tam tam |  donne  |
Cati Schintu intervista Teresa Sarti
Donne in viaggio - 05-10-2006
Teresa Sarti è presidente di Emergency, l'organizzazione umanitaria che porta assistenza medico-chirurgica alle vittime dei conflitti armati e che promuove una cultura di pace e di solidarietà. Oltre alla chirurgia di guerra, l'attivita' di Emergency si è estesa all'assistenza sanitaria di base e all'attenzione ai bisogni sociali delle popolazioni che vivono in situazioni di povertà e di abbandono. Teresa Sarti è moglie di Gino Strada, medico chirurgo, fondatore di Emergency.

- Cati Schintu: Chi è Teresa Sarti prima di Emergency?
- Teresa Sarti: Io insegnavo in un liceo milanese, insegnavo e allevavo una figlia. Mi verrebbe da dire quasi da sola perché da quando Cecilia aveva 9 anni Gino ha cominciato ad essere in giro per il mondo con la sua attività di chirurgo di guerra, anche se con noi è sempre stato molto presente.
Da questi lunghi periodi di assenza Gino ci portava le storie di guerra, una realtà che non conoscevamo, in cui a finire in ospedale nove volte su dieci sono civili, tre volte su dieci sono bambini e ragazzini. Il contatto con queste realtà era allora soprattutto un momento di crescita e maturazione personale, privata, che ci serviva anche a capire il senso della lontananza,
noi qui, lui là. Non è stato facile.

- Cati Schintu: Quali sono state le ragioni del tuo impegno in Emergency?
- Teresa Sarti: Quando, alla fine del 1993, intorno al tavolo di cucina con 4 o 5 amici, Gino ci ha proposto di creare un'organizzazione umanitaria, piccola, agile e indipendente, per curare le vittime civili delle guerre, io non l'ho inizialmente preso sul serio, mi sembrava una follia, non sapevamo bene da che parte cominciare. Ma lui è molto cocciuto e dopo tante insistenze, agli inizi del '94, abbiamo coinvolto gli amici, e il 15 maggio del '94, dopo aver raccolto 15 milioni e mezzo di lire, il capitale iniziale, abbiamo costituito Emergency.
Il mio impegno nasce con Emergency, di cui sono diventata presidente un po' per caso. Nel tempo credo di aver meritato l'onore e l'onere di questa carica, per cui lavoro a tempo pieno, molto spesso anche di sabato e domenica.

- Cati Schintu: Che significato ha avuto per te crescere con Emergency, con un impegno che è arrivato ad occupare tutti gli spazi della tua giornata?
- Teresa Sarti: Intanto ho potuto conoscere un mondo straordinario, che è il mondo della solidarietà in Italia, forte e vitale nonostante tutto, nonostante gli scandali, gli sprechi. E' sorprendente la risposta delle persone alla richiesta di solidarietà. Noi informiamo sulla realtà delle popolazioni che subiscono conflitti armati, proponiamo soluzioni anche se piccole per aiutarle. E mostriamo, soprattutto, che lavoriamo con professionalità e trasparenza: allora non c'e' neanche bisogno di domandare, la gente vuole fare la propria parte, per quel che può Emergency è anche una grande famiglia allargata, quasi cinquemila volontari davvero fantastici. Tutti i chirurghi di Emergency che si trovano a operare in zone di guerra sanno di poter lavorare grazie all'attività di informazione e di raccolta fondi dei volontari.Un'altra ragione di crescita e arricchimento per me è la constatazione di
quel che Emergency è riuscita e riesce a fare. Quando sono troppo stanca e preoccupata, qualche volta depressa perché le difficoltà sono sempre tante, io ripenso a visi e storie che sono diventate
per me simboliche. Ad esempio, penso a quando nel '97 abbiamo ricevuto dai nostri infermieri kurdi nell'ospedale di Sulaimaniya, nel nord Iraq, delle immagini filmate che ritraggono Soran, il nostro ragazzino di 12 anni a cui era stata amputata la gamba destra, maciullata da una mina antiuomo, che
infila la protesi e corre per il corridoio dell'ospedale. Ecco, tutte le volte che ne parlo, e ne ho parlato moltissime volte, ho sempre quasi la stessa emozione. Valeva la pena di creare Emergency anche solo per quella corsa di Soran e degli altri ragazzi nel corridoio dell'ospedale che escono
nel cortile a giocare al pallone. Così come ho presente il viso di tanti altri che grazie all'intervento di
Emergency hanno ripreso a vivere. Sono queste le cose da cui ricavo un grandissimo arricchimento personale e che mi danno il senso della giustezza della mia scelta. Adesso non è più che Gino è là e io sono qui, facciamo tutti la stessa cosa, con altrettanta passione e impegno.

- Cati Schintu: Dall'osservatorio di Emergency, com'e' cambiato il tuo sguardo sul mondo?
- Teresa Sarti: Be', ad esempio, adesso mi arrabbio moltissimo quando vedo i telegiornali, sembra che siamo chiusi in un cortile senza finestre e guardiamo appena a quello che si svolge nel resto del mondo. A volte mi chiedo come sia possibile dare tanto rilievo, non so, alla dieta mediterranea perché siamo nel periodo delle vacanze estive o allo scandalo di turno, ignorando quel che di grave sta avvenendo. Mi rendo conto che non si può fare del moralismo rispetto al fatto che c'e' sempre qualcosa di più grave, ciascuno ha diritto al proprio osservatorio privato, però davvero è fuorviante e limitante questo sguardo attento solo a quel che ci accade nel cortile di casa. E poi c'e' il modo di intendere la solidarietà. Io ho ricevuto un'educazione cattolica e sono sempre stata convinta che l'attenzione verso l'altro sia un valore, qui a Emergency però mi sono resa conto che non basta voler essere utili, bisogna anche sapere essere utili. In tutti i nostri interventi la professionalità è un aspetto fondamentale, anche rispetto alla passione. Se ci fosse più attenzione alla solidarietà,
gestita in maniera professionale, senza sprechi e con onestà, se ognuno facesse il suo pezzettino, per quello che può, che sia un aiuto economico o mettendo a disposizione il proprio tempo e la propria competenza, davvero io credo che questo cambierebbe il mondo.

- Cati Schintu: Nella tua esperienza, hai mai avuto la percezione che esista una modalità diversa tra uomini e donne nel prestare la solidarietà?
- Teresa Sarti: Io credo di no. Lo vedo ad esempio dalla composizione dei volontari di Emergency, che è trasversale al genere, all'età, alla provenienza culturale e politica e alla appartenenza sociale. Soprattutto ho osservato l'atteggiamento di medici e infermieri nei nostri ospedali. Siamo
abituati a pensare che le donne sappiano esprimere meglio la commozione perché gli uomini se ne vergognano, invece tante volte l'ho vista sui visi dei nostri chirurghi. Anche nel modo di accudire, o semplicemente con una carezza al bambino appena operato, davvero io non ho mai notato in questo
una differenza di genere. Invece, proprio io che sono una donna, all'inizio ho dato giudizi diversi
rispetto a chi decide di partire per molti mesi nelle nostre missioni, ho avuto la tentazione di giudicare diversamente a seconda che la scelta fosse stata fatta da un uomo piuttosto che da una donna. Ti spiego: io non ho mai considerato Gino un incosciente perché aveva lasciato moglie e figlia per portare assistenza alle vittime di guerra, l'ho sempre ritenuta una scelta difficile ma compatibile con la famiglia. Però la prima volta che ho incontrato all'aeroporto un'infermiera che era stata via sei mesi e ho notato che c'erano ad aspettarla i suoi due figli e il marito, mi sono
sorpresa a chiedermi mentre la osservavo che tipo di persona fosse una donna che lascia la famiglia per tanto tempo. Anziché dare per scontato che anche una donna ha il diritto di fare una scelta del genere, mi sono ritrovata a giudicarla per questo. Con l'attività di Emergency ho capito che questo era solo un pregiudizio, quando si selezionano volontari per le missioni all'estero è giusto che la possibilità di partire e gestire una situazione professionale e familiare sia data indipendentemente dal genere. E l'impatto emotivo è poi forte per tutti, non c'e' differenza, un'esperienza così cambia la vita e il modo di guardare alla realtà, anche quando si ritorna a casa.

- Cati Schintu: Per le donne Emergency ha curato dei progetti. Vuoi illustrarceli?
- Teresa Sarti: Prima di tutto vorrei partire da una considerazione più generale. Emergency da subito ha posto grande attenzione alle donne, dando loro priorità nell'assunzione del personale locale per i nostri ospedali. Dare lavoro alle donne irachene, afgane, cambogiane, sudanesi ha voluto dire
insegnare loro l'importanza della professionalità come patrimonio che poi resta. Nei criteri di selezione del personale, a pari capacità, noi tendiamo a scegliere donne e prevalentemente donne che sono di sostegno a bambini, anziani, handicappati. E' un criterio che utilizziamo abitualmente.
Ad esempio, in Afghanistan per cercare personale abbiamo fatto circolare nei villaggi dei volantini ma le donne non si proponevano. Poi, quando è cresciuta la fiducia nei nostri confronti, a poco a poco si sono avvicinate e noi abbiamo fatto il possibile per assumerle. Il che ci ha creato molti
problemi con i talebani. A Kabul, i talebani avevano firmato con noi un protocollo di intesa in cui, al quinto punto, accettavano che nell'ospedale di Emergency le donne potessero lavorare ed essere curate. Nonostante l'accordo, il 17 di maggio del 2001 gli uomini del mullah Omar sono entrati
nel nostro ospedale, hanno picchiato il personale, col pretesto che le donne mangiavano nello stesso luogo dei maschi, pur separati da una tenda, e prendevano il cibo dai cuochi, anche loro maschi. Allora abbiamo chiuso il nostro ospedale perché non potevamo accettare questa discriminazione
rispetto alle donne. Poi con le vicende della guerra abbiamo riaperto. Questa è la nostra pratica, in tutti gli ospedali. Non solo, cerchiamo di affidare alle donne funzioni direttive, laddove è possibile, e questo ha conseguenze positive in paesi prevalentemente islamici, dove la donna ha un
ruolo forte nella famiglia ma nullo fuori, lo riteniamo un messaggio culturale importante.

- Cati Schintu: Uno dei progetti di Emergency per le donne è la mostra "Prima le donne e i bambini" in cui molte bellissime fotografie raccontano di come la guerra, ogni guerra, colpisca soprattutto loro. Il ricorso massiccio allo stupro o l'uso di bambini soldato ci dice di una differenza
di genere fra le vittime civili delle guerre. La mostra nasce da questa riflessione?
- Teresa Sarti: Le donne non prendono parte alle guerre ma sono quelle che ne patiscono particolarmente le conseguenze. La donna, nei paesi in guerra, è quella che mette al mondo dei figli sapendo che in qualsiasi momento possono saltare su una mina, che possono diventare loro stessi portatori di morte. E' su di lei che ricade maggiormente il peso dei conflitti, sostiene
economicamente la famiglia perché gli uomini sono in guerra o perché l'uomo è stato ucciso, lo stesso le accade con i figli. La guerra toglie di mezzo le strutture sanitarie, e una conseguenza diretta è l'aumento della mortalità prenatale. Queste donne non hanno mai visto un medico, hanno
gravidanze numerosissime, a rischio, ma non hanno strutture sanitarie che le possano accudire.
E' anche per questo motivo che Emergency ha deciso di aprire un centro per la maternità, ad Anabah, in Afghanistan, proprio sulla base del bisogno: questo paese ha uno dei tassi di mortalità materno-infantile più alti al mondo. All'inizio mi chiedevo se le donne sarebbero venute all'ospedale, l'ospedale di un'organizzazione straniera, per quanto molto nota e stimata; mi chiedevo se i loro uomini avrebbero accettato che venissero curate. Poi a poco a poco il centro ha ospitato un numero sempre maggiore di donne, di recente sono nati diversi bambini. Lo considero una sorta di risarcimento nei confronti delle donne afgane. Per raggiungere le donne che vivono nei villaggi più lontani abbiamo poi creato una rete di centri sanitari di assistenza di base. Inoltre, per offrire assistenza anche alle numerose donne che partoriscono in casa, negli ultimi mesi del 2005 è stato avviato un programma di educazione al parto e sono stati distribuiti kit sanitari di base per migliorare le condizioni igieniche e prevenire le infezioni Un aspetto positivo è che adesso le donne afgane vengono da noi anche a chiedere il contraccettivo e vengono accompagnate dai loro uomini.

- Cati Schintu: Questo dice anche del tipo di impegno di Emergency, del rapporto di fiducia che si crea?
- Teresa Sarti: Adesso non siamo più visti come un'organizzazione straniera, facciamo parte della comunità, soprattutto là dove siamo da più tempo. Un esempio sono i risultati che abbiamo ottenuto finora in Afghanistan col progetto Carpet Factory, un laboratorio artigianale di tappeti rivolto inizialmente alle vedove di guerra, poi esteso anche ad altre donne in gravi difficoltà. E' un progetto che abbiamo avviato dopo aver constatato che la condizione delle vedove è tra le peggiori, sia dal
punto di vista sanitario che dell'integrazione sociale. Affinché le donne potessero essere libere di lavorare abbiamo prima di tutto cercato il consenso della loro comunità.

- Cati Schintu: Nello scenario delle organizzazioni umanitarie, Emergency ha una modalità nuova e diversa di portare soccorso alle persone. Ad esempio, nel progetto Carpet Factory la donna è al centro dell'attività ma come parte di un tessuto sociale complesso, mentre invece spesso i progetti
umanitari sono concepiti per settori, un po' come se dividessero in compartimenti stagni le aree di intervento e raramente si crea un rapporto vero con le persone.
- Teresa Sarti: La nostra concezione di intervento cerca di essere il più possibile lontana da un atteggiamento "colonialista". Per quel che riguarda Carpet Factory non solo abbiamo coinvolto la comunità, ma abbiamo anche cercato di rispettarne la cultura, solo così i progetti vanno avanti. Un esempio banale: inizialmente il laboratorio era in un edificio costruito apposta perché le donne potessero avere un luogo di lavoro comune fuori casa, in cui le sei maestre avrebbero potuto insegnare il disegno tradizionale del tappeto. In questi ultimi anni i tappeti afgani raffiguravano disegni di elicotteri o di carri armati, o la faccia di Massud. Noi abbiamo inteso recuperare l'uso del disegno tradizionale afgano, e abbiamo fatto in modo che le donne venissero a lavorare tutte insieme. Questo inizialmente andava bene, poi è iniziato l'attacco durissimo del mullah, l'autorità religiosa in Afghanistan, che regolarmente ogni venerdì nel suo discorso attaccava le donne che andavano a lavorare fuori casa e Emergency. Allora, c'erano due possibilità: o soccombere a questo attacco pesante, molte donne avevano dovuto lasciare il lavoro obbligate dai loro uomini, o trovare una soluzione. Allora abbiamo spostato il laboratorio all'interno della struttura dell'ospedale di Emergency con, ahimé, un ingresso riservato solo alle donne. Anche grazie alla mediazione degli anziani del villaggio, il mullah ha smesso di farci la guerra e le donne hanno ripreso a lavorare più
serenamente. A me sembra un'assurdità, per la nostra cultura è un'assurdità, però bisognava trovare un compromesso.
- Cati Schintu: La guerra in Afghanistan è stata propagandata dai media occidentali come modo di liberare la donna dall'oppressione dei talebani, simbolicamente rappresentata dal burka. Per te che hai una conoscenza più interna della situazione afgana, è davvero cambiata la condizione delle donne?
- Teresa Sarti: All'interno degli ospedali di Emergency, le infermiere, le addette alle pulizie ma anche le visitatrici non potevano portare il burka, neanche nel periodo talebano. Questo per motivi igienici e di sicurezza, perché sotto il burka si può portare qualsiasi cosa. All'ingresso
depositano il burka e gli diamo il velo. Però le nostre infermiere immediatamente dopo, quando escono per andare a casa, indossano il burka. E' il loro costume tradizionale, non vedo perché ci si debba indignare se lo indossano. Nel marzo 2002, mentre presentavo un libro con Tiziano Terzani a Bologna, commentando i giornali ancora pieni di questa fola che le donne afgane s'erano tolte il burka, ho detto: "Saranno fatti loro se lo indossano o no" e ho ancora il ricordo commovente di Tiziano che si è alzato in piedi in tutta la sua altezza, vestito di bianco, e si è messo ad applaudire assentendo: "Finalmente sento una donna dire questa cosa. Mia mamma, che abitava in Toscana, neanche sotto tortura si sarebbe messa i pantaloni, e allora non si capisce perché ci dobbiamo scandalizzare per il fatto che le donne afgane scelgono di indossare il burka". E sottolineo che si tratta di scelta, perché ad esempio nel Panshir dove non c'erano i talebani le donne non avevano nessun obbligo di indossare il burka, eppure lo indossavano.
Quando siamo andati per la prima volta in Afghanistan, nel '99, la prima persona che ci ha dato una mano per trovare il luogo in cui costruire l'ospedale è stato il comandante Massud. Gino ha ragionato con lui sulla libertà delle donne, Massud si diceva convinto che le donne si sarebbero
liberate grazie all'istruzione e al lavoro, una considerazione che non ci aspettavamo da un "signore della guerra". Lui non ha fatto in tempo ad assistere al bombardamento "per liberare le donne", è stato ucciso qualche giorno prima. Ma è chiaro a tutti che la liberazione della donna può arrivare solo nel rispetto e all'interno della loro cultura.

- Cati Schintu: In questa direzione, un progetto come Carpet Factory ha cambiato concretamente la vita delle donne?
- Teresa Sarti: L'esperienza del laboratorio tessile è stata strutturata in modo da offrire alle donne la possibilità di lavorare insieme e fuori casa. Le donne che lavorano conquistano un ruolo diverso all'interno della comunità. Discutono liberamente dei problemi che incontrano nel lavoro, cercano soluzioni comuni, e soprattutto esprimono la loro opinione senza più timore. Hanno acquisito maggiore sicurezza di sé e maggiore senso di responsabilità, cosa che ci fa sperare di potere un giorno passare la gestione del laboratorio interamente nelle loro mani.

Fonte: "Donne in viaggio"
Per saperne di più su Emergency: www.emergency.it



  discussione chiusa  condividi pdf