Marie Rose Moro - LA CLINICA TRANSCULTURALE - Presentazione
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Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)


SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE


Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano - settembre 2000


 Presentazione


È la prima volta che vengo in Italia non come turista, ma per lavoro e sono favorevolmente colpita dall’interesse che riscontro per questi temi, molto importanti per tutte le nazioni europee. La società europea sta infatti diventando una società multiculturale, anche se alcune volte abbiamo dei problemi a riconoscerlo. Anche in Francia il dibattito su questa questione è ancora aperto e, anche se siamo stati pionieri nell' adattare i nostri dispositivi alla nuova realtà, continuiamo a porci degli interrogativi.

Penso che questo dibattito, che attraversa la società, riguardi anche la terapia, le cure, la medicina, la psicologia; è quindi molto importante per noi partecipare in modo collettivo a inventare e valutare delle nuove modalità di lavoro con le famiglie migranti. Credo che ogni volta che sorgono nuovi campi, nuovi ambiti di intervento, come quello in cui ci troviamo, sia importante che la clinica e la ricerca siano fortemente connesse  a loro.

Forse vi sembrerà un modo troppo personale, ma vorrei cominciare a raccontarvi come sono giunta a occuparmi di questo problema.


Sono figlia di immigrati, la Francia è un paese multiculturale e sono cresciuta in una comunità di immigrati, ho studiato medicina, poi filosofia e quindi sono diventata psichiatra, dopo una formazione in psicanalisi e psichiatria. Quando ho cominciato a lavorare negli ospedali, da giovane medico, ero molto stupita nel vedere che gli immigrati si rivolgevano con molta difficoltà agli ospedali di Parigi in cui lavoravo e, quando lo facevano, si trovavano spesso in situazioni di sofferenza psicologica estremamente grave. Ho lavorato per diversi anni in un reparto maternità come psichiatra di collegamento, ovvero mi recavo nei reparti per visitare donne e bambini. Incontravo donne che si trovavano in situazioni di grande angoscia, che non si erano mai rivolte ai servizi sanitari, non erano mai state visitate durante la gravidanza e avevano, comprensibilmente, enormi problemi nel comunicare con l’ospedale e ad accettare di farsi ricoverare. Mi veniva detto che queste donne non volevano parlare, e in effetti i loro racconti erano piuttosto scarni, e che non era possibile alcun percorso terapeutico con loro perché imputavano il loro disagio solo alle condizioni sociali esterne. Si diceva che arrivavano sempre in ritardo e tutta una serie di cose che non corrispondevano per niente a quanto io sapevo della comunità immigrata in cui ero cresciuta.


Avevo incominciato inoltre a viaggiare spesso e a collaborare con Medici senza Frontiere. Avevo lavorato in Pakistan e in Africa e personalmente sapevo che queste donne avevano tante cose da dire, perché me l'avevano mostrato e detto e avevo vissuto con loro: conoscenze straordinarie sul corpo, sulla gravidanza, sulla cura del neonato e del bambino prematuro, conoscenze che si trasmettevano da una generazione all' altra. Lo scarto tra la ricchezza culturale di queste donne nel paese di origine e le difficoltà da loro incontrate in situazione di immigrazione mi sembrava enorme.


Mi metteva inoltre molto a disagio l’impressione che si dicesse a queste donne: «Assomigliateci, fate come noi, cercate di avvicinarvi a noi e allora vi cureremo come si deve». Avevo come la sensazione che ci fosse una difficoltà a pensare che queste donne potessero essere diverse, ma comunque umane. Ero convinta che il prezzo da pagare per essere curate non doveva essere: «Assomigliami, sii come me, chiedimi quello che posso darti e quello che posso capire». Trovavo quindi che ci fosse una specie di violenza, nella cura della maternità in primo luogo, ma in generale nella cura di tutte le malattie psicopatologiche e in medicina generale.


In tutti i campi in cui si curino esseri umani in tutta la loro complessità è sicuramente importante essere molto tecnici, fare progressi, valutare le strategie, ma è necessario anche instaurare una relazione che rispetti sia il paziente sia l' operatore, fare in modo che si realizzi un incontro. Questo è possibile solo se l' identità di ogni protagonista viene riconosciuta. Se la distanza che si instaura è eccessiva, se non si pone sufficientemente attenzione all’asimmetria che naturalmente c’è tra chi dà e chi riceve la cura, non si verifica l’incontro. Negare il fatto che esiste una differenza, culturale innanzitutto, comporta il non riconoscere che questa asimmetria esiste, perché il curante è in una posizione di maggiore potere e conoscenza rispetto al paziente, per la funzione che svolge e per le relazioni di cui gode.


Ero colpita in prima persona da questo problema, in quanto io stessa sentivo di provenire da un «altrove» e percepivo che questo incontro non avveniva e che il servizio non riusciva a offrire risposte adeguate. Sentivo l’esigenza di trovare dei modi nuovi per fare incontrare questi mondi diversi. È con questa esigenza che sono giunta a Bobigny, un ospedale universitario nella periferia nord di Parigi, che dagli anni Settanta aveva già cominciato a svolgere un percorso di riflessione e sperimentazione nella cura alle famiglie immigrate.


Attualmente sono direttrice del Dipartimento e responsabile di Psichiatria per i bambini e gli adolescenti e le loro famiglie. Abbiamo un servizio di consultazione per le famiglie, in cui abbiamo sviluppato la pratica transculturale e offriamo quindi consultazioni di tipo transculturale. Siamo comunque aperti a tutti e si rivolgono a noi anche soggetti francesi molto svantaggiati, in quanto operiamo in una periferia di Parigi disagiata da un punto di vista socio-economico. Insisto sul fatto che il nostro servizio è aperto a tutti, in quanto ritengo che l'esperienza di lavoro transculturale, che abbiamo maturato, ha modificato il nostro approccio anche nei confronti delle madri e dei bambini francesi, della popolazione in generale. Non dobbiamo infatti pensare che il nostro sforzo di adeguarci alle esigenze delle famiglie migranti sia privo di effetti sull’insieme del sistema di cura, del sistema sanitario in generale. Con queste pratiche apprendiamo infatti nuovi elementi che sono fondamentali per la cura di tutti i soggetti che a noi si rivolgono.


Cerchiamo di accogliere chiunque si presenti, francese o immigrato. Si rivolgono a noi anche francesi che provengono dall’isola de La Réunion, dalle Antille, da questi territori oltremare francesi, che hanno la nazionalità francese, ma rappresentazioni culturali ben diverse. Accogliamo tutti, persone di tutte le età, e con loro negoziamo, e sottolineo questa parola, negoziamo, tramite un lavoro di discussione e di definizione comune, il percorso e le strategie di cura. A eccezione delle situazioni di urgenza o di pronto soccorso, c'è sempre un periodo di trattativa, di negoziazione in cui si definisce quello che si fa insieme, tenendo in considerazione le aspettative delle famiglie. Abbiamo sviluppato un dispositivo che definirò "a geometria variabile".


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