RUANDA: A DIECI ANNI DAL GENOCIDIO - La settimana della memoria
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RUANDA: A DIECI ANNI DAL GENOCIDIO

La settimana della memoria.


KIGALI - Emma è un fiume in piena. Vuole raccontare di quei terribili 100 giorni che nel 1994 sconvolsero la sua vita e quella di milioni di ruandesi. Nel paese del silenzio e del riserbo in cui tutti evitano di ricordare, Emma parla e si commuove. Ricorda la paura e l’orrore vissuti da lei e dai 36 bambini dell’orfanotrofio di Remera a Kigali durante la fuga fino a Nyanza, 90 chilometri da Kigali. “Nella notte c’erano stati terribili scontri e avevano colpito anche l’orfanotrofio. Davanti al cancello la strada era piena di cadaveri. E la morte si sentiva sempre più vicina,” ricorda la donna. “Avevamo tre macchine e con quelle all’alba siamo partiti tutti: i bambini, don Vito e io”. Il viaggio difficile e lento, ostacolato da una barriera umana in cerca di scampo dalla follia omicida dilagante nella capitale, diventa drammatico al primo posto di blocco. “Ci fermarono e fecero uscire dalla macchina i tre ragazzi tutsi del gruppo. Due di loro vennero portati via. Don Vito intervenne ma gli uomini armati lo minacciarono. Poi chiamarono due ragazzini di 11-12 anni che erano presenti al posto di blocco e gli ordinarono di uccidere Bernard. Lui terrorizzato chiese aiuto a me e a don Vito ma nessuno poteva fare più niente per salvarlo. Tutti i bambini assistettero all’esecuzione del loro amico sedicenne per mano di altri bambini.”

In Ruanda il massacro dei 100 giorni, che prese il via il 7 aprile ‘94, poche ore dopo l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvenal Habiarimana, si compì con ogni mezzo e ovunque. Per strada, negli ospedali, nelle chiese, nelle scuole. A 10 anni di distanza i volti terrorizzati dei cadaveri non decomposti, i loro corpi mutilati che tentano di difendersi dai colpi di machete sono ancora esposti nei luoghi della memoria sparsi in tutto il paese. Nella chiesa di Nyamata, 20 chilometri a sud di Kigali, si continua a lavare le ossa ritrovate qualche giorno fa nell’ultima fossa comune. “Migliaia di persone nell’aprile del 1994 si rifugiarono in questa chiesa. Qui la gente si sentiva al sicuro”, dice Ruema Epimaque, guardiano del memoriale. “Mai questa chiesa era stata profanata dalle armi. Si erano salvati quelli scampati ai massacri del ‘59, del ‘63, del ‘73 e del ‘92,” ricorda il guardiano. Il 10 aprile del ’94 invece gli Interahamwe non ebbero esitazioni. In cinque giorni uccisero 10mila persone ammassate nella chiesa e nell’abitazione del prete.

Con la presa del potere da parte del Fronte Patriottico Ruandese cessarono i massacri su vasta scala, mentre iniziò la grande fuga di oltre due milioni di Hutu verso i paesi confinanti, principalmente nell’allora Zaire e in Tanzania. Ne seguì quella che in molti hanno definito “la peggior crisi umanitaria nella storia delle Nazioni Unite”. Per l’UNHCR fu una delle prove più difficili. In Zaire i campi di dimensioni enormi, situati in una zona vulcanica già sovraffollata erano controllati da elementi armati che condizionavano l’utilizzo e la gestione degli aiuti. L’allora Alto Commissario Sadako Ogata più volte lanciò accorati appelli al Consiglio di Sicurezza e ai paesi donatori che però si dimostrarono indecisi e lasciarono alle agenzie umanitarie la gestione di questa complessa crisi.

Rwanda.JPG (298623 bytes)Mentre il Ruanda celebra solennemente la settimana della memoria, per non dimenticare e non far dimenticare al mondo gli oltre 800mila tutsi e hutu moderati morti del genocidio del ‘94, ai confini del paese si continua a ritornare. Sono ex combattenti con le proprie famiglie, sono civili nascosti per anni nello sconfinato territorio della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e anche bambini soldato, nati e cresciuti fuori del loro paese. Ritornano anche dall’Uganda e da altri cinque paesi africani – Zambia, Malawi, Zimbabwe, Namibia, Mozambico - con cui l’UNHCR ha firmato accordi per il rimpatrio volontario dei circa 70mila ruandesi che si stima siano ancora fuori del paese.

Nel centro di transito di Nkamira, nel nord del Ruanda al confine con la RDC dall’inizio dell’anno sono passate circa 2.300 persone. “In questo centro arrivano i convogli con i rimpatriati. Qui registriamo i civili, inclusi i familiari degli ex combattenti”, spiega Janvier Njiruyukinga, assistente alla protezione dell’UNHCR a Giyseni. “ Poi vengono distribuiti aiuti alimentari per tre mesi, oltre a teloni di plastica, utensili da cucina, coperte e taniche. Da qui i rimpatriati sono trasferiti entro 48 ore nei luoghi di provenienza”. Per gli ex combattenti invece l’iter è più lungo. Vengono inseriti nel centro di smobilitazione di Mutobo dove devono seguire il programma di reintegrazione alla vita civile. Per due mesi studiano 53 materie tra cui storia ruandese, il genocidio e il suo impatto sulla regione, i tribunali gacaca, e la riconciliazione nazionale.

Negli ultimi anni la parola d’ordine del governo ruandese è stata “riconciliazione”. Nelle scuole, nei corsi di formazione per funzionari pubblici, nei villaggi in cui ritornano i rimpatriati si “insegna” riconciliazione. Anche i tribunali gacaca sono stati istituiti come misura di riconciliazione. Per far esprimere le vittime, incoraggiare con grandi sconti di pene il pentimento di chi ha commesso crimini e, settimana dopo settimana, per avvicinare vittime e carnefici. Le distinzioni etniche sono state messe al bando dai documenti ufficiali, mentre il governo punta a promuovere il concetto di “Banyaruanda”, il popolo del Ruanda. “È difficile dire se la convivenza attuale è vera riconciliazione o è un modo per superare il trauma,” dice Kalunga Lutato, Rappresentante dell’UNHCR in Ruanda, “Quello che è sicuro è che il Governo ha posto la riconciliazione tra i suoi obbiettivi prioritari e le sue politiche insistono sull’unità nazionale.”

Madlene Mukashutene oggi ha tre figli ed è appena tornata in Ruanda. Nel 1994 Madlene era caporale di unità mista nelle Forze Armate Ruandesi. Scappò anche lei a Goma, Zaire orientale, ma quando, due anni dopo, i campi vennero attaccati, fuggì all’interno dello Zaire. “Quanto è successo in Ruanda – dice Madlene - non è augurabile a nessun paese. Oggi non abbiamo più scelta: dobbiamo imparare a convivere affinché si arrivi ad essere un solo popolo”.

Di fronte alla chiesa di Nyamata hanno messo una scritta che dice: “Se tu ti fossi conosciuto, se tu mi avessi conosciuto, tu non mi avresti ucciso.” Un grido di dolore per quello che si sarebbe potuto evitare e un monito da non dimenticare nel Ruanda della riconciliazione.

Laura Boldrini, portavoce UNHCR


http://www.unhcr.it/rwanda_page.html



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