breve di cronaca
Draghi: la scuola è il vero motore della crescita
Corsera - 23-11-2006
Il Governatore: «Il deficit di istruzione è alla base della nostra mancanza di competitività»

ROMA - Bisogna far progredire l'istruzione che «è diventato il fattore più importante della crescita». Quella crescita che il «vivace spunto di ripresa congiunturale a cui stiamo assistendo» non basta a consolidare. A sollecitare «unità di intenti» e una «politica efficace» per scuola e università così da riavviare la produttività è il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, chiamato dal preside della facoltà di Economia e commercio dell'Università La Sapienza, Attilio Celant, a svolgere una lectio magistralis all'inaugurazione del 100˚ anno accademico.
La scuola è un tema «inusuale » per un governatore, riconosce Draghi, quasi riconoscendo un'invasione di campo. Ma il fatto di «essere stato un professore » e di sapere «quanto sia importante il livello di istruzione nel progresso dell'economia » scioglie ogni perplessità a riguardo. Prima di iniziare il proprio intervento, di fronte a un'affollatissima platea di studenti, professori e personalità fra le quali spicca l'ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, Draghi accenna al suo passato di studente, proprio lì a Economia e commercio, allievo di Federico Caffè.
«Nel '70 mi laureai con lui con una tesi sulla moneta unica che concludeva con la constatazione che la moneta unica era una follia. Assolutamente da non farsi» ricorda divertito.
E poi, a ritroso, è la volta di Fausto Vicarelli: «A lui devo il primo trenta e la decisione di continuare a studiare, dopo i risultati deludenti dell'avvio degli esami» rivela per nulla imbarazzato. E quindi il ricordo di Ezio Tarantelli «al quale devo la spinta all'esperienza al Mit negli Usa dove ho scoperto un nuovo mondo».
Ma è sulla necessità di rilanciare l'istruzione, recuperando i ritardi accumulati, che Draghi si sofferma, esponendo stime e cifre. Significative quelle elaborate dalla stesso ufficio studi della Banca d'Italia: «A parità di ogni altra circostanza, nel nostro Paese, la probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta di 2,4% punti percentuali per ogni anno di scuola frequentato ». Nelle regioni meridionali «questo valore sale a 3,2 indice di una maggiore scarsità relativa di lavoratori qualificati ». L'Italia ha comunque complessivamente un deficit d'istruzione rispetto agli altri Paesi industrializzati: nel 2005 la quota di diplomati tra i 25 e i 64 anni era solo del 37,5% e quella dei laureati raggiungeva appena il 12%, la metà della media dei Paesi Ocse. Sempre all'Università restava alto, il 60% il tasso di abbandono, e nonostante l'aumento del numero dei laureati per l'introduzione dei nuovi percorsi triennali, «l'Italia resta sotto la media dei principali Paesi Ocse».
Eppure, possedere un elevato livello di istruzione, prosegue il governatore, consente di «ridurre i rischi insiti in percorsi di carriera frammentari e quelli connessi con la perdita dell'occupazione », oggi «più elevati che in passato a causa del crescente ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato».
Senza contare il legame tra titolo di studio e reddito da lavoro che sale in proporzione.
In Italia, secondo Draghi, non c'è un problema di scarsità di risorse pubbliche destinate all'istruzione, ma di distribuzione: troppi docenti ed eccessivo sbilanciamento verso i gradi scolastici più bassi.
L'università e lo studio specialistico e di qualità risultano penalizzati mentre è cambiato poco o nulla sul superamento delle condizioni della famiglia e dell'ambiente di provenienza, dice Draghi, richiamando don Milani e la sua scuola di Barbiana. Che fare dunque?
Bisogna dare più informazioni alle famiglie, occorre privilegiare qualità e merito garantendo però a tutti le opportunità di apprendimento. Si deve aumentare la concorrenza tra gli istituti, privati e pubblici, finanziando da un lato le scuole e le facoltà migliori (non quelle che hanno più iscrizioni) e dall'altro direttamente le famiglie e gli studenti.
«Una più esplicita, consapevole apertura al merito evita che siano mortificati i talenti migliori, se assistita da opportune misure di sostegno degli studenti meritevoli non abbienti ». Il riconoscimento del merito «non è garanzia di equità ma, senza, la società è sicuramente più iniqua, perché accentua la discriminazione generata dalle condizioni di partenza; allo stesso tempo è anche più povera, perché spreca le sue risorse».

Stefania Tamburello
10 -11-2006


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  Diesse-didattica e innovazione scolastica    - 23-11-2006
Il ritorno di don MIlani

È il più citato ultimamente. Un vero e proprio revival dopo anni di colpevole dimenticanza. Il primo a ritrovarne le tracce è stato recentemente Fausto Bertinotti che in occasione del discorso di insediamento come Presidente della Camera ha avuto modo di dichiarare: “Vorrei ricordare da questa tribuna la lezione, in cui vorrei tutti ci riconoscessimo, di una grande coscienza civile e di un riformatore del nostro paese che di questo tanto ci ha insegnato: don Lorenzo Milani”. Lo stesso ex leader di Rifondazione Comunista nel giugno scorso, durante una visita nel Mugello, è tornato a ribadire: “Verso don Milani il Paese ha un grande debito. La sua Lettera a una professoressa dovrebbe essere letta in tutte la scuole a iniziare dalla scuola primaria”. Ma non basta. C’è poi il don Milani del Ministro della P.I. Fioroni. Appena insediatosi partecipò alla marcia di Barbiana, onde improntare il suo ministero all’esempio di don Lorenzo che “ci aiuta… partire da quella scuola che attraverso il suo impegno ha dato la parola ad una povertà che ne era priva, afona. E anche oggi dobbiamo ridare la parola a chi l’ha perduta…”. E c’è anche il don Milani del viceministro P.I. Mariangela Bastico che nel suo sito personale dichiara che tra le poche cose a cui mai rinuncerebbe c’è anche quella di “pensare che don Milani nella sua Lettera a una professoressa ci abbia indicato una strada che non dobbiamo abbandonare”. Di quale don Milani si tratta fin qui? Di una sorta di Robin Hood in abito talare che smaschera l’astruso linguaggio dei ricchi per darne un altro ai poveri; un vendicatore dei ragazzi oppressi dalla scuola di classe, insomma, che si adopera per livellare le disparità sociali mediante una nuova didattica. L’accento è sulla scuola come ambiente capace di modificare le abitudini e le condizioni. Ed ecco che questa icona un po’ scontata di don Milani viene rivista nientemeno che dal Governatore della Banca d’Italia, il prof. Mario Draghi, pure lui ammiratore del sacerdote fiorentino. Nella sua recente e celebrata (ma non da tutti) Lectio Magistralis su “Istruzione e crescita economica” egli dà la sua versione della figura del pastore ed educatore. Riportiamo l’intero passo. “Sul successo scolastico incidono significativamente le condizioni della famiglia di provenienza. Il nostro paese appare da questo punto di vista socialmente quasi immobile. La stessa probabilità di conseguire una laurea dipende dalla qualità dell’istruzione precedente, ma se questa è a volte insufficiente, come oggi in Italia, pesa fortemente l’ambiente socio-economico della famiglia. Troppo poco è cambiato sotto questo profilo da quando, quarant’anni fa, don Milani sollevava, pur in altri contesti, la stessa questione, forte della sua esperienza con i ragazzi della scuola di Barbina. Garantire a tutti i giovani le medesime opportunità di successo nell’apprendimento, purché si adoperino per meritarlo, è la chiave per innalzare insieme l’efficienza e l’equità nel campo dell’istruzione. Entrambi gli obiettivi possono essere perseguiti in vari modi fra loro complementari”. Qui l’accento si sposta da un’idea egualitaria di scuola alle opportunità di apprendimento e al merito nel percorso degli studi. Occorre garantire, sostiene Draghi, che l’equità si coniughi con l’efficienza in un contesto di concorrenza fra istituti scolastici pubblici e privati. Uno spartito nuovo per onorare il sacerdote riformatore. E forse scomodo per chi si trova a rivedere “Indicazioni nazionali”, biennio di scuola secondaria e percorsi di istruzione e formazione professionale badando alla inclusione e non alla qualità dell’offerta. Il don Milani di Draghi non sventola la bandiera pacifista, ma non per questo è meno interessante.