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L'Italia in guerra
Indymedia - 27-09-2006
Fuoco sui civili

La notizia non ha avuto molta eco nell'informazione nazionale, in parte perché già anticipata nello scorso febbraio, ma soprattutto perché politicamente inopportuna, visto che riguarda l'incriminazione di tre militari del reggimento lagunari "Serenissima", reparto allora operante in Iraq e attualmente impegnato nella missione "di pace" sotto le bandiere dell'Onu in Libano.

Il 5 agosto 2004, nel corso di una delle ''battaglie dei ponti'' che si susseguirono in quei mesi a Nassiriya, i tre militari spararono su un'autoambulanza uccidendo 4 civili che si trovavano a bordo - tra cui una donna che doveva partorire - e per questo sono stati messi sotto accusa per il reato, previsto dal codice militare di guerra, di uso aggravato delle armi contro ambulanze e contro il personale addetto in soccorso.

Il rinvio a giudizio, disposto dalla Procura militare di Roma, era in qualche modo un atto dovuto, dopo l'apertura dell'inchiesta relativa a tale strage, divenuta di dominio pubblico dopo le rivelazioni del giornalista statunitense Micah Garen, il cui resoconto aveva già portato davanti ai magistrati, lo scorso 25 gennaio, il caporal maggiore Raffaele Allocca che allora si era difeso spiegando, come da manuale, che aveva sparato sull'autoambulanza perché così gli era stato ordinato dal maresciallo Fabio Stival. Oltre a questi due militari un terzo, le cui identità risulta coperta, risulta ora indiziato.

Facile immaginare le argomentazioni della difesa: si trattò di un'azione di guerra a seguito di un attacco contro i militari italiani, nel corso del quale "i nostri ragazzi" spararono qualcosa come 42.601 colpi di ogni calibro. D'altra parte, lo stesso caporal maggiore ricevette persino un encomio per il suo comportamento in battaglia.

Altrettanto prevedibile la sentenza, dato che neanche in Italia, in tempo di pace, nessun uomo in uniforme risulta a tutt'oggi condannato per eccesso di difesa.


FONTE: Indymedia Italia



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 dall'Unità    - 27-09-2006
Militare morto in Aghanistan, la sorella: «Fateli tornare a casa»

«Ho acceso la televisione su un canale Rai e c' era un giornalista che ha detto che Prodi ha mandato le condoglianze. Io ringrazio Prodi come uomo, ma al politico dico: "mandate a casa i ragazzi, mandateli a casa perché non è giusto che altre famiglie, mogli, madri, sorelle e padri, soffrano in questo modo». Le parole che Barbara Langella, sorella di Giorgio Langella, l'alpino ucciso in Afghanistan, rivolge al presidente del consiglio Romano Prodi, riaccendono la discussione sull´exit strategy delle truppe italiane dall´Afghanistan. «Basta. - Dice ancora Barbara - ne abbiamo già avuto un esempio a Nassiriya, ne abbiamo un esempio a Kabul, non si può lasciare morire i nostri ragazzi come carne da macello. Non si può e non si può».

Dopo il voto di fiducia e l´ok al rifinanziamento votato pochi mesi fa, nonostante i mal di pancia politici e i distinguo all´interno della "sinistra radicale", la questione sembrava più o meno archiviata. Ma l´escalation dei combattimenti nelle regioni del Paese dove si trovano gli italiani, gli attentati ai contingenti Nato, e adesso la morte di un militare e l´appello della sorella, riaprono prepotentemente la querelle. Anche perché il rifinanziamento dovrà essere nuovamente vuotato dal Parlamento a fine anno.

Cordoglio per la morte del militare italiano arrivano da tutte le massime autorità e rappresentanti politici. In primis appunto dal premier Romano Prodi che parla «di un vile attentato terroristico» e dal segretario della Quercia Piero Fassino che ricorda «tutti i militari italiani impegnati in missioni di pace» . Mentre Fausto Bertinotti, all'inizio dei lavori di Montecitorio, ricordando in aula il caporal maggiore ucciso sottolinea «lo sgomento per questo nuovo, drammatico evento che ripropone alla comunità internazionale l'urgenza di un impegno sempre più intenso nel restituire al dialogo ed all'ascolto delle diversità il necessario ed inderogabile primato, via obbligata per corrispondere al bisogno di pace che tanto più fortemente oggi avvertiamo mentre piangiamo la perdita della vita di un nostro concittadino».

La morte dell´ottavo militare italiano in Afghanistan riaccende dunque la questione sulla partecipazione delle truppe del Belpaese alla missione Nato in Afghanistan. E Verdi, Pdci e Rifondazione tornano a chiedere la "revisione" della presenza italiana a Kabul. Se il successore di Bertinotti alla direzione di Rifondazione, Franco Giordano, si limita a richiamare le «nefaste conseguenze della spirale di guerra e terrorismo», Elettra Deiana, vicepresidente della commissione Difesa della Camera, sottolinea «l'aggravarsi di una situazione ormai fuori controllo che richiede da parte nostra una assunzione di responsabilità politica, anche in sede internazionale, che porti a ridiscutere gli impegni presi precedentemente in Afghanistan» e parla esplicitamente della «necessità di un confronto interno alla maggioranza che ponga all'ordine del giorno il graduale disimpegno militare e il massimo impegno civile nella ricostruzione di un paese sempre più coinvolto in una incontrollabile dinamica di violenza». Anche più dure le parole di Giovanni Russo Spena, presidente del gruppo Prc al Senato: «Noi consideriamo questa missione come una missione di guerra - ribadisce Russo Spena - come ha detto anche il ministro D'Alema, nei prossimi giorni bisogna riaffrontare la questione del nostro coinvolgimento».

Sulla stessa linea Verdi (Pecoraro Scanio: «È urgente che la comunità internazionale ne prenda atto e non chiuda gli occhi sulla necessità di un cambio di strategia») e Comunisti italiani. «Il cordoglio e la sincera solidarietà con le vittime italiane dell'attentato di Kabul non possono far sottacere il fatto che in Afghanistan i nostri soldati partecipano, per scelta del precedente governo ad una guerra sbagliata, inutile, e soprattutto ormai persa - sottolinea Severino Galante, membro della commissione Difesa della Camera e deputato del Pdci - Bisogna - sostiene il deputato del Pdci - che l'attuale governo ne prenda atto, e richiami in patria i nostri soldati».

«La nostra missione in Afghanistan sotto l'egida dell'Onu sta svolgendo un ruolo importante proprio per la pace e la democrazia e contro l'integralismo del terrorismo talebano» risponde Anna Finocchiaro presidente dei senatori dell'Ulivo che, dopo aver espresso il cordoglio per la morte del caporale maggiore capo Giorgio Langella, invita a «non dimentichiamo i morti e i feriti che questo vile attentato ha provocato tra i civili, tra cui purtroppo anche un bambino». «È l'ennesimo tributo di sangue di un giovane impegnato, insieme con il proprio Paese, per la pacificazione di un'area devastata dai conflitti». Sulla stessa linea la dichiarazione del capogruppo dell'Ulivo alla Camera Dario Franceschini che sottolinea: «i soldati italiani stanno svolgendo il loro ruolo, in tutte le missioni che sono state loro affidate all'estero, con spirito di pace e con il massimo impegno possibile, che è stato loro riconosciuto da tutti». Mentre Massimo Donadi, capogruppo dell'Italia dei valori a Montecitorio, ribadisce che la questione del ritiro non è all´ordine del giorno. «Mi auguro che questo momento di indicibile dolore che colpisce il Paese intero non venga trasformato nella solita arena politica. L'Italia terrà fede agli impegni assunti a livello internazionale, come sta facendo e come ha sempre fatto, e a maggior ragione oggi, nel profondo rispetto di quanti, come il caporal maggiore Langella e gli altri soldati feriti, onorano il nostro Paese operando in nome della pace in quei luoghi martoriati dalla guerra».

Da parte del centrodestra il leader di An prova a buttare ulteriore benzina sul fuoco e, invitando a non polemizzare, polemizza. E, riportando alla ribalta il tema del voto della missione Unifil in Libano (che è in discussione in questi giorni alla camera) torna a chiedere che la maggioranza riconosca come missioni di pace tutte le missione italiane all´estero, Iraq compreso. «È una nuova tragedia che colpisce tutte le Forze Armate ma «nel momento del lutto credo che non sia saggio alimentare polemiche politiche» dice infatti Fini prima di spiegare che « definire costruttori di pace i nostri soldati è sempre di più un dovere morale, anche per il sacrificio che accompagna queste missioni».