finirono per completare l'ambito dell'etnopsichiatria dotandolo del terzo, fondamentale motore: quello applicativo.


Per ammodernare il manicomio che i coloni avevano costruito a Dakar, in Senegal, per ospitare innanzi tutto soldati e funzionari colpiti dalla "follia dei tropici", poi le élite locali, fu scelto un ufficiale medico francese, psichiatra e psicanalista, Henri Collomb, vicino all'Etnologia parigina. Collomb si installò col suo gruppo di lavoro costituito da medici, psicologi, antropologi ed etnologi all'Ospedale di Fann, vicino a Dakar. Subito prese a frequentare, e conoscere, le grandi figure degli iniziati locali: cacciatori, guaritori, leader religiosi. Cacciatore lui stesso e non di prede facili (cacciava il coccodrillo alla maniera africana, immerso nell'acqua fino alla cintola), pilota d'aereo, medico, chirurgo, militare, aveva tutti i requisiti per essere accettato come un iniziato e un leader delle comunità tradizionali locali. Potè così raccogliere ed elaborare, utilizzando le diverse competenze dei suoi collaboratori, molti elementi dei saper-fare locali; per introdurli immediatamente nel lavoro della cura.


I guaritori entrarono nell'Ospedale, Collomb entrò nelle case dei guaritori; all'ombra di un albero nel cortile dell'Ospedale venne riprodotto il modo tradizionale di discutere le storie dei pazienti, facendo della parola pubblica (che implica parenti, compaesani, passanti, tecnici vari) il fulcro della presa in carico. Collomb favorì la creazione di villaggi terapeutici rurali dove guaritori e infermieri, sotto la supervisione di medici e psichiatri, curavano pazienti nel contesto linguistico e culturale d'origine; e riversò poi i risultati del suo lavoro in una serie di scritti e nella rivista, Psychopathologie africane, tuttora esistente. Cercò, poco prima di morire, di esportare l'esperienza in Francia, scontrandosi però con l'apparato psichiatrico francese e con le difficoltà insite in un simile progetto. Quasi nello stesso tempo, in Nigeria, un altro psichiatra, Thomas A. Lambo, formato in Inghilterra alla nascente psichiatria di comunità, iniziava esperienze analoghe.


I lavori di Collomb e Lambo avviarono una serie di riflessioni sull'esportabilità in altre regioni del globo della psichiatria nata in Occidente e sul necessario dialogo coi leader tradizionali e i guaritori locali; e motivarono diversi interessanti tentativi di articolare la medicina che si richiama alla Scienza coi sistemi locali, indigeni di cura. Tra questi un'esperienza italiana, il Centro di Medicina Tradizionale della Quinta Regione in Mali, realizzato negli anni '80 dalla Cooperazione e dall'Istituto di Psicologia del Cnr, è tuttora attiva.


Qualche anno ancora, e la cosiddetta "emergenza migratoria" avrebbe trasferito in Europa la questione del come far coesistere culture e saper-fare diversi; e di conseguenza, di quali forme e compiti dare a servizi sanitari e scuole in società multiculturali. L'altro, l'esotico, era ormai in carne e ossa qui, dentro casa.


Proprio da questo punto prende l'avvio il lavoro di Tobie Nathan a Parigi. Lui stesso immigrato (figlio di un profumiere ebreo del Cairo), allievo di Devereux, psicologo e psicanalista, Nathan rappresenta forse meglio di chiunque altro il passaggio dalla storia dell'etnopsichiatria al suo possibile futuro. Nel Centre Devereux (Università di Parigi VIII) da lui creato, viene rivoluzionato il setting, il contesto dell'aiuto psicologico alle famiglie migranti. Non c'è più lo psicologo o lo psichiatra seduto dietro la scrivania o su una poltrona, con di fronte l'altro, il portatore di disturbi, ma anche di una cultura da decifrare e includere in categorie conosciute. Nathan sceglie di non "strappare le radici", di non estirpare il paziente dalla sua cultura e dal gruppo naturale di appartenenza (quello concreto, reale: la famiglia, gli amici, i compaesani; e quello immateriale, ma altrettanto reale, degli antenati, delle entità invisibili raccontate nei miti, nelle narrazioni di fondazione) per includerlo in quelli che lui chiama i "gruppi statistici" di pazienti: i depressi, gli anoressici, i borderline. Da questa scelta, e da quella di prendere alla lettera (per metterli alla prova sperimentandoli) i saper-fare dei guaritori tradizionali, deriva l'originalità, e la fecondità, del lavoro nathaniano.


Non si tratta più qui di tradurre altre lingue nel saper-fare occidentale: ma di inventare un nuovo saper-fare, obbligati dalla sfida che i nuovi arrivati incarnano, latori di altre espressioni del dolore, di altri rimedi, di altre concezioni dell'uomo e del mondo. Nathan costruisce subito un dispositivo multiplo, dove vari assistenti e terapeuti (alcuni in funzione di "mediatori culturali", provenienti dalle stesse aree culturali dei pazienti; altri formati alle tecniche terapeutiche locali e a quelle occidentali: guaritori ma anche psicologi) e il paziente (ma col suo gruppo di famigliari e amici) si confrontano su teorie, pratiche e vie di uscita, finendo per trovarne una, la più adatta (forse) a quel gruppo in quella situazione. Da questo alambicco, da questa ricchissima sorgente di informazioni e sperimentazione Nathan distilla i primi elementi di un saper-fare che si basa sulla competenza del paziente, considerato l'unico esperto del suo problema (ogni guarigione, dice Nathan, è un'autoguarigione); sulle conoscenze del mediatore culturale, spesso un terapeuta della stessa lingua, che ne amplifica e completa gli enunciati; sul saper-fare del terapeuta principale che conduce gli incontri e che utilizza una piattaforma teorica e metodologica, costruita ed esplicita, che dovrebbe essere valida in ogni contesto culturale.


Nel costruire questo saper-fare, questa base metodologica tendenzialmente valida per ogni essere umano, Nathan è costretto a confrontarsi con l'universalismo della cultura occidentale, e in particolare con la pretesa che i modelli psicologici, psicoanalitici, psichiatrici frutto di una specifica storia rappresentino delle realtà biologiche, naturali; e quindi valgano per qualunque umano. Nathan sostiene invece che l'essere umano generico è un'astrazione inesistente; gli esseri umani reali sono necessariamente specifici, locali, culturalmente determinati.


In questo lavoro di verifica e costruzione (che si basa, lo ripeto, non solo sulle acquisizioni etno-antropo-psicologiche, ma sul lavoro clinico quotidiano e su ciò che lì viene provato e che da lì emerge) cadono per primi gli assunti freudiani: l'universalità dell'Edipo, la neutralità del terapeuta; e poi, a seguire, le pretese verità universali delle varie psicologie e psichiatrie.


Naturalmente, l'enfasi sull'appartenenza culturale degli individui, cioè, in termini meno "politicamente corretti", sulla loro "identità etnica", ha attirato su Tobie Nathan, che per primo si proclama "ebreo-ebreo" (in contrapposizione agli ebrei a metà, gli "ebrei-cristiani"), ogni sorta di anatema. Altri gli riprovano un uso troppo disinvolto dei dati etno-antropologici, che piegherebbe troppo ai bisogni delle sue argomentazioni. Resta il fatto che Nathan è forse la prima figura dell'etnopsichiatria ad aver assunto consapevolmente la sfida implicita nel futuro della disciplina: la costruzione di un saper-fare nuovo, essenzialmente multidisciplinare e multiculturale, che nasca dal vedere dall'alto, e in parallelo, i vari sistemi culturali e quindi anche i vari modelli antropologici e saper-fare terapeutici; tra i quali, ma sullo stesso livello gerarchico, anche quello prodotto in Occidente. Un saper-fare cioè nello stesso tempo universalmente umano e capace di rispettare, e contenere, differenze e specificità; in grado di servire anche da mediazione nei conflitti tra gli inevitabili, ma anche auspicabili perché portatori di diversità, localismi. Una sfida, appunto, per il futuro.


Nell'ultimo decennio è proprio in Occidente che si sono moltiplicati i luoghi (consultori, insegnamenti, pubblicazioni, seminari) dell'etnopsichiatria. Essa è stata invocata per lenire ansie e sofferenze portate dai flussi migratori; per decifrare psicopatologie e cure di recente apparizione; per rimediare ai disastri di guerre che originano in Occidente ma devastano altri paesi e popoli; per trovare spiegazioni a conflitti o fatti altrimenti incomprensibili.


La diffusione dell'etnopsichiatria può servire ad allargare gli orizzonti degli operatori, ad approntare servizi davvero multiculturali, a dare forza alla costruzione di nuovi saper-fare che si traducano immediatamente in interventi preventivi e terapeutici efficaci e tendenzialmente meta-culturali, così necessari alle società che si vanno disegnando.


Tuttavia in questa diffusione (sostenuta da istituzioni e amministrazioni pubbliche) l'etnopsichiatria può rischiare di venire del tutto assorbita dalla gestione dei problemi correnti; di essere cioè arruolata da una delle parti impegnate nelle aree calde dei conflitti tra popoli perdendo la sua libertà, e con essa la sua preziosa funzione critica e provocatoria. Si ridurrebbe allora a un modo per dotare la psichiatria di sensibilità "culturale", di un'interfaccia universale che le permetta di essere più convincente e spendibile ovunque; o per celare (psicologizzando e esotizzando) dinamiche di potere e sopraffazione così frequenti nelle relazioni tra gruppi umani e tra culture; dinamiche che interrogano più la giustizia sociale che la medicina o la psicologia.


Su questo crinale, dove ancora niente è definitivamente giocato, si muove l'etnopsichiatria attuale, galassia di eterogenei interessi, figure, esperienze, strumenti, oggetti, bisogni insieme divergenti e convergenti. Le sue caratteristiche rispecchiano le qualità del suo principale oggetto: la varietà e unità delle culture e il variare e l'invariare, nei tempi e nei luoghi, delle dinamiche che animano gruppi e individui: gli umani.

Il manifesto-15 AGOSTO 2001



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