Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. La codifica culturale
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -



 I principi della clinica transculturale
La codifica culturale


Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)





2) La codifica culturale - Il secondo punto riguarda la codifica culturale, la codifica culturale di tutti, quindi la nostra e quella dei pazienti, di qualsiasi origine. Si tende a parlare di decodifica culturale solo per chi ha una cultura diversa dalla nostra, come se noi non utilizzassimo degli strumenti di codifica e questo non è corretto. La codifica culturale passa innanzitutto attraverso la lingua. Che cos’è la lingua? La lingua è un sistema di categorie che ci consente di leggere il mondo. Le categorie non sono sempre corrispondenti tra una lingua e l’altra. Il francese e l' italiano, che appartengono alla stessa famiglia, avranno alcune categorie molto vicine, ma non coincidenti a tutti i livelli. Io che sono di origine spagnola, me ne rendo conto bene quando parlo in francese, chiunque conosca bene un’altra lingua sa che è così. Non bisogna sovrapporre le categorie che non sono sovrapponibili; questo accade quando si ha una conoscenza superficiale. Io ho studiato per alcuni anni il bambara che è una lingua del Mali, ma a volte esistono delle categorie, delle parole che rappresentano delle cose che non riesco a pensare, non riesco a capire a che cosa corrispondano. È necessario passare attraverso delle immagini per capire quale sia effettivamente la categoria.


Lavoro molto in Messico con gli indiani e presso questa popolazione ci sono circa trenta parole diverse per dire «mais». Dunque, quando io mi ritrovo davanti a trenta parole per definire quella che per me è un’unica cosa, questo mi risulta incomprensibile. Un altro esempio, sempre nella lingua bambara, è l’espressione dusu kasi, utilizzata dalle donne per parlare di un certo tipo di tristezza e che è difficile da tradurre. Le donne spiegano che è una tristezza che è nel contempo una sensazione di pesantezza che si può provare in determinate circostanze. Diciamo allora che il termine tristezza viene suddiviso in varie categorie e anche noi ne abbiamo diverse.

Quello che voglio sottolineare è che le nostre parole limitano la nostra rappresentazione del mondo e del sé e che traduciamo quello che sentiamo attraverso parole che rappresentano delle categorie. Quindi, già c’è una codifica culturale che vale per tutti, ossia la lingua. Poi, al di là della lingua, che è un piccolo segmento della codifica culturale, il più evidente, esistono dei livelli ben più complessi di codifica culturale. C’è la codifica che potremmo definire esistenziale, il nostro modo di rappresentare il mondo.

Noi, nel mondo occidentale, separiamo molto il corpo dallo spirito. Possiamo definirlo come vogliamo: anima, funzionamento psichico, dipende dalla prospettiva in cui lo consideriamo, ma in ogni caso separiamo il corpo e il funzionamento psichico. Cerchiamo di considerare delle interazioni, ma l’idea è che si tratti comunque di due cose separate, due categorie. Nella maggior parte delle società da cui provengono i miei pazienti, invece, il corpo e lo spirito sono esattamente la stessa cosa; e non solo, questo concetto incorpora anche la famiglia, quindi il gruppo sociale.

Per esempio, ieri ho visto un uomo turco venuto in ospedale per un’ulcera allo stomaco che mi ha
detto: «Sono contento di vederla, ho veramente voglia di parlare con qualcuno. Io so perché ho un’ulcera: vogliono fare del male alla mia famiglia». Possiamo immaginare dei collegamenti, d’accordo, ma quello che quest’uomo mi ha spiegato, è che a partire dal momento in cui si verifica un disordine all’interno del proprio corpo, oppure all’interno del proprio ambiente, questo colpirà il lato più debole; generalmente colpirà il bambino, il neonato, chi non ha difese perché è appena arrivato, la donna incinta o la partoriente, perché sono più vulnerabili e fragili. Nella sua famiglia, appunto, non c’erano bambini o donne incinte ed è stato colpito l’uomo allo stomaco. Quindi ci sono una serie di fattori, secondo lui, alla base della sua ulcera.

In questo caso, ci sono vari elementi da considerare. Perché mi è stata inviata questa persona?

L’uomo rifiutava qualsiasi cura, la gastroscopia o trattamenti di altro tipo, perché la prima volta che si era sottoposto alla gastroscopia era stato male e non voleva rifare l’esperienza, sosteneva che il problema era altrove. I medici naturalmente non volevano dimetterlo così e mi hanno proposto di negoziare con lui una terapia o un intervento per risolvere la situazione. Quello che era importante di fatto era riconoscere che vi era un nesso in quello che il signore diceva: «C’è un disordine, ecco perché io sto male». Che si trattasse di un disordine all’interno o all’esterno del corpo non aveva importanza, l’uomo sentiva che si era rotta l’armonia tra lui, il suo io interiore, la sua famiglia e il suo gruppo. I livelli possono essere diversi, in ogni caso c’è un’idea di interazione armoniosa che, se si rompe, può portare al manifestarsi di disordini a cui è necessario dare un senso. L’uomo era molto coraggioso perché cercava di dare un senso, di capire. Non accettava la risposta medica, perché questa non riconosceva il suo bisogno di senso, è stato possibile trovare una soluzione al
suo caso, quando si è riconosciuto che la sua ricerca di senso e la necessità di trattamento non erano per forza due esigenze contraddittorie, non c’era rivalità tra questi due livelli. Quindi, quello che è importante è l’integrazione, come dicevo prima, integrazione che diventa possibile con un approccio e in un’ottica complementarista, ossia rispettando ciò che pensa il paziente senza rinunciare ad altre posizioni quando è necessario e sempre creando un’interazione tra questi due livelli.

C’è un altro esempio importante: la questione dei morti e dei vivi. In tutta l’Africa Occidentale c’è una rappresentazione ciclica della vita. Il bambino proviene dal mondo degli antenati, quando nasce ed è molto piccolo non è un essere umano, è molto vicino agli antenati, crescendo si umanizza, si avvicina agli esseri umani adulti. Per diventare veramente adulto, il bambino deve passare attraverso un rito di iniziazione; diventato adulto comincia a invecchiare, muore e ritorna a essere un antenato. Il mondo degli antenati darà origine ancora una volta a dei bambini sotto forma di reincarnazione. Questa rappresentazione della vita è ciclica, la morte e la vita sono unite, mescolate tra di loro. Ciò spiega il motivo per cui, se qualcuno muore durante la gravidanza di una donna della famiglia, si può dare il suo nome al bambino. Non sempre è un bene per i bambini, ma è un modo per proteggerli, identificandoli con il ritorno dell’antenato.

A volte le reazioni dei genitori nei reparti di neonatologia, quando i bambini sono prematuri o nascono con dei problemi o muoiono, non sono capite dal personale medico. La reazione di fronte alla morte è molto culturale e così il modo di esprimere la propria sofferenza e di superare il lutto.

A causa di questa diversità nella rappresentazione della morte e della vita, ci sono madri che si lamentano di non essere state sostenute. Sapevano che il bambino sarebbe morto perché aveva una malformazione grave e avrebbero dovuto preparare la morte del bambino affinché morisse bene. Se il bambino muore bene, si avrà meno paura per il futuro del bambino: è morto bene quindi è ritornato al mondo degli antenati, ha tutto quello che ci vuole. Ma se è morto male si è molto preoccupati perché ci si chiede che cosa gli accadrà e se ritornerà. Anche noi per vivere il lutto, dobbiamo dirci che siamo capaci di superare la morte di nostro figlio.

Bisogna quindi preparare il bambino, preparare se stessi, ed è molto difficile. Una mamma mi spiegava che avrebbe voluto preparare la morte del bambino e quando diceva al personale dell’ospedale: «Devo fare qualcosa, dei rituali, lasciatemi fare qualcosa…» il personale la rassicurava dicendo che il bambino non sarebbe morto. La madre, però, sapeva che sarebbe morto e ora si rimproverava di non aver fatto quello che avrebbe dovuto per il suo bambino. Non poter accompagnare suo figlio nella morte era stato molto duro per lei, e il reparto non aveva fatto niente per permettere che questo accadesse.

Questo è soltanto un esempio per dirvi che questa codifica culturale ha delle conseguenze molto concrete. Sono moltissimi gli esempi che potrei farvi, essenziale è essere sensibili a questa problematica, aver voglia di imparare e avere la capacità di decentrarsi, ovvero, di uscire dal proprio centro, di spostarlo, accettando che anche gli altri possano essere al centro. Nel caso della questione dei rituali per il bambino che sta per morire, bisogna essere in grado di pensare che ci sono diversi modi di prepararsi alla morte, di superare la morte e continuare a
vivere. È estremamente grave per qualsiasi donna perdere il bambino che ha appena messo al mondo.

Per comprendere che ci sono modi diversi per affrontare questo dolore, è necessaria un’operazione di decentramento, si deve lasciare il proprio centro e indirizzarsi verso il centro dell’altro. Questo è difficile perché provoca una vertigine, non si può più contare infatti su i propri punti di riferimento.

Le rappresentazioni ci aiutano a trovare dei punti di riferimento, a costruire un quadro, a sapere come comportarci nei confronti di una mamma che sta per perdere un bambino. Penso che se capitasse a me, la presenza di qualcuno che mi stia vicino e che mi parli sarebbe importante. Ma non è detto che ciò che considero importante per me, lo sia anche per una donna con una cultura diversa dalla mia. Quindi, come comportarsi, come negoziare il nostro intervento in questa situazione? In un certo senso bisogna essere molto modesti, senza però pensare di non sapere nulla, bisogna cercare di prendere in considerazione quello che siamo noi e quello che la madre è. Questo la madre deve poterlo dire, deve essere autorizzata a esprimerlo.

Parleremo in questi due giorni di come creare le condizioni perché la madre si esprima, ma credo che il primo passo sia quello di «iniziarsi» a queste rappresentazioni culturali, cominciare a capirle. Si deve accettare che esiste una codifica culturale e che la madre ha delle rappresentazioni da questo punto di vista, forse non può esprimerle, forse sono un po’ nascoste e bisogna aiutarla a ritrovarle. L’immigrazione cancella spesso questi elementi, ma queste rappresentazioni ci sono e, dato che ci sono, bisogna assumere che ci siano per principio.

Se si continua un percorso di formazione, bisogna cominciare a conoscere alcune di queste rappresentazioni attraverso l’antropologia, perché ci consente di decentrarci, ci si meraviglierà allora della grande ricchezza con cui si verrà in contatto, e non sarà solo un’esperienza intellettuale, andrà molto al di là. Questo ci aiuterà a uscire dal nostro centro e a fare scaturire e dare inizio a dei racconti.

Se sappiamo che è molto importante per la donna che abbiamo di fronte preparare la morte del bambino, le diremo: «Sappiamo che è molto importante per lei preparare la morte del bambino e quindi come possiamo aiutarla? Come possiamo sostenerla?» Questo non significa che noi dobbiamo concretamente fare qualcosa per questo. Ma potremo consentire che queste cose avvengano all’esterno e noi occuparci dell’interno; fare in modo, per esempio, che la morte del bambino non impedisca alla donna di continuare a vivere, di occuparsi dei suoi bambini e di averne altri in futuro, se lo desidera.

Un altro esempio di codifica culturale riguarda la nostra percezione del corpo, quello che sentiamo infatti è molto culturale. C’è una questione di gusto, di sensazioni, di percezioni, di modo in cui si decodificano le percezioni e le sensazioni. C’è anche il fatto che quando siamo bambini, nell’interazione madre-bambino c’è una codifica culturale che si trasmette direttamente al corpo, attraverso il modo con cui ci si occupa del bambino, per esempio lo si culla, lo si tiene in braccio o non lo si fa. Nell’Africa Occidentale, per esempio, i bambini sono molto stimolati prima dello svezzamento e camminano molto presto. Le donne maghrebine massaggiano molto il corpo dei bambini, dei maschietti in particolare, dicono che fanno ginnastica, ma soprattutto che modellano il corpo del bambino. Tutto questo non avviene attraverso le parole, è uno stadio pre-verbale che definirà il nostro rapporto con il mondo, lo modellerà. Se mi osservo parlare, mi rendo conto che continuo a muovere le mani. E perché muovo le mani? Perché penso che questo sia il mio modo di parlare, nessuno mi ha mai detto che devo muovere le mani per poter parlare, ma per poterlo fare utilizzo le mani. Si tratta quindi di cose che sono assolutamente implicite e che fanno in modo che il corpo dei bambini sia modellato da un punto di vista culturale.

C’è un termine che ha coniato Margaret Mead, antropologa americana che ha studiato molto il modo in cui la società trasmette i propri valori attraverso il trattamento del corpo del neonato: il termine di inculturazione. È un apprendimento, una codifica dei gusti dei neonati che comincia ancora prima della nascita: il gusto, l’udito, l’odorato, tutti i sensi. All’inizio il rapporto è molto corporeo, poi si passa all’educazione, si insegna al bambino a utilizzare il vasino, poi c’è l’approccio alla sessualità ecc. Si tratta di trasmettere la cultura nel corpo, come un seme fatto crescere nel corpo del neonato.

In una situazione di migrazione, l’inculturazione diventa più difficile, vedremo che saranno presi in considerazione poli diversi, ma questo non è grave, se ciascun polo è ben strutturato. Quando il bambino è piccolo, il polo più importante è il polo materno, quindi il polo d' origine, poi quando i bambini crescono, prenderanno altri elementi dal mondo esterno, ma nei primissimi momenti di vita tutto passa attraverso il corpo e la lingua materna, e quindi la codifica è trasmessa dalla madre.

Ci sono tre livelli di codifica culturale fondamentali, che si devono prendere sempre in considerazione per capire, accogliere e curare.



a) Il primo livello è quello dell'essere: l'essere del bambino, della madre, del padre, dei genitori, cioè delle rappresentazioni di ciò che un bambino è, di che cosa ha bisogno, di che cosa è una madre e di come si deve comportare. Tra le società europee e le società maghrebine o dell'Africa Nera le maggiori differenze sono relative alla figura del padre più che della madre. Le istituzioni mediche o sociali in generale hanno difficoltà a riconoscere la posizione del padre. Si vorrebbe che il padre non fosse un padre patriarcale, ma un padre come quello che c’è qui. È paradossale: se vogliamo che il padre svolga un ruolo di padre, non possiamo dirgli noi come deve farlo. È difficile in quanto siamo delle istituzioni molto femminili, abbiamo delle reazione molto specifiche da questo punto di vista. La negoziazione del ruolo dell'uomo e della donna è strettamente culturale e mette in gioco la nostra identità personale. A ogni modo, il primo livello è quello dell'essere (della madre, del neonato, del padre) che dobbiamo ricostruire e cercare di conoscere.

b) Il secondo livello è quello del senso. Che senso ha quanto mi sta accadendo? Perché mi ammalo? Perché non riesco ad avere bambini? Perché i miei bambini si ammalano? Perché ho avuto un parto cesareo? Tutte queste domande hanno risposte culturali e individuali. Ma non bisogna dimenticare che il senso culturale resta sempre il primo. Vedremo che i parti cesarei sono difficili, complicati per donne che non sono state preparate a questo evento e che pensano che un bambino nato in questo modo non sia nato completamente. Un parto cesareo è difficile per tutti ma se, oltretutto, non se ne comprende il senso culturale, l’angoscia è ancora maggiore e, conseguentemente, maggiore l'esigenza di cercare di costruire un senso. Se da una parte si preferisce avere un bambino nato senza complicazioni e in buona salute, e dall’altra si pensa che il bambino nato in questo modo non sia vivo e che questo significhi non essere una buona madre, non è possibile trovare un punto di incontro. Un punto di incontro è possibile solo se l’équipe prende in considerazione la gravità del parto cesareo dal punto di vista della donna, in quanto interrompe il ciclo della vita, il modo in cui si pensa che i bambini si umanizzino. Se è necessario si potrà fare un taglio cesareo, ma a condizione che l’équipe si impegni ad accompagnare, a sostenere la madre in una specie di equivalente del rituale della buona nascita. Il bambino dovrà essere seguito in modo particolare, si potrà chiedere alla comunità di dirci o di fare cose particolari per questo bambino che non è nato bene. Essenziale è riconoscere che il bambino non è nato bene e non cercare di convincere la donna del contrario, perché per lei non si tratta di una buona nascita. Per me e per la maggior parte delle donne lo è, ma per lei no. Quindi, bisogna partire da questo punto di vista e questo non impedirà di svolgere un atto tecnico, quindi di eseguire un parto cesareo, anzi lo favorirà. Bisogna cercare il senso e su questo bisogna essere intransigenti, continuare a cercare affinché il senso esista e in genere è plurale, molteplice. Non è un senso solo, sono vari sensi; è tutto un processo.

c) Il terzo livello è quello del fare. Lo vedremo attraverso casi clinici, quindi un po' ne abbiamo già parlato. Si tratta di che cosa si aspetta la donna. Per esempio nel caso del parto cesareo, lei non si aspetta di avere un parto cesareo. Si aspetta, per esempio, che si canti una canzone, che si dicano delle parole che permettono al bambino di uscire dalla pancia; bisogna negoziare a livello di operato, a livello del fare. Bisogna negoziare una strategia prendendo in considerazione la cultura e anche l'individuo, perché la cultura passa attraverso gli individui. Anche se si appartiene alla stessa cultura, ci si può appropriare di elementi diversi, soprattutto nel percorso migratorio.Ma comunque bisogna sapere che la gravidanza è un momento in cui gli elementi culturali, che pensavamo nascosti, riemergono.

Durante le mie consultazioni, per esempio, ho visto una donna dell'Africa Centrale che lavora come psichiatra per bambini in Francia. In seguito al parto ha avuto una depressione grave e si è ricordata di cose che sua madre le aveva detto che sarebbe stato necessario fare dopo la nascita del primo bambino, quali non mangiare determinati frutti, interpretare i sogni ecc., tutte le istruzioni necessarie per la famiglia. Questa donna viveva in Francia, era un'intellettuale, molto intelligente, specializzata in psichiatria infantile, con idee precise, e che non riteneva che quanto le aveva trasmesso sua madre facesse parte della sua cultura. Come sapete, però, la gravidanza è un momento particolare, si parla di «trasparenza psichica», ci sono elementi psichici che non sono così evidenti durante la vita normale e che riemergono durante la gravidanza, elementi dell'infanzia, trasmessi a un piano psicologico profondo. Lo stesso vale anche per il piano culturale. Vi è una «trasparenza culturale»: elementi culturali che parevano secondari riprendono il sopravvento e con essi si deve negoziare. Con alcuni di questi elementi transgenerazionali è necessario negoziare per diventare madre.

Quindi, si pone la questione del fare e non è una questione di ceto sociale, non è una questione di livello intellettuale, è praticamente un momento di passaggio.



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