Considerazioni sul lavoro di mediazione culturale svolto all'interno del Ser.T. del Carcere di Marassi di Genova
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Carcere e Mediazione Culturale


Giovanni Del Puente <g.delpue@unige.it>, Spensieri Simone <sifraga@hotmail.com>
Dipartimento di Scienze Psichiatriche, Università degli Studi di Genova


Il lavoro di mediazione culturale svolto all'interno del Ser.T. del Carcere di Marassi di Genova offre lo spunto per alcune considerazioni in ragione della particolarità del contesto, il carcere appunto, in cui ci troviamo ad operare, che attribuisce all'immigrato tossicodipendente, nostro paziente, un'ulteriore "etichetta d'identità", oltre a quelle che già lo definiscono: quella di detenuto. I nostri utenti, infatti, intercettano contemporaneamente più dimensioni della sofferenza (tossicodipendenza e carcere, ma anche, a monte, migrazione - alterità - estraneità), che entrano in una spirale in cui questi tratti giocano un ruolo di potenziamento reciproco. Il fatto comunque che l'immagine dell'immigrato contenga in sé, in modo spesso così preponderante, la dimensione della sofferenza è, tuttavia, anche espressione della difficoltà che la società ospitante manifesta in quell'incontro. Troppo spesso l'immigrazione è sinonimo di malessere, fisico e psicologico, così che la definizione dell'identità dell'immigrato contiene già in sé i nomi della nostalgia, della solitudine e della depressione come elementi non solo partecipanti ma addirittura costitutivi di questa identità. In realtà, tuttavia, sappiamo bene che l'immigrato porta con sé attributi positivi: una ricchezza culturale diversa, la speranza di un miglioramento, il desiderio di scoperta , la ricerca di una nuova possibilità; porta con sé l'esperienza di una terra e di un paese molto più grande di lui. La modalità dell'incontro tra ciò che la nuova società e la nuova cultura possono e sanno offrire con ciò che l'immigrato porta con sè, potrà aprire uno spiraglio alla dimensione della "crisi": crisi come momento di passaggio che non sempre riesce a risolversi in una riorganizzazione adattiva reciproca ma che, anzi, può risultare assai destabilizzante e confusiva. Di fronte a questa sofferenza l'immigrato si trova molto spesso privato degli strumenti che la cultura di origine gli può procurare per offrire una forma alla sua sofferenza, per poi fornirle un significato, una comprensione, ed infine (potremmo dire a questo punto ormai automaticamente) una terapia.


Questi parametri, che funzionano come autentiche coordinate entro cui progettare la propria esistenza tentando di garantirle una traiettoria, vengono perduti. Non sempre, anzi quasi mai, sono subito pronti e disponibili gli strumenti equivalenti forniti dalla nuova cultura.


Questi ultimi per poter essere adeguatamente utilizzati richiedono un lungo periodo di adattamento, spesso contaminato dal rischio di cadere in una situazione di ulteriore ed ancor più scompaginante confusione. L'emigrato può infatti trovarsi pericolosamente in bilico tra i vecchi ed i nuovi valori, privando però entrambi di un significato veramente convincente in cui riuscire effettivamente ad identificarsi e facendoli cadere in una china di svilimento e di inflazione.


I vecchi risultano svincolati dal loro contesto originario, non partecipano più del nutriente humus costituito da tutto l'insieme dei fattori culturali che li hanno prodotti e che continuano a mantenerli integri in tutta la loro forza rappresentativa; i nuovi, d'altra parte, spesso in chiara contrapposizione con quelli vecchi, hanno bisogno di un periodo di tempo adeguato per poter essere assimilati e condivisi in modo autentico. Viene perduta nell'interagire tra le singole componenti la condivisione, fonte di riconoscimento e di vicendevole garanzia.


Sembra pertanto che la cultura attenda momenti esistenziali così drammatici e delicati per rivendicare con vigore tutta la propria importanza e per pretendere di essere ascoltata come interlocutore ineliminabile di ogni progetto terapeutico.


Riferirsi alla cultura come unico elemento qualificante una persona diviene, tuttavia, un meccanismo di osservazione estremamente miope, che rischia di isterilire la capacità di cogliere appieno l'autentica dimensione della complessità di quella persona. La cultura infatti viene metabolizzata ed interpretata in maniera specifica, particolare ed inimitabile da ogni individuo, interagendo in modo inestricabile con la sua storia e con tutto quello che la sua storia contiene.


Dimenticare questo dato indurrebbe a parlare della cultura come di una vernice che colora in modo indifferenziato ed anonimo tutte le persone, rendendole quindi tutte (troppo) simili le une alle altre.


Il rischio di assegnare ad una persona un'identità strettamente legata ad una precisa cultura è alto, non solo perché renderebbe apparentemente più semplice gestire il paziente secondo parametri fissati e rigidi, ma anche perché potrebbe essere un atteggiamento avvalorato da una facile e semplicistica "politica" che, proprio favorendo questo approccio a ciò che è "etnico", ha in realtà imprigionato individui appartenenti a culture diverse entro schemi rigidamente descritti, confinandoli quindi in spazi e tempi immodificabili. "L'eccesso di relativismo può condurre a un mantenimento forzato delle differenze" ci ammonisce M. Aime (‘99) sottolineando una riflessione di Amselle (‘99):"tra i diritti delle minoranze c'è anche quello di rinunciare alla loro cultura, e i dominanti non dovrebbero avere la possibilità di scegliere, al loro posto, il tipo di cultura o di lingua che reputano più conveniente". A proposito delle società "antiche o esotiche" ancora Amselle (‘99) ci invita allora ad un atteggiamento di maggior disponibilità più adatto a società che definisce "insiemi fluidi che, contrariamente a ciò che si pensa, lasciano spazio alla novità e all'invenzione". L'identità di una persona è quindi il risultato di una continua quanto imprevedibile "negoziazione" che rende ogni individuo "unico" rispetto sia alla cultura d'origine sia a quelle che via via incontra nel corso della sua vita.


L'incontro con una realtà così complessa, che si articola e si sviluppa secondo connessioni spesso talmente diverse tra loro da risultare addirittura in contrasto, richiede un intervento che a propria volta si disponga su piani diversi. Ciascuna delle componenti di questa realtà ha bisogno di ricevere una specifica risposta e quindi, implicitamente, di essere riconosciuta come elemento dotato di una propria identità. "Un individuo agisce come intestatario di vari ruoli e li porta tutti su di sé anche quando, a seconda delle circostanze, uno di questi si trova ad essere determinante" (Amselle, ‘99). Questi pazienti, ancor più perchè inseriti in un contesto fortemente depersonalizzante, lasciano affiorare in modo confuso e disordinato le diverse problematiche correlate alle tante dimensioni esistenziali che li caratterizzano.


Per poter parlare a realtà così diverse occorrono persone che possiedano la capacità di interagire con tutte queste parti.Ma a loro si richiede il compito ancora più complesso di mantenere costantemente, nel corso del loro operare, la consapevolezza dell'unitarietà del tutto, dell'identità intera della persona-paziente. Sono obbligati a muoversi in una prospettiva tridimensionale, dove ogni singolo elemento acquista significato solo rimanendo in connessione con tutti gli altri; il campo poi entro cui tutto si situa è rappresentato dalla dimensione culturale.


A questo proposito il ricorso alla teoria del campo, soprattutto nella definizione e nell'applicazione concreta che ne propone Correale, diventa suggestiva di ulteriori approfondimenti, permettendoci intanto di cogliere con maggior precisione proprio la dimensione culturale dei nostri pazienti. La cultura infatti, pur apparendo nella forma di qualcosa di impalpabile e che non viene specificato a parole, permea in maniera assoluta tutta la vita di una persona.


Tornando alle caratteristiche dell'approccio al paziente extracomunitario carcerato vorremmo sviluppare due punti:


1) l'intero gruppo dei "terapeuti" deve funzionare come un mediatore culturale;


2) il mediatore culturale vero e proprio è costretto a muoversi all'interno di una condizione di forte ambivalenza.


1) Rivolto a cogliere tutte le componenti della vita e dell'identità del paziente, il gruppo dei terapeuti (inteso, nella situazione specifica, sia come l'insieme delle persone che assolvono funzioni terapeutiche - psichiatra, psicologo, mediatore culturale, assistente sociale, infermiere - sia come l'insieme dei rapporti che intervengono tra queste figure e che hanno una ricaduta sul paziente) deve essere ben attento a non mortificare aspetti che potrebbero apparire come secondari, e ancor più attento a non imporre la propria griglia gerarchica di valori al paziente. Questa attenzione e questa tensione divengono quindi opera implicita di mediazione tra due culture, soprattutto nella sua componente fondamentale che è il costante rispetto dell'altro; "lasciando a ogni individuo libertà identitaria, cioè rinunciando ad assegnare a un individuo qualunque identità data, foss'anche meticcia, si rinuncerà a classificare gli individui presenti" (Amselle, ‘99).


Proporre all'interno del gruppo stesso una gamma di figure e di ruoli diversi non risponde tanto al bisogno di provvedere tanti "specialisti" diversi che siano in grado di rispondere tecnicamente alle diverse componenti del paziente, quanto piuttosto al tentativo di far emergere proprio queste diverse componenti, di offrire loro la parola. Il paziente può sentirsi più rassicurato perchè ascoltato, lasciando così uscire allo scoperto più facilmente quelle parti che più delle altre tratteneva temendo che potessero essere mortificate da giudizi e fraintendimenti, tanto da doverle nascondere in una condizione di clandestinità.


2) Spesso, proprio per la posizione in cui opera, il mediatore culturale si muove in una dimensione di ambivalenza. Il suo ruolo di "ponte" lo espone ad esempio al rischio di essere individuato esclusivamente come esponente o partigiano dell'altra parte, sentendosi spesso egli porre la fatidica domanda "Ma tu da che parte stai ?", domanda che risuona fastidiosa e fuorviante soprattutto se posta in uno spazio (quello del carcere) in cui i ruoli risultano così rigidamente definiti entro rapporti di forza così dolorosamente ineguali.


Tentiamo di riconoscere e di nominare alcuni degli aspetti "entro" e "tra" cui il mediatore del carcere si trova ad operare.


Innanzi tutto consideriamo la mediazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dal carcere o, più semplicemente, tra persone libere e detenuti, presupponendo a monte un'ulteriore suddivisione, se pur arbitraria, e cioè tra persone oneste e disoneste. Quest'ultima considerazione, però, potrebbe anche essere trasferita nella separazione tra "furbi" e "fessi", ossia i disonesti che riescono a farla franca, perché in possesso di capacità economico-politiche maggiori, e coloro che non potendo usufruire di queste possibilità, rimangono maggiormente vittime del sistema, rappresentandone di fatto (statistiche alla mano) le uniche vittime.


Altro capitolo in cui va a misurarsi la mediazione è il rapporto fra il malato (ed un malato per giunta così particolare quale il tossicomane, con tutta la connotazione morale di cui è gravato da parte della società) ed il sano.


Arriviamo infine alla mediazione tra persone di culture diverse, con tutta la serie di voci che la caratterizzano: lingue, abitudini, aspetti religiosi, valori morali, significato offerto alla malattia nelle sue componenti ( eziologia, significato sociale, terapia, ecc.), pensiero stesso.


Proprio in quest ambito l'opera del mediatore risulta essere biunivoca trovandosi esposto alla pressione di una doppia e reciproca intolleranza: quella della società ospitante verso l'emigrato, ma anche quella dell'emigrato verso la società ospitante, aspetto poco valutato e anzi, spesso, quasi totalmente scotomizzato, forse sulla scorta di una ritrosia vagamente moralistica.


Ma un ulteriore fattore di complessità si può annidare nella difficoltà del mediatore stesso a coniugare tratti emotivo-fantasmatici e componente razionale, riproponendo il consueto confronto tra "pensiero immaginifico" (il Pensiero Selvaggio, così come lo definiva L. Strauss) e "pensiero logico".


Il primo che sembra essere maggiormente collegato alla cultura tradizionale e al tipo di conoscenza della realtà che viene da questa messa in atto, è lo stesso tipo di pensiero che permette di entrare in contatto con tutta la sfera delle credenze, dei riti e dei miti, rendendoli applicabili alle situazioni pratiche della vita e fornendoli della certificazione di oggetti strettamente aderenti alla realtà. Questa impalcatura di valori non può essere ripudiata in toto, pena il decadere di qualsiasi autentica possibilità di comunicazione e di "mediazione".


D'altro canto il pensiero razionale è l'unico accettato dal nostro tipo di cultura per giungere alla comprensione della realtà, cioè dei dati oggettivi, ed è l'unico strumento riconosciuto per attuare una autentica conoscenza (vedi la conoscenza scientifica). E' più specificatamente a questo tassativo monopolio (e non quindi banalmente al semplice utilizzo del pensiero razionale) che si rivolge l'intervento del mediatore culturale. Il "pensiero selvaggio" non rifiuta assolutamente il "pensiero logico", ne rifiuta l'uso assoluto (che quindi annulla, in un atteggiamento autenticamente intollerante, qualsiasi altra forma di pensiero).


Lévi-Strauss è ben attento a sottolineare che "la magia non è una tappa dell'evoluzione scientifica. Magia e scienza sono due modi di conoscenza. Il pensiero magico è un pensiero ben articolato, indipendente", precisa inoltre che "magia e scienza sono simili rispetto al genere di operazioni mentali che entrambe presuppongono". Ma diviene ancora più chiaro quando, riferendosi al "paradosso neolitico", afferma che "esistono due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi disuguali dello sviluppo dello spirito umano, ma di due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l'uno adeguato a quello della percezione e dell'intuizione sensibile, l'altro spostato di piano. I miti e i riti hanno il grandissimo merito di preservare fino a noi, in forma residua, modi di osservazione e di riflessione che furono (e probabilmente restano) esattamente uguali a un certo tipo di scoperte: quelle cioè consentite dalla natura, a cominciare dalla possibilità di organizzare e sfruttare speculativamente il mondo sensibile in termini di sensibile".


Il mediatore allora dovrebbe mettere d'accordo queste due parti dentro di sé, prima ancora di poterle avvicinare agendo nell'ambito esterno, nel sociale, operando un lavoro estremamente difficile e complicato nella prospettiva di riuscire a raggiungere questa così idealizzata armonia. In modo forse più realistico, però, potrebbe tentare di utilizzare proprio quest'ambivalenza come uno strumento di lavoro: l'ambivalenza dentro e fuori di sé, che può essere affrontata seguendo una strada del tutto diversa da quella costituita dal suo superamento tramite il ricorso ad atteggiamenti aprioristici e preconcettuali, che vedono o l'intolleranza da una parte o l'adesione totale ed acritica ai valori tradizionali (considerati ad esempio in questo caso come gli unici depositari dell'autentico sapere) dall'altra.


Ebbene questa ambivalenza può essere accettata come elemento strettamente ed inscindibilmente collegato alla persona, per lo meno in quella particolare fase della sua vita, frutto dell'intrecciarsi di eventi storici e di incontri di culture, in una scenario reso drammatico dalla messa in gioco della stabilità psicologica ed esistenziale della persona stessa. Il mediatore, espressione concreta sia di ciò che il paziente è, sia di ciò che dovrà diventare, mantiene in sé le coordinate temporali del passato (la cultura d'origine) e del futuro (la cultura del paese ospitante), giocate comunque nell'immediatezza del presente.


Ma ancor più svela la presenza dentro di sé dei "codici" materno e paterno al tempo stesso. Il primo, quello materno, coincidente con quel "dentro" che è rappresentato dalla patria perduta, resa ancora più lontana dal sovraccarico della nostalgia, fonte di protezione ormai irrecuperabile. Il secondo, quello paterno, qualificante invece il "fuori", inteso come la nuova società ospitante, carica di regole e di severità che appaiono ancora più persecutorie perché vissute soprattutto come estranee.


Il mediatore culturale del carcere di Marassi, palestinese musulmano, potendosi avvalere di funzioni religiose, in grado quindi di intervenire direttamente nella prescrizione di terapie alternative (rituali, letture del Corano, preghiere), incarna bene questa figura di mediatore in costante rapporto con le sue ambivalenze, trovandosi più spesso a dover svolgere il suo lavoro tra il "pensiero immaginifico" proprio della cultura del Maghrebino detenuto e quello assolutamente rigido e razionale della cultura carceraria. Il fatto che pur essendo palestinese possa ben interagire con i maghrebini avvalora quanto detto a riguardo della cultura costitutiva dei pazienti, intesa come insieme di esperienze in fieri che, pur partendo da una "matrice" entro certi limiti definibile, si arricchisce e si impoverisce di componenti in modo del tutto unico e personale. Il mediatore parla con la componente islamica dei detenuti maghrebini, parla con quelli che vivono la loro religione in una dimensione di autenticità e pratica, riferendo quindi le loro esperienze ad una comune cultura religiosa.


Mantenere vivi dentro di sé gli elementi delle due forme di pensiero, del maghrebino e dell'istituzione carceraria, per poterli entrambi incontrare ed elaborare, crediamo possa essere l'unico sistema operativo possibile. Questo sforzo, poi, diventa ancora maggiore quando le culture in questione, quella del detenuto e quella dell'istituzione carceraria, si scontrano in una lotta per la supremazia che si basa sulla diffidenza e sull'autorità, generando così una diffusa atmosfera persecutoria che ancora di più obbliga il mediatore a dialogare con tutte le sue componenti insieme, in modo imparziale e d equilibrato. Sembrerebbe allora necessario svolgere pure un lavoro di mediazione culturale con gli operatori del carcere che nella pratica quotidiana sono i principali interlocutori dei detenuti, chiamati a svolgere un servizio di controllo dell'ordine e dovendo quindi essere attivi nei momenti di maggior tensione. Proprio in quelle situazioni di crisi diventa fondamentale la capacità di dialogare con tutte le componenti della persona che si ha davanti, evitando invece l'errore di rapportarsi in modo autoritario ai clichè di devianza cui quelle identità ("immigrato, tossico, delinquente") facilmente rimandano.


E' sconfortante l'atteggiamento ostruzionistico che spesso il carcere mostra nei confronti dell'attività di mediazione culturale che, ancora, è vista principalmente come un'attività di semplice traduzione linguistica (che pure in carcere acquista un valore più grande, conferendo maggiore dignità al detenuto che può usare una lingua sconosciuta in situazioni ufficiali), priva quindi di quel valore reintegrativo e ricostruttivo per l'identità del detenuto che poi, sul piano pratico e organizzativo del carcere, si traduce in un alleggerimento delle attività di contenimento e gestione del detenuto stesso. Non è raro che gli agenti penitenziari non sappiano neppure della presenza del mediatore culturale come figura professionale in carcere tanto da ostruirne direttamente o indirettamente il lavoro.


E' invece troppo spesso presente un atteggiamento di eccessiva rigidità che amplifica a dismisura il disagio di chi "altro" non ha potuto adattarsi alla nuova società che è immediatamente divenuta fonte di frustrazione , insuccesso, devianza, sofferenza e che ancora in modo persecutorio e svilente si ripropone accentuando queste sue connotazioni, crollando così in una spirale che annienta ogni possibile forma di dignità e consapevolezza.


E' ovvio che ogni tipo di carcere, proprio per la sua stessa natura, si ponga come antitesi (persecutoria) nei confronti del carcerato e che, quindi, divenga secondaria l'opposizione tra pensiero "immaginifico" (del carcerato) e "razionale" (del carcere).


L'antitesi che progressivamente appare più autentica è quella tra il capire ed il non-capire il perché della pena e dei gesti a questa collegati, di dare un significato a quanto sta accadendo.


"Il mediatore deve anche semplificare e rendere più chiari i messaggi, spiegare alcune "regole culturali e alcuni degli aspetti relativi al contesto al cui interno l'intermediazione ha luogo, tradurre in modo selettivo informazioni e interpretazioni, introdurre nell'interazione elementi di scelta e alternative, rielaborare nell'insieme questo flusso di informazioni" (Beneduce, '94).


L'esperienza carceraria, per quanto percepita come dolorosa e crudele, rientra tuttavia in una dimensione effettivamente "culturale": è la punizione che quella società infligge a chi ha infranto le leggi che quella società prescrive. Se viene a mancare la consapevolezza anche di uno solo dei passaggi che legano l'azione alla punizione, ci si trova allora in una condizione di autentico dissidio.


Le carceri italiane sono popolate mediamente dal doppio o dal triplo dei detenuti previsti, mentre il numero degli agenti della polizia penitenziaria è spesso assai inferiore rispetto a quello necessario, così che le condizioni di lavoro di questi ultimi risultano estremamente difficili non solo in relazione ai turni da coprire ma anche dal punto di vista del contenimento emotivo.


Frequentemente l'atteggiamento dell'extracomunitario che chiede un intervento di tipo sanitario o giudiziario è molto insistente, prolungato, continuativo, spesso esagerato e asfissiante e come tale è percepito pure dagli operatori, sanitari o legali, che non sempre possono rendersi disponibili all'ascolto, rimandando all'agente penitenziario l'onere di spiegare al detenuto il perché di ulteriori tempi d'attesa. Automaticamente quella richiesta diviene estremamente urgente e spesso si accompagna a gesti autolesivi gravi (vissuti in modo aggressivo dall'istituzione carceraria) creando così un attrito di ancora più difficile gestione che sfocia in un ulteriore irrigidimento.


Tutto questo ci conduce a riflettere se il carcere e quindi la dimensione della detenzione, in qualche modo, espliciti meglio la reale condizione di clandestinità, estraneità, alienazione e sofferenza di queste persone "stranieri in ogni luogo" (Taliani, '00).


Un extracomunitario (clandestino, non inserito lavorativamente né socialmente) trova una dimensione in cui riconoscersi maggiormente, nella sua dimensione più autentica, di emarginato cioè, in piazza De Ferrari o nel carcere di Marassi?


E' imbarazzante dire che la forte presenza di extracomunitari nelle carceri italiane diventa l'appello, il grido di queste persone che proprio lì dentro vedono convalidata in modo grave e autentico, la dimensione di clandestinità in cui sono confinati.


"Non parliamo più del passato, nè del presente; posso parlare solo del futuro. Non ho una famiglia, né una casa, né una patria; dimmi tu chi sono", dice un ragazzo tunisino che si perde nel vuoto di un'esistenza senza più una storia, che lui stesso ha assassinato; senza la possibilità di sentirsi libero né nella sua terra, che ha lasciato con odio e disprezzo per le sofferenze che gli ha riservato, né in questa terra, che pure ha cercato con l'illusione della rivincita e che, invece, di nuovo, si è arrogata il diritto di poter disporre di lui mantenendolo in una posizione di illegalità, confinandolo in strada o in prigione.


All'interno di tutto il gruppo dei detenuti extracomunitari si rivolgono al mediatore culturale soprattutto coloro che vivono con angoscia la situazione carceraria. Non si rivolgono a lui invece quelli che "svernano" in carcere, quelli che stanno talmente male fuori, in condizioni di vita così disumane ed ostili che il carcere rappresenta per loro un luogo sicuro dove, almeno, hanno da mangiare e da dormire, dove ritrovano amici e compaesani. Nelle celle delle nostre prigioni gli extracomunitari si riuniscono in gruppo (sono loro stessi a chiedere di poter stare insieme, tra loro) per condividere lo stesso stile di vita, le stesse abitudini, gli stessi ritmi, la stessa lingua, la stessa religione; si formano delle "comunità" che si richiamano ai valori della solidarietà, della condivisione e del rispetto reciproco, valori che non sono solo costitutivi della "logica carceraria" ma che esprimono invece una necessità culturale e ancor prima esistenziale; riprende forma la possibilità di "appartenere", tornano la Tunisia, il Marocco, l'Algeria…con tutto quello che contengono.


Ciò che ci rende perplessi a questo riguardo è però la facilità con cui questa realtà viene accettata dall'istituzione carceraria che, pur apparendo "tollerante e rispettosa" verso certe esperienze, potrebbe invece mascherare un atteggiamento di ulteriore chiusura nei confronti di questi detenuti che, non sentendosi sufficientemente protetti nelle celle "miste", si riuniscono, rifugiandosi, in "celle extracomunitarie". "Isolare una comunità sulla base di un certo numero di differenze conduce al suo possibile confinamento territoriale, se non all'espulsione" (Amselle, '99).


E' solo in questa occasione, infatti, che la differenza culturale viene prontamente ed effettivamente presa in considerazione, accettandone il diritto di essere ( per esempio è molto difficile riuscire ad accordare a tutti coloro che ne fanno richiesta, la possibilità di partecipare alla preghiera comune del venerdì).


Come riconoscere la domanda, la richiesta d'intervento del mediatore? Come individuare quelli che ne hanno più bisogno? Come non farsi ingannare da quell'atteggiamento chiamato "cammuffamento culturale": "il ricorso all'identità etnica e religiosa come difesa contro cambiamenti e sofferenze" (Ferranini, '00)?


All'interno di questa geografia di persone il mediatore deve essere capace di leggere più carte geografiche contemporaneamente (una geografia che non prevede solo suddivisioni etniche ma che riconosce anche altri confini ,quali quelli del bisogno, ad esempio), per individuare le coordinate che possono guidare il suo cammino; ed è una geografia che non prevede solo suddivisioni etniche ma che riconosce anche altri confini (quali quello del bisogno, ad esempio), all'interno dei quali individuare le coordinate che possono guidare il suo cammino.


E come ormai in molti ambiti sociali in cui viene richiesta la sua presenza (scuola in primo luogo), diviene fondamentale riuscire a sensibilizzare le altre figure che vi operano al fine di poter utilizzare effettivamente il suo intervento (traducendolo in ricadute operative, ma anche trasformandolo al contempo in strumento di sollecitazione e di crescita culturale), altrettanto nella nostra osservazione si pone pure il quesito di come suscitare nei singoli detenuti la richiesta d'aiuto del mediatore. Potrebbe essere assai riduttivo credere che siano bisognosi del suo aiuto solo coloro che ne fanno esplicita richiesta, che spesso sono quelli che provenendo da famiglie agiate e quindi con un livello culturale maggiore, meglio conoscono i propri diritti e soprattutto le procedure per potersene avvalere.


Questa richiesta allora, diviene più impellente quando vede come protagonisti proprio coloro che provengono da zone più povere, che non hanno ricevuto un'istruzione, che sono stati catapultati da subito in una realtà disperata, coloro che portano inciso nella loro storia, nella loro vita, nella loro stessa persona il marchio del bisogno: già segnati spesso nel loro paese di origine essi lo esportano in tutti i posti in cui andranno, mostrando questa loro identità prima ancora della nostalgia.


E sono proprio queste persone, gravemente e urgentemente bisognose, ma anche sprovvedute dei mezzi necessari a comprendere i propri diritti, quelle che paradossalmente, sono le più lontane dall'accedere all'aiuto del mediatore.


La mediazione culturale in carcere si dovrebbe quindi muovere su più binari contemporaneamente, non dovrebbe solo riferirsi ai detenuti, ma pure a tutti gli operatori che convivono con loro, condividendone spazi e tempi, e che dovrebbero avere gli strumenti per raccogliere i bisogni anche di quelli che non parlano italiano, che non si tagliano, che non urlano, che non litigano, "che non fanno casino".


Esiste una popolazione di uomini silenziosi che cercano di non farsi notare perché forse hanno paura di trovare un vuoto ancora più grande.


Se già la figura del mediatore si carica di ambivalenza nella società in genere, ancor più questa caratteristica viene enfatizzata in un ambito così particolare quale è quello del carcere, dove raggiunge limiti estremi di accentuazione. Molti trabocchetti si annidano lungo il percorso del mediatore: chi lo attende nel ruolo di salvifico alleato, chi d'altro canto lo pretende come una sorta di longa manus del potere carcerario. Da entrambe le parti si chiede al mediatore ciò che egli non conosce e che non è in grado di offrire, gli si pongono domande di cui non possiede le risposte.


Siamo convinti che il suo compito si articoli invece soprattutto nella capacità di far capire l'altro, e quindi si sviluppi lungo le linee della sensibilizzazione, meta difficile da raggiungere ma spinta comunque sempre pungente.


Tentando di sfuggire ad una immagine idilliaca ed un po' troppo banalizzante, possiamo ritenere che l'azione del mediatore vada a situarsi in una dimensione disarmonica, che non si ponga il fine di giungere ad un buonistico "embrassons nous" multietnico, ma che realmente porti a capire che i concetti e le idee che incontriamo nascono da un pensiero che deve essere recuperato e ricomposto nelle proprie coordinate, per poter essere rispettato prima ancora che compreso.


E' in questa dimensione disarmonica che ci convince maggiormente il lavoro di mediazione che quindi vediamo più credibile in un'azione che per portare chiarezza può creare anche uno scompaginamento di idee già fissate,con inevitabili ricadute di questo effetto su tutti i membri del gruppo (polizia penitenziaria in testa) oltre che sui detenuti extracomunitari.


Il mediatore per questo deve fare uno sforzo maggiore e superare la paura di risultare inutile in una prospettiva in cui le differenze culturali seppur considerate in modo più duttile e dinamico, rimangono importanti matrici, fondamento di ogni più imprevedibile evoluzione.


Nella sua opera di ambasciatore più che di traduttore il mediatore si trova così costretto a misurare l'efficacia della propria azione su parametri diversi rispetto a quelli per lui abituali non essendo più sufficiente, infatti, reperire la convalida del proprio operato nella gratificazione o nella soddisfazione mostrate dall'utente a cui si è rivolto.


Vengono in mente quelle situazioni che a volte intervengono nei rapporti psicoterapeutici caratterizzati da intensa idealizzazione del terapeuta da parte del paziente per cui se il terapeuta non si sottrae alla subdola seduzione insita in questo gratificante atteggiamento, rischia di innescare una condizione di grave ambiguità che nella realtà dei fatti conduce ad una immobile stagnazione, segnalata dalla mancata elaborazione delle autentiche dinamiche del paziente e dalla assenza di qualsiasi evoluzione di un processo terapeutico.


Il rischio di cadere in questa situazione di piacevole e gratificante armonia, è sempre in agguato pure nel lavoro del mediatore che potrebbe commettere un errore nel cercare di essere "troppo" in sintonia con l'uno o l'altro dei suoi referenti, paziente e carcere rispettivamente. Sfuggendo a questa tentazione, non lasciandosi prendere in trappola dal canto delle Sirene dell'essere oggetto del compiacimento dell'altro e del conseguente auto-compiacimento il mediatore accederà più facilmente alla possibilità di raggiungere anche i bisogni e le richieste di aiuto non verbalizzate dei pazienti maggiormente in difficoltà. Per ascoltarne la voce, quindi, dovrà abdicare al ruolo culturalmente gratificante di traduttore di lingue diverse o di divulgatore di abitudini, riti e storie differenti, per proteggere quello ben più prezioso di autentico ponte tra due pensieri diversi.


L'incontro tra due pensieri diversi racchiude infatti sempre toni drammatici, dovendo giostrare su più registri affettivi e razionali contemporaneamente, dovendosi destreggiare con fantasmi schizo-paranoidei sempre in agguato, coniugando infine il pensiero preconcettuale con quello concettuale.


E' proprio la riflessione su questa precisa funzione del mediatore che prima ci aveva portati a commentare come tutto il gruppo dei terapeuti in effetti potesse assumere su di sé alcune delle caratteristiche della mediazione culturale; in questo caso nel mettere in atto una attitudine a cogliere l'esistenza di una forma di pensiero diversa dalla propria.



 


Bibliografia





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http://www.pol-it.org/ital/mediatore.htm



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