Intervista a Amara Lakhous
di Ubax Cristina Ali Farah
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Scrittori in Campidoglio per una poetica del futuro. Intervista a Amara Lakhous
di Ubax Cristina Ali Farah
12/11/04 
 

Roma - Amara Lakhous è il primo dei sette autori previsti nel ciclo di incontri sulla Scrittura migrante che si terranno nei mesi di novembre e di dicembre al Campidoglio, nella sala del Carroccio. Nato ad Algeri nel 1970, Lakhous vive a Roma. Si è laureato in Filosofia presso l´Università di Algeri e in Antropologia culturale presso La Sapienza di Roma. In Italia ha pubblicato il suo primo romanzo Le cimici e il pirata (Arlem ed.1999, in arabo con traduzione in italiano) e in Algeria il secondo, ambientato a Roma, Come farsi allattare dalla lupa senza essere morso. Lo scrittore, in più di un’occasione, ha espresso le sue perplessità riguardo l’abitudine diffusa di aspettarsi dagli scrittori migranti frammenti di verità e storie di emarginazione sociale e di disagio. E’ tuttora aperto il dibattito sulla cosiddetta ricetta della letteratura della migrazione. E discussa è la lettura in chiave essenzialmente autobiografica.


E’ possibile una distinzione tra chi scrive per necessità, per l’urgenza di comunicare e chi usa la scrittura in modo più consapevole?


Ci sono certamente delle differenze tra chi ha cominciato a scrivere prima di arrivare in Italia e chi ha iniziato a scrivere direttamente in italiano, magari perché è arrivato da bambino, o per altri motivi. Per me la prima categoria è più problematica, perché comprende scrittori che partono da una lingua precedente per entrare in un’altra lingua. Non c’è un fenomeno ben chiaro quando si parla di letteratura della migrazione.


Durante l’incontro hai sottolineato come, con una lingua, l’intimità e l’intesa vadano maturate con il tempo e come otto anni siano troppo pochi per essere in grado di gestire l’italiano con disinvoltura. Questa è la ragione per cui hai scelto di continuare a scrivere in arabo. Che cosa intendi quando dici che riscrivi il tuo romanzo in italiano?


È un processo lungo che prevede diverse fasi. Prima scrivo il mio testo in arabo. Poi dico che lo riscrivo in italiano, perché non si tratta di una semplice auto-traduzione, non essendo obbligato a rispettare il testo originale, lo ricreo a mio piacimento. In tal senso godo di una libertà che il traduttore normalmente non ha. Nel romanzo che sto riscrivendo ci sono alcune cose che non ci sono nel testo in arabo o perché non le ritenevo opportune o perché si tratta di battute che non avrebbero avuto alcun senso per un pubblico arabo. Una volta finita la prima stesura, ci sono un gruppo di amici che leggono il testo. Dalla lettura nascono discussioni, suggerimenti e osservazioni che prendo in considerazione, analizzo ed in seguito opero una scelta.
Qui vorrei fare una riflessione sulla questione fondamentale dell’editing. Io preferisco non dare il mio testo ad un editor di una casa editrice che ne può fare quello che vuole. Questo è noto, accade anche ai migliori scrittori e non soltanto per quanto riguarda la struttura del testo, per la scelta dei personaggi che a volte vengono modificati e sostituiti massicciamente. Avviene ancora di più a livello del linguaggio.
Finita questa seconda fase ne inizia una terza che è quella cui sto lavorando ora ed è la più delicata, perché prende in considerazione i vari linguaggi. Questa operazione si fa su due livelli. Il primo livello riguarda i vari dialetti: cerco di usare il napoletano, il milanese a seconda del linguaggio che usano i diversi personaggi. Questa è una grandissima avventura che da solo non posso affrontare, quindi ho bisogno di una figura come quella che Emilio Gadda ha usato per il Pasticciaccio, romanzo per il quale ha avuto bisogno della consulenza di un romano.
Il secondo livello riguarda i personaggi. Una ottantenne napoletana non parla come un giovane di vent’anni, una portiera non parla come un giornalista televisivo, quindi dovrei trovare il registro linguistico a loro adatto.
Ricapitolando: la prima stesura la porto a termine io, la seconda mi serve a decidere quanto le frasi siano comprensibili o meno, nella terza fase entro nel vivo del linguaggio.


Questo processo è quello che hai utilizzato anche per la stesura del tuo primo romanzo, Le cimici e il pirata?


In quell’occasione per la traduzione sono stato un consulente, un aiutante, naturalmente il traduttore su alcune cose ha insistito. Al tempo non ero ancora in grado di fare questo tipo di lavoro. Per questo parliamo tanto della decolonizzazione: essere dipendenti da altri fa parte del progetto coloniale. Gran parte degli scrittori della migrazione necessitano di un editor e di interventi massicci, questo non va bene. Quella volta me lo sono potuto permettere, perché partivo da un testo già scritto.


Il tuo nuovo romanzo è basato su anni di ricerca a Piazza Vittorio. Intendi questo quando dici che l’elemento fondamentale per poter scrivere è la conoscenza? Nella tua scrittura inoltre si sente molto forte la componete verbale, il ricorso al dialogo. Questa tua rielaborazione sembra derivare da un ascolto attento cui sembra seguire una trascrizione fedele nel testo scritto.


Fedele è una parola molto impegnativa; certo il punto di partenza è la conoscenza, il che significa per me osservare, comunicare, parlare, ascoltare, tutto questo diventa un materiale. Noi scrittori siamo dei traduttori, cerchiamo di tradurre quello che ascoltiamo e cerchiamo di trasferirlo in qualche altra cosa. La nostra è, più che altro, una re-interpretazione. Hai un materiale e fai una riproduzione di questo materiale. Ci sono scrittori che portano con sé un quaderno e scrivono le cose che ascoltano per strada o nei vari luoghi. Io invece tendo ad immagazzinarle nella mia memoria e poi ad un certo punto escono. Ovviamente l’esperienza di piazza Vittorio è stata fondamentale, perché ho vissuto per due anni in un centro d’accoglienza con immigrati e rifugiati con cui dividevo lo spazio, il tempo, il cibo, l’emozione e questo mi ha cambiato veramente la vita.


In passato hai messo in luce come I tuoi personaggi non siano mai degli intellettuali, ma personaggi semplici, più funzionali alla comunicazione. Hai mantenuto questa scelta anche in questo nuovo romanzo?


Nel caso della scrittura c’è la grandissima possibilità di entrare dentro vari personaggi. Questa è la grandezza della scrittura in generale e in particolare del romanzo che è il genere che prediligo, perché mi dà la possibilità di identificarmi in diversi personaggi che possono essere indistintamente donne, bambini, criminali, buoni, cattivi, poliziotti ecc.
In francese c’è un bellissimo proverbio che dice “La professione è la seconda religione”. Quando uno esercita un mestiere, quel mestiere diventa qualcosa di più grande. Ho notato che un meccanico romano parla quasi lo stesso linguaggio del meccanico algerino. Le loro metafore sono quasi le stesse. “Si è fermato il motore” per entrambi significa che si è fermato il cuore. Hanno un immaginario e gli stessi punti di riferimento.


Qual è il titolo del tuo nuovo romanzo?


Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. È un titolo che un po’ vuole essere ironico, perché se vai nelle librerie troverai tantissimi libri con titoli di questo tipo Come imparare l’inglese in una settimana, Come fare la pizza in cinque minuti… Tutto serve a promuovere la cultura della facilità, come se fosse tutto scontato, tutto possibile senza stancarsi. Adesso vado in Algeria, quando torno dovrei completare il lavoro, definire meglio, per lo meno, i tre personaggi principali. Questo è solo l’inizio, non so dove andrò a finire. La cosa certa è che non ho fretta e che la casa editrice cui proporrò il mio testo lo dovrà prendere così come l’ho scritto: non sono d’accordo nel dare un testo e lasciarlo rimaneggiare da altri.


 http://www.migranews.it/notizia.php?indice=501







 Amara Lakhous


Amara Lakhous è nato ad Algeri nel 1970 e vive a Roma. Si è laureato in Filosofia presso l'Università di Algeri e in Antropologia culturale presso La Sapienza. Studioso delle problematiche di immigrazione, Islam e Mediterraneo, ha vinto recentemente un concorso per il dottorato di ricerca in civiltà islamica. Ha lavorato per la radio algerina e da alcuni anni svolge la professione di traduttore. In Italia ha pubblicato il suo primo romanzo Le cimici e il pirata (Arlem ed.1999, in arabo con traduzione in italiano) e in Algeria il secondo, ambientato a Roma, Come farsi allattare dalla lupa senza essere morso.

http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/chisiamo/lakhous.html

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