L'anima e il profitto di Emanuele Severino
La compatibilità tra cristianesimo e capitalismo c'è. Ma è sempre stata apparente. Oggi forse è destinata a durare grazie al potere unificante della tecnica Il punto di incrocio più duraturo, il nesso più saldo tra "civiltà borghese" e "civiltà cristiana" (per usare le espressioni della domanda posta da Fl) rimane quello indicato dal saggio di Max Weber: L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. In questo scritto, la "civiltà cristiana" che è insieme "civiltà borghese" è però la società protestante, e propriamente calvinista, che vede nel successo dell'attività di tipo capitalistico - un successo implicante l'"ascesi", cioè il rifiuto dello spreco e del godimento della ricchezza compiaciuti di sé - il segno della propria predestinazione alla salvezza eterna. La lunga condanna dell'usura, da parte della Chiesa cattolica a cui si contrappone l'indispensabilità, per la messa in moto dell'intrapresa capitalistica, del prestito remunerato, costituisce già un motivo sostanziale che consente di affermare la distanza tra società borghese capitalistica e società cattolica. Nelle ultime pagine del suo saggio Weber ricorda, da un lato, che Eduard Bernstein è stato il primo a stabilire le connessioni tra etica ascetica protestante e razionalità dell'accumulazione capitalistica (sua è l'affermazione che l'"ascesi è una virtù borghese"); dall'altro lato rileva che: "Nel secolo Diciassettesimo nessuno ha mai dubitato di queste connessioni". Ma il tratto decisivo del discorso di Weber riguarda il rovesciamento essenziale che si produce quando nella società europea si passa dall'atteggiamento che vede la benedizione di Dio "nella ricchezza come frutto del lavoro professionale" capitalistico, e che dunque ha come scopo la salvezza eterna (o la certezza di essere salvi), all'atteggiamento che invece ha come scopo la ricchezza e che finisce col non aver più bisogno del "sostegno" fornitogli dall'etica protestante. Anche se in Weber manca l'enunciazione esplicita, il principio dominante del suo discorso è infatti il principio (aristotelico) che lo scopo di un agire determina la natura, il senso, l'essenza di tale agire. È lo stesso principio che domina in un potente passo di John Wesley (fondatore del Metodismo), riportato dallo stesso Weber, nel quale si dice che la religione deve produrre necessariamente laboriosità e parsimonia, quindi ricchezza, quindi orgoglio, desiderio di godimento, amore del mondo, sì che la ricchezza, da conseguenza della religiosità, diventa scopo e la religiosità o si dissolve senz'altro, o si dissolve diventando un mezzo per divenire ricchi. Il capitalismo nasce quando la volontà di incrementare il profitto abbandona il sostegno religioso che ha contribuito in misura rilevante a farla nascere. E questo è ancora discorso esplicito di Weber. Il capitalismo ha infatti come scopo l'incremento del profitto, non la salvezza dell'anima. Oggi la Chiesa cattolica riconosce che la civiltà borghese capitalistica produce ricchezza in quantità incomparabilmente maggiore dell'economia pianificata del socialismo reale; ma per la Chiesa cattolica, come per le Chiese protestanti, lo scopo della ricchezza prodotta dall'agire capitalistico è il bene comune, il bene della società intera; cioè lo scopo non può essere l'incremento del profitto privato. Ma un agire è capitalistico proprio perché ha come scopo questo incremento. E la volontà di profitto che ha come scopo ultimo la salvezza dell'anima non è, o solo apparentemente è, la volontà di profitto che ha come scopo l'incremento del profitto; ossia non è capitalismo - se con questo termine si indica appunto l'agire economico razionale che ha come scopo tale incremento (una differenza, questa, che è invece assente nel discorso di Weber).
Anche la compatibilità che oggi sembra sussistere tra Chiesa cattolica e capitalismo - e anzi tra cristianesimo e capitalismo - è dunque soltanto apparente. Nonostante la connessione tra "etica protestante" e "spirito del capitalismo", la civiltà borghese capitalistica è essenzialmente in contrasto con la civiltà cristiana. Non è dunque necessario attendere la "globalizzazione" del mercato per sospettare che la compatibilità tra cristianesimo e logica del mercato possa andare in crisi: è in crisi sin dall'inizio. La globalizzazione del capitalismo è globalizzazione di ciò che sin dall'inizio è in contrasto col cristianesimo.
Ma la globalizzazione non è semplicemente la dominazione planetaria del capitalismo. Il capitalismo può dominare il Pianeta perché la tecnica di cui esso si serve sviluppa una potenza mai raggiunta dall'uomo. Si tratta di comprendere che il capitalismo è destinato a rapportarsi alla tecnica in modo analogo a quello con cui l'"etica protestante" si è rapportata alla volontà di profitto (ossia a ciò che Weber chiama "spirito del capitalismo"). Non solo: proprio per questa analogia - proprio perché si deve pensare "l'etica capitalistica e lo spirito della tecnica" -, si tratta di comprendere che come la volontà di profitto si è liberata dal sostegno costituito dall'etica protestante, così la tecnica è destinata a liberarsi dal sostegno in cui consiste il capitalismo stesso. (Ho sviluppato e giustificato questa tesi, ad esempio, in La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, 1988; La filosofia futura, Rizzoli,1989; La bilancia, Rizzoli, 1992; Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993; Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, 1995; Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998).
Alla fine del suo saggio Weber rileva che la volontà di profitto non è rimasta, come pensava il teologo protestante Richard Baxter, un "sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento": il mantello si è trasformato in una "gabbia d'acciaio" e lo "spirito" dell'ascesi "- chissà se per sempre - è fuggito da questa gabbia. In ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno ossia dell'ascesi. Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia". Weber non scorge cioè, in compagnia di tanti altri, che la gabbia d'acciaio del capitalismo sta diventando essa stessa - insieme al cristianesimo, alla democrazia e a tutte le grandi forze della tradizione occidentale - un'abitatrice di quella ben più grande e potente gabbia d'acciaio che è la tecnica del nostro tempo. La volontà di profitto che ancora si illude di servirsi della tecnica è destinata a diventare un mezzo al servizio della volontà, in cui l'essenza della tecnica consiste nell'incrementare all'infinito la propria potenza. Da sempre in lotta tra di loro, civiltà borghese e civiltà cristiana sono dunque sottoposte al comune destino di abitare entrambe la gabbia della tecnica, ossia di subordinare i loro scopi allo scopo della tecnica. Ma questo destino comune può anche stabilire una forma di solidarietà apparente, tra civiltà borghese e civiltà cristiana, analoga a quella che si era stabilita tra esse, nel secolo Ventesimo, di fronte al nemico comune costituito dal socialismo reale. Apparente, ma anche tanto più intensa quanto incomparabilmente maggiore è la potenza della tecnica rispetto a quella del socialismo reale e di ogni altra forza dell'Occidente. La "gabbia" della tecnica è infatti qualcosa di abissalmente diverso dalla semplice "base meccanica" di cui parla Weber. Possiede un'ampiezza e un respiro in grado di soddisfare tutte le esigenze dello "spirito" che essa contiene, sia esso lo spirito religioso, o economico, o filosofico, o artistico, o politico. Pertanto è "d'acciaio" non perché soffochi lo "spirito", ma perché la sua dominazione è un destino inevitabile.
La globalizzazione, nella sua essenza, è globalizzazione della subordinazione del capitalismo e di tutte quelle altre forze alla tecnica. In modo ancora più radicale del capitalismo, la tecnica non ha come scopo la salvezza ultraterrena dell'anima, ma l'aumento indefinito della propria terrena potenza.
Emanuele Severino insegna Filosofia teoretica all'Università di Venezia
http://www.liberalfondazione.it/archivio/Fl/numero7/animaeprofitto.htm
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