Marie Rose Moro - LA CLINICA TRANSCULTURALE - L’approccio transculturale ed il metodo complementarista
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000


L’approccio transculturale ed il metodo complementarista


Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)







Cure a geometria variabile
Alcune famiglie non si aspettano assolutamente di instaurare un dialogo, vengono per chiederci qualche cosa e non per stabilire un rapporto psicoterapeutico, quindi cominciamo con il discutere con loro per capire che cosa ciascuno di noi vuole raggiungere e come possiamo riuscirci. Inizialmente si tratta di concordare una strategia di quello che si farà e in seguito di utilizzare i vari strumenti a disposizione: le consultazioni urgenti, individuali, in piccoli gruppi o gruppi più ampi, con uno o più terapeuti. Ci sono appunto problemi che è importante trattare tramite le parole, altri tramite il corpo, il gioco o lo psicodramma. Le terapie, comunque, sono molto diverse tra di loro e noi sentiamo la necessità di adattarci. Per questo parlo di dispositivo a geometria variabile, in quanto non proponiamo a tutte la famiglie la stessa cosa, la stessa soluzione.

Voglio aggiungere un’ultima parola sull’esperienza di Bobigny. Seguiamo i casi anche a domicilio, è piuttosto raro, ma lo facciamo nelle situazioni in cui sono coinvolte mamme e bambini piccoli fino a tre anni. Quando ci sono madri in difficoltà e per un motivo o per un altro queste donne non possono recarsi da noi, oppure vengono una volta sola e poi non ritornano, chiediamo l'autorizzazione di recarci a casa loro. Naturalmente, non ci presentiamo a casa all’improvviso, ma ne parliamo e lo negoziamo con il padre e con tutti, sappiamo infatti che la casa è il luogo dell'intimità della famiglia, l'universo in cui si svolge la vita dei pazienti. Sul piano culturale, quindi, è molto importante quando ci si reca a casa di qualcuno, rispettare la casa; nelle situazioni in cui il padre svolge un ruolo importante in ambito famigliare, come nelle famiglie maghrebine, non entriamo in casa quando il padre non c'è, senza aver preventivamente negoziato la possibilità di andarci e aver ottenuto l'autorizzazione esplicita dei vari «garanti» di questo domicilio.

Per svolgere questo lavoro, che è un lavoro complesso con molteplici sfaccettature, abbiamo un'équipe pluridisciplinare di medici, psicologi, antropologi, assistenti sociali, infermieri, educatori, mediatori. Oltre a queste molteplici professionalità, possiamo contare su un personale poliglotta, in quanto utilizziamo diverse lingue durante le consultazioni e disponiamo di un'équipe di persone che lavorano con noi. L'anno scorso abbiamo utilizzato più di trenta lingue diverse, questo proprio per dimostrarvi come ci troviamo in una situazione di grande pluralità culturale.

L’approccio transculturale

Nel nostro ospedale universitario si è sviluppato per la prima volta l’approccio che in Francia chiamiamo «etnopsichiatrico», io preferisco parlare di approccio transculturale, in quanto non si tratta semplicemente di psichiatria. Il fondatore dell'etnopsichiatria è uno psicanalista, George Devereux, che è partito dalla psicanalisi, adesso però utilizziamo delle pratiche transculturali e quindi, a mio avviso, è più opportuno parlare di clinica transculturale. In Francia, in altri paesi europei e in Canada, l’etnopsicanalisi si è particolarmente sviluppata. Non mi soffermerò troppo su questo termine e su queste teorie, ma vorrei comunque presentarvi quali sono i suoi fondamenti teorici, la sua genesi e i suoi metodi.

Inizialmente, come ho detto, si è partiti dalla etnopsicanalisi. George Devereux basandosi da una parte sull'evoluzione dell'antropologia, e in particolare sui lavori di Lévi-Strauss, e dall'altra sull'evoluzione della psicanalisi, ha concluso che per capire e curare pazienti di un'altra cultura o di una cultura diversa da quella del terapeuta, era necessario utilizzare sia l'antropologia che la psicanalisi. In che cosa consiste l’originalità di questo pensiero? Si tratta dell’utilizzo complementarista della psicanalisi e dell’antropologia.

Il metodo complementarista

Il termine ''complementarista'' significa che dobbiamo utilizzare insieme ma non simultaneamente sia l’antropologia, per decodificare il senso collettivo (l’esterno), sia la psicanalisi, per decodificare l’interno (il contenuto). I due livelli non devono essere mescolati tra di loro: quanto appartiene alla cultura deve rimanere nella propria logica culturale e non essere trasformato in qualcosa di interno da interpretare con la psicanalisi. Lo stesso discorso vale anche per quello che è interno che non deve essere trasformato in qualcosa di culturale. Provo a chiarirvi le cose con un esempio. Una mamma del Mali dà alla luce un bimbo, è triste, piange, fa fatica a prendersi cura del bambino, non riesce ad allattarlo; ne parla con la madre o con le donne anziane della sua casa. Queste le dicono che il suo malessere è dovuto al fatto che quando ha partorito è successo qualcosa di anormale, è stata posseduta da un ''djinn'', che è un essere che, secondo la sua cultura, entra all’interno della persona nei momenti di grande fragilità, come il parto. Questo è un materiale culturale: l’essere posseduti da un djinn, non può essere oggetto né di giudizio né d’interpretazione. Quindi non si può leggere la convinzione di questa donna di essere posseduta da un djinn come una manifestazione di tipo isterico, come si vede ancora in diverse pubblicazioni. Vuol dire semplicemente, e in questo c’è di ausilio l’antropologia, che la donna si trova in una situazione tale per cui sente di poter essere posseduta, che c’è qualche cosa che fa in modo che il suo corpo non sia più intero e un cambiamento sia stato operato dall’interno. L’antropologia ci insegna tantissime cose sulla logica culturale della possessione, ma non ci insegna niente su quello che accade all’interno di una data persona in quel momento. Il fatto di accettare di decodificare il sintomo, quello che viene detto, da un punto di vista culturale, offre al terapeuta il quadro della paziente, della sua famiglia, delle sue conoscenze. Uno dei punti fondamentali è quello di riconoscere che la famiglia attraverso la sua lingua e la sua cultura possiede delle conoscenze e ciò permette di operare su di esse. Capendo che cosa significa la possessione, si ha accesso a tutta una serie di logiche che spiegano quanto è accaduto durante la gravidanza e il parto; questo è utile a tutti: psicologi, psichiatri ma anche ostetriche e personale dei consultori pediatrici. Si tratta del vissuto della gravidanza. Questo è il livello antropologico.

Ma come utilizzare questi dati in modo complementarista? Se il terapeuta cerca di capire e condividere il livello culturale che fa parte del quadro generale, una volta che questo livello è riconosciuto, può passare a un altro discorso: il discorso dell’interno. Per esempio, dopo che la donna racconta i consigli della madre, quali riposarsi o mettersi in costante rapporto con il bambino, c’è anche un altro discorso da prendere in esame: che impatto ha tutto questo su di lei? Se il terapeuta riconosce la donna da un punto di vista culturale, forse quello che lei dirà in seguito sarà più personale e appariranno altri elementi su cui si potrà applicare una griglia di lettura. Questa griglia di lettura era originariamente psicanalitica. Io ho una formazione psicanalitica, continuo a utilizzare questa lettura, ma ritengo che questo materiale individuale possa essere utilizzato in altri modi, con altre griglie di lettura.

Si può disporre dei propri strumenti clinici e utilizzare un approccio complementarista quando si è specialisti d’ecografia o ginecologi, infermieri o assistenti sociali. Il riconoscimento del livello culturale, la sospensione del giudizio di fronte alle rappresentazioni culturali del paziente non ci aiutano solo a costruire un’alleanza, ma a capire i bisogni del paziente e a curarlo. Sul piano metodologico, la base di queste pratiche transculturali è psicanalitica, ma si sono integrati altri strumenti, mantenendo un approccio metodologico complementarista, che è contemporaneamente un metodo e una posizione interiore di colui che ascolta.

Un grande merito del metodo complementarista è l’aver compreso che, a partire dal momento in cui si riconosce l’identità dell’altro e si rispettano le regole culturali, si favoriscono il dialogo, lo scambio, l’alleanza; in questo modo aumenta l’efficacia dell’intervento.

Vi illustrerò il complementarismo attraverso situazioni cliniche, l’idea di fondo è proprio quella di due livelli che non si confondono, ma interagiscono, per cui favorendo uno si favorisce anche l’altro. Dal momento in cui può iniziare a raccontare, a parlare in prima persona, la paziente si baserà anche su rappresentazioni culturali; ed è estremamente interessante vedere che, nel momento in cui si riconoscono le questioni culturali e le si accettano, la paziente si trasforma, trova più facile esprimersi e parlare del proprio passato. Emerge allora chiaramente che le società tradizionali dei nostri pazienti favoriscono la parola, l’espressione, il sogno. Donne considerate analfabete o prive di educazione mostrano così di avere accesso alla loro interiorità, al loro sé profondo, rompono quel silenzio di cui si parlava prima e che sembrava essere un loro tratto culturale.


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