Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. La posizione del curante
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -

La posizione del curante

Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)





Cercheremo di fare passi avanti e riflettere sulla posizione di coloro che accolgono, che cercano di capire, valutare e curare. Sono posizioni diverse evidentemente; si può essere medico, assistente sociale, infermiera, mediatore e così via, le formazioni sono diverse. Ma c' è un punto in comune fra tutte queste posizioni: è la posizione interiore di quello che definirò «il terapeuta». Uso il termine terapeuta nel senso più ampio del termine: la figura che ha il compito di accogliere e curare; intenderò con questo termine tutti coloro che partecipano a questo dispositivo di accoglienza.

Dicevo che c'è un punto in comune fra tutti i terapeuti, che è quello della posizione interiore. Lavorare su questa posizione è un esercizio difficile, perché riguarda qualche cosa di intimo, per cui si prova anche pudore, si tratta del centro focale del nostro atteggiamento, ciò che ci consente di adattarci o meno, che ci permette di inventare o meno nuovi modi di agire, nuove immagini, nuove strategie, persino nuove professioni, perché con lo sviluppo della clinica transculturale vediamo che si sviluppano figure nuove. C’è per esempio il mediatore culturale, ma c'è anche il mediatore presso la scuola, nei tribunali, nelle associazioni che si occupano di bambini. Sono nuove professioni che non esistevano in passato, rese necessarie da questo bisogno di adattamento. Vedremo che il lavoro di queste nuove figure professionali, per quanto riguarda il nostro campo di intervento, si basa molto sul collegamento fra il sistema sanitario e la società.

Un grande principio della clinica transculturale è proprio quello di avere reintrodotto le cure nella società, di aver consentito alla società e al sistema sanitario di trovare un punto di contatto. In passato, nel settore sanitario o in quello scolastico, ci si era concentrati sulla tecnica e si era talmente tecnici che non si riusciva a creare un collegamento: da una parte c'era la società e dall'altra parte il mondo sanitario, non c'era interazione possibile. Con la clinica transculturale, questa interazione è diventata possibile.

Vorrei dire su questa questione quanto segue: la nostra capacità di fare innovazioni, di sviluppare il sistema di cure dipende dalla nostra posizione interiore ed è proprio per questo motivo che vorrei concentrare la nostra attenzione su questo aspetto. Comincerò da questo punto, poi cercherò di presentarvi delle situazioni cliniche.

Non bisogna dimenticare, a livello di posizione interiore, che bisognerà considerare sempre due livelli.

Il primo livello riguarda la nostra reazione nei confronti delle rappresentazioni culturali dell'altro, il suo modo di comportarsi e di presentarsi, la sua lingua, il suo modo di esprimersi e relazionarsi. Cercheremo di esaminare queste reazioni. In questo livello bisogna includere sia il concetto di origine culturale sia il concetto di «alterità». Io definisco alterità questa idea di estraneità, di qualcosa che non condividiamo spontaneamente, immediatamente, questo concetto di differenza, nel senso filosofico del termine, questa sensazione di avere qualcosa in comune ma anche qualcosa di diverso, di essere portatori di differenze che provocano reazioni diverse.

Questo livello è inizialmente il più evidente, quello in cui l'antropologia è assolutamente necessaria, e ci è necessaria in due modi. Il primo è la conoscenza culturale, l’interesse per le rappresentazioni dell'altro, un interesse intellettuale in questo caso, che cerca di capire, di conoscere, di impregnarsi delle rappresentazioni culturali dell'altro. Il secondo è quello che ci porta a permettere all’altro di esprimersi. Il problema è consentire al paziente di mostrare la sua alterità. Si verificano delle reazioni così forti di fronte alle situazioni di alterità, che la maggior parte degli immigrati cerca di minimizzare l'alterità che viene percepita dagli altri. Questo riguarda soprattutto il personale curante, perché siamo noi ad autorizzare i pazienti a essere se stessi.

Non si tratta semplicemente di dare il permesso, non si tratta di dire: «Mi racconti quello che vuole perché sarà senz'altro esotico», non è una questione di tolleranza, ma di qualcosa di più profondo, che dipende dalla posizione interiore del terapeuta in primo luogo, e anche dai nostri dispositivi tecnici.

Le condizioni in cui si svolge un colloquio sono importanti: per esempio nei colloqui a due curante/paziente ci sono alcune cose che non si possono dire, perché in certe situazioni ci si rende conto che il paziente si sente protetto solo da un gruppo, che sia garante di quello che viene detto e che consenta al terapeuta di superare determinati limiti e di avvicinarsi al paziente in modo terapeutico, senza che questo avvicinamento venga percepito come eccessivo o addirittura travisato in chiave sessuale. Ci sono elementi che dipendono dall'accettazione profonda dell'alterità e insieme elementi che dipendono dalla tecnica che viene adottata, perché alcuni elementi tecnici possono impedire che alcuni pensieri vengano espressi.

Porto un esempio che ci può aiutare a capire gli aspetti tecnici. Nella maggior parte delle società non si fanno domande del tipo: «Come va a casa? Il bambino dorme da solo o nel letto dei genitori?»

Domande che noi siamo abituati a porre in un colloquio medico. Quando ho studiato medicina, ho imparato a fare queste domande, si tratta di un vero e proprio interrogatorio come in tribunale; quindi, quando un paziente francese va a consultare un medico, sa che certe domande gli verranno poste. Quando, invece, un paziente dell'Africa Occidentale si reca da un guaritore non si aspetta che gli vengano poste delle domande. Quando la stessa persona si reca dallo psicologo o da un medico immagina che la tecnica sarà diversa, ma che ci siano comunque dei limiti. Quindi, se si comincia a fare domande sull'intimità della casa, si possono creare dei problemi. A volte le risposte dei pazienti
non sono vere risposte, ma adattamenti a quello che si aspettano di dover dire; in queste situazioni non si riesce a dare origine a un vero e proprio racconto.

Vi parlerò dell’esempio di una donna il cui bambino aveva difficoltà a separarsi da lei e aveva grandi difficoltà a scuola da anni, ogni volta che si parlava della mamma piangeva, si rifiutava di imparare e di lavorare in classe e faceva passi indietro. La mamma aveva già consultato diversi pediatri, psicologi, medici, infine la famiglia si era rivolta al nostro Centro di consultazione.

La mamma mi ha detto: «È insopportabile, continuano a farmi domande su che cosa succede tra me e mio figlio in casa, come se avessi una relazione (incestuosa) con mio figlio». È chiaro che reagiva ai sottintesi delle domande che le venivano poste sul suo rapporto con il figlio, era una situazione che persisteva da anni, nessuno capiva che cosa stesse succedendo e quindi venivano poste domande che indagavano chiaramente sulla natura del suo rapporto con il bambino e lei ne coglieva i non detti, in quanto non si trattava di domande cui era abituata.

Ralph Linton, un antropologo americano, diceva che la cultura è come l' acqua per il pesce: il pesce vive nell' acqua e non è consapevole del fatto di essere circondato dall' acqua. Noi siamo come un pesce nella nostra cultura e non ce ne rendiamo conto, vediamo invece la cultura degli altri. Anche i pazienti si rendono conto dei non detti della nostra cultura. Questa mamma soffriva per le difficoltà del figlio e mi ha detto una cosa che mi ha colpito tantissimo: «Penso che se non riesco a separarmi dal bambino è perché siamo male assortiti. La questione non è che siamo troppo vicini, ma che non lo siamo abbastanza».

Alla fine, grazie alla strada che lei ci ha indicato, siamo riusciti a trovare una soluzione, non si trattava di separare a ogni costo la madre dal bambino, ma di riunirli veramente, solo se veramente uniti i due potevano separarsi. Quello che voglio dire con questo esempio è che ci sono domande che entrano nell' intimità delle persone e che non rientrano nelle loro modalità di interazione, è una cosa che dobbiamo imparare.

Che cosa fare, dunque? Durante la consultazione forniamo delle rappresentazioni e dei racconti, non poniamo delle domande. A questo proposito, abbiamo contato il tempo in cui i terapeuti parlano ai pazienti e l' evoluzione di questo tempo durante una psicoterapia. All' inizio, quando ho visto i risultati, ero un po' sconcertata, ma poi ho capito che andava bene. All' inizio della terapia il terapeuta parla molto più del paziente; poi, con il passare del tempo, il terapeuta parla sempre meno e poi non parla praticamente più. Ma all' inizio si parla molto, perché si fanno poche domande e quindi si forniscono quelle che noi chiamiamo delle rappresentazioni. I coterapeuti propongono idee e racconti multipli. Ci possono essere sei, sette o otto interventi diversi, dipende dalle consultazioni e i pazienti reagiscono agli interventi. Io stessa reagisco agli interventi. Il co-terapeuta fa un intervento che si rivolge a me e il paziente lo sente, e reagisce a quanto ha detto. Quindi, c' è un' interazione molto complessa, diversi livelli di rappresentazione, a ogni modo si parla molto e si fanno poche domande.

È completamente diverso rispetto alla tecnica tradizionale, in cui o non si parla o si fanno delle domande, comunque si parla molto poco, a monosillabi. Quando si dice che questa tecnica prende in considerazione il piano culturale, questo riguarda anche le reazioni a quanto viene effettivamente detto, se una donna dice: «Mia figlia è una strega», questo deve essere interpretato sul piano culturale, sarebbe sbagliato interpretarlo come un sintomo di  aggressività. Non si tratta di un' aggressività nei confronti della bambina in questo caso, ma di qualcosa di diverso. Già c' è molto da interpretare da un punto di vista culturale in quello che la donna dice: che cosa vuole dire strega? Vuole dire alterità, qualcuno che sta nell' al di là, nel mondo della morte. Una co-terapeuta può intervenire su quest' affermazione, la sua interpretazione culturale potrebbe essere: «Questa bambina ha un rapporto con coloro che sono morti male, la nonna materna, e quindi c' è una sensazione di estraneità». Questa è un' interpretazione culturale, un racconto culturale, e ci dice abbastanza su questo livello senza entrare nel livello psicologico e psicanalitico. È necessario fare un grande sforzo per restare a questo livello, perché noi abbiamo tutti una formazione psicanalitica, almeno io e la mia équipe abbiamo prima una formazione psicanalitica e poi una formazione transculturale e siamo formati e deformati dalla psicanalisi, che è il nostro punto di riferimento. Dobbiamo quindi fare molti sforzi per non interpretare in chiave psicoanalitica queste rappresentazioni. Anche altri che lavorano con strumenti diversi dalla psicanalisi incontrano comunque le stesse difficoltà.

Ci sono elementi culturali di questo tipo che ci creano delle illusioni, cioè abbiamo la sensazione di capirli con la nostra griglia di lettura. C' è questa affermazione che mi sembra giusta, non mi ricordo più chi ne sia l’autore: «Attenzione agli elementi culturali, bisogna evitare di ridurli a ciò che è consueto, e questa è una specie di reazione naturale davanti all' ignoto»; perché il culturale è l' ignoto e davanti all' ignoto tendiamo a riportare il tutto a ciò che conosciamo. È una tendenza che tutti abbiamo e che è abbastanza preoccupante, ci sorprende che una donna possa dire che la sua bambina è una strega, allora interpretiamo questa frase con un' altra griglia di lettura, oppure vi diamo la nostra
interpretazione. Dobbiamo accettare che l'ignoto resti tale e che appartenga al paziente. Naturalmente ci si può lavorare, però non si deve riportare il tutto alla propria griglia di lettura.

Dal punto di vista culturale c'è questo elemento, ma la cosa più difficile sul piano culturale è permettere alla persona davanti a noi di presentarsi come un essere culturale, quindi permettergli di affermare con un certo orgoglio: «Ecco, per me la situazione è questa, io vengo da questo posto, ne sono orgogliosa e poi penso che…» Questa posizione del «Io penso che…» deve essere favorita, perché, da un punto di vista culturale, si riscontra una ricchezza incredibile in questi pazienti, quando si consente loro di esprimersi.

C'è anche un altro elemento supplementare: la possibilità di esprimersi dà loro una posizione di dignità di fronte al personale curante, perché chi chiede aiuto trova sempre difficile farlo. La posizione del curante è più facile di quella di chi chiede di essere curato: è una posizione di forza. A volte dico che il paziente si trova in una situazione umiliante, è un po' forte come termine, ma forse è appropriato. I miei pazienti hanno solitamente fatto un percorso migratorio, hanno fatto degli sforzi per essere qui, per sopravvivere, per occuparsi dei figli in situazioni difficili, e poi un bel giorno sono costretti a chiedere aiuto e non sanno neanche come farlo, ma devono farlo perché hanno bisogno di aiuto psicologico, materiale, medico.

Ricordo un paziente bambara del Mali, che mi spiegava che nel suo villaggio i ragazzi adolescenti venivano iniziati per diventare adulti; da un certo numero di anni, però, alcuni giovani emigravano in Francia, invece di seguire questi rituali di iniziazione. C'era una specie di equivalenza iniziatica: emigrare in Francia era altrettanto difficile che superare i riti iniziatici. Il mio paziente pensava che emigrare fosse ancora più difficile. Per lui era stato così, era stato molto duro affrontare questo periodo, riuscire a costruire qualcosa in Francia e lui ne era orgoglioso. Quando si è trovato a vivere in condizioni pessime, in grande difficoltà, con un bambino piccolo che stava male e una moglie che non poteva occuparsene, era grande la sua sensazione di fallimento e umiliazione.

Il fatto di consentire al paziente di esprimersi, di dire le cose con le sue parole, vuole dire anche ridargli la stima di se stesso, questo è particolarmente necessario in situazione migratoria. Questo è il primo livello: il livello culturale. Il secondo livello che non dobbiamo dimenticare nella nostra analisi è quello psicologico. La posizione interiore del terapeuta si basa sia su elementi psicologici che fanno parte di lui sia sulle reazioni agli atteggiamenti e alle rappresentazioni del paziente. Non bisogna dimenticare ambedue queste componenti, ed è questa la difficoltà del lavoro transculturale. C’è chi minimizza l'aspetto culturale e chi minimizza la questione psicologica e soggettiva. Per questo sottolineo l'importanza del complementarismo: non si può trasformare il culturale in psicologico o viceversa. Per fare questo è necessario avere un metodo, il metodo complementarista, che è semplice da illustrare, più difficile da applicare.

Il metodo complementarista richiede di indagare il livello culturale e il livello individuale con strumenti diversi: il livello culturale con strumenti antropologici e il livello psicologico con strumenti psicologici. Non è necessario che sia un’unica persona a indagare entrambi i livelli. Se non sono antropologa, non posso indagare il livello culturale, posso però acquisire un certo numero di conoscenze antropologiche attraverso letture, libri, pubblicazioni, viaggi ecc. e forse non sarà sufficiente, ma questa formazione mi darà un po' di informazioni supplementari. Se sono mediatore, medico o psicologo e provengo dalla stessa cultura del paziente, potrò avere accesso a un certo numero di elementi culturali. Ma le informazioni non sono sufficienti per capire il livello culturale, sono necessarie ma non sufficienti.

Ci sono due tappe fondamentali, a mio avviso: la prima è rappresentata dal fatto di riflettere sulle questioni culturali con altre persone e questa riflessione deve utilizzare la metodologia antropologica, che è l’unico modo di indagare questo livello. La comprensione non è naturale, non si può capire la situazione così improvvisamente, si possono avere delle intuizioni, certamente, ma è comunque necessario condurre una riflessione di tipo antropologico. Inoltre è necessario essere in più soggetti, non si può riflettere a livello culturale da soli. Tutto ciò che si può fare da soli è informarsi, acquisire degli elementi, gli ingredienti della ricetta, ma per elaborare questi ingredienti, è necessario fare un lavoro collettivo di riflessione, di ricerca, di domande, di raffronto, anche di critica dei propri elementi culturali. È sempre molto faticoso giudicare in modo critico i propri elementi culturali, bisogna creare una sorta di distanza fra sé e le proprie rappresentazioni per poterle valutare. Non è semplice, ecco perché ritengo che sia necessario un lavoro di gruppo.



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