Il prezzo del velo - La guerra dell’Islam contro le donne - Giuliana Sgrena
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Il prezzo del velo

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Il prezzo del velo

La guerra dell’Islam contro le donne


Estratto

Da “tagliatori di teste” a difensori dei diritti umani. Non delle donne, naturalmente.

Siamo a Sarajevo, Europa, un tempo capitale multiculturale e multietnica dei Balcani, diventata durante la guerra dei primi anni novanta terreno di conquista per i mujahidin, i combattenti di credo wahabita seguaci della rigida interpretazione saudita dell’islam.

La guerra è finita, il futuro resta incerto, ma gli ex combattenti non considerano concluso il loro primo compito: reislamizzare la Bosnia, porta d’accesso all’Occidente. Non vanno più in giro a mostrare le teste mozzate dei nemici, ma invocano il rispetto dei diritti umani, anche perché dopo l’11 settembre per gli Stati Uniti – che li avevano sponsorizzati in precedenza – sono diventati “nemici combattenti”, possibili “cellule dormienti” di al Qaeda. Sei tra loro, algerini, sono già finiti a Guantánamo.

A Sarajevo protestano contro la decisione del governo bosniaco – presa sotto la pressione degli Usa – di espellere circa quattrocento stranieri provenienti da paesi musulmani, che avevano avuto la cittadinanza quando per ottenerla bastava essere islamico e imbracciare un fucile a fianco dei fratelli bosniaci. Alcuni sono già fuggiti nei paesi vicini per continuare il loro jihad, altri non hanno alcuna intenzione di andarsene.

Perché dovrebbero abbandonare le roccaforti di Zenica, Travnik e soprattutto Bocinja dove hanno imposto il loro modello di vita “rigoroso” vietando l’alcol, il fumo e la musica, e introducendo l’obbligo delle preghiere, della barba per gli uomini e del velo per le donne? Se, durante la ronda per il paese, i “guardiani della virtù” vedevano una donna con una gonna di lunghezza non regolamentare glielo facevano notare a suon di sciabolate. Se non portava il velo la rapavano a zero. E sparavano addosso a chi osava fare il bagno in costume. Ma dopo l’attentato alle Torri il clima è cambiato.
“Errori dei fratelli” li definisce ora Abu Hamza, siriano, già capo della comunità di Bocinja, seicento abitanti tra cui un centinaio di stranieri, che in pubblico gioca il ruolo del “moderato” in contrasto con la sua immagine inquietante: barba lunga e folta, camicione largo e nero a coprire il corpo tozzo. Adesso invoca il rispetto dei diritti umani, e per farlo porta in piazza, davanti al Parlamento, le donne “convertite” al wahabismo, tutte completamente coperte di veli neri, come mai si era visto in Bosnia. Loro, le donne, non si fanno vedere in volto ma fanno sentire la loro voce: “Che fine faremo se i nostri mariti saranno deportati, e che fine faranno i nostri figli?”. I rischi esistono, soprattutto per Abu Hamza che, oltre alla revoca della cittadinanza, è stato anche iscritto dalle autorità bosniache nella lista delle quindici persone ritenute “più pericolose per l’ordine pubblico”, proprio per la sua capacità di mobilitare tutti gli estremisti bosniaci.

 



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