breve di cronaca
Scuola, ci aspettavamo altro
l'Unità - 29-09-2006
È soprattutto doloroso. Ma è anche tanto imbarazzante.

Per 5 anni consecutivi il momento della presentazione della Finanziaria ha dato il via - per me come per altri - ad una serie di interventi a scuola, nelle assemblee sindacali, sul nostro giornale, per denunciare la noncuranza e la facilità con cui il governo Berlusconi si accingeva a falcidiare la scuola italiana. Pensavo, speravo che quel triste rituale si fosse concluso l'11 aprile. Ed è doloroso (e anche imbarazzante) constatare che non è così. Il disagio è forte. La delusione è cocente. Martedì sera Giuliano Cazzola - economista e supporter di Berlusconi - ha potuto affermare, senza essere contraddetto da nessuno, che ad ogni insegnante italiano - in media - corrispondono soltanto 11 alunni. Il che evidenzierebbe un rapporto alunni-insegnanti molto più basso in Italia che negli altri paesi europei. Fin da quest'estate il ministro dell'Economia Padoa Schioppa ha individuato nella scuola un capitolo di spesa sovrabbondante, uno spreco, lamentando un numero troppo elevato di docenti rispetto agli alunni. Da una parte tale affermazione ci rammenta la distanza - colpevole e siderale - tra scuola e mondo accademico, di cui il ministro fa parte. Dall'altra ci induce a ribadire un concetto che evidentemente non si ritiene necessario prendere in considerazione (altrimenti, come si potrebbe continuare a tagliare sugli insegnanti?).
È vero, nel nostro paese il rapporto alunni/docente è per la scuola dell'infanzia 11,8 (contro una media Ocse del 20,2); per la primaria 10,5 (contro il 17,4); per la secondaria 9 (contro il 13,8). Ma questi numeri da soli non dicono niente (o fanno arrivare a conclusioni errate) se non vengono confrontati con ulteriori fattori; per esempio, il numero di ore di insegnamento - molte di più in Italia, soprattutto per effetto del tempo pieno e del tempo prolungato o, alle superiori, per l'elevato numero di discipline. Nel rapporto numerico alunni/docente sono poi inseriti i dati relativi agli alunni diversamente abili - e quindi i docenti di sostegno (80.000). Solo questi due dati indicano come - paradossalmente - nel nostro paese esperienze rilevanti e uniche rispetto al panorama europeo (come l'integrazione in classe degli alunni diversamente abili, che altrove sono affidati a istituzioni esterne) diventino penalizzanti e addirittura un boomerang per colpire la scuola. Il numero dei giorni di scuola è inoltre superiore in Italia (200) rispetto alla Spagna (164) e alla Francia (172).
È da ricordare anche che nella cifra degli insegnanti entrano i 25000 insegnanti di religione cattolica, i circa 140000 precari e che tutti i docenti italiani svolgono attività (prescuola, compresenza, mensa) in altri paesi affidate ad altri soggetti. In ultimo, la particolare conformazione del nostro territorio rende necessaria (e sacrosanta) l'istituzione di scuole in piccole isole e zone di montagna, con la stragrande maggioranza dei comuni al di sotto dei 5000 abitanti. Non sono dati inediti, né valutazioni particolarmente acute. Il problema è capire fino a che punto quell'idea di inclusione sociale che - secondo il programma della coalizione di governo - dovrebbe ispirare l'azione dell'esecutivo sia realmente condivisa da tutti. Forse non si tiene sufficientemente in conto il ruolo importante che il mondo della scuola ha avuto nella vittoria elettorale. O forse, in maniera se possibile ancora più miope, si preferisce ignorare che un paese che voglia realmente crescere (nell'economia, nella cultura, nella democrazia) non può che investire sulla scuola. Una realtà troppo complessa e particolare perché si possa intervenire in modo tanto drammatico - tagliando posti di sostegno e del personale Ata, intervenendo drasticamente a modificare il rapporto alunni/insegnanti, eliminando (come la Moratti aveva fatto) l'organico funzionale, abolendo dai criteri di formazione delle classi la deroga là dove siano presenti alunni con handicap - senza destare la sana indignazione di chi quotidianamente spende la propria vita a scuola. E di chi - cittadini, i tanti che si sono mobilitati negli ultimi 5 anni - ritiene che la scuola pubblica sia il principale luogo della tutela, dell'integrazione, della difesa dei valori civili e democratici. Ignorare queste voci equivarrebbe a disattendere un mandato che gli elettori hanno dato anche pensando alla scuola pubblica. Vorrebbe dire comprimere in criteri esclusivamente economici esperienze didattiche e modelli educativi di cui il nostro Paese deve essere orgoglioso.
L'idea di scuola che un governo ha è fortemente indicativa dell'idea che quel governo esprime della società e del mondo che vuole. La difficile e aspra campagna elettorale dello scorso anno ha puntato in maniera inequivocabile sulla scuola, convincendoci che sarebbe stata una delle basi del tempo di edificare. E ci è piaciuta un'idea di società che partisse da una scuola forte, consapevole, in grado di incidere profondamente.
Ora - pare - ci stanno dicendo che non era esattamente così. O che avevamo capito male. Che i risultati dell'investire sulla scuola, non essendo immediatamente quantizzabili in termini economici, hanno scarsa attrattiva. E, ancora, che i pregiudizi che sono legati alla scuola italiana sono talmente radicati da non poter essere superati, nonostante l'evidenza, nonostante la buona volontà. Nonostante, direi, proprio le cifre e i dati sui quali il ministro Padoa Schioppa ha concepito la sua particolare opera di riedificazione. Perché quelle cifre, proprio quelle, pongono assieme a molte altre valutazioni - paradossalmente - il problema contrario: quello della scarsa considerazione (economica, sociale, professionale) di cui il personale docente gode in questo paese. Riparlare della professione docente e provvedere immediatamente a rispettare la promessa dell'elevamento dell'obbligo scolastico a 16 anni - altro punto chiave del programma dell'Unione, un provvedimento di civiltà, di democrazia e di equità sociale, e allo stesso tempo uno strumento di valore didattico notevole - sono impegni a cui questo governo non può sottrarsi. Parlare di obbligo significa fare esplicito riferimento al dettato costituzionale - che però prevede almeno 8 anni di scuola. I tempi (corroborati dalle dichiarazioni contenute nel programma dell'Unione) sono maturi per procedere all'innalzamento dell'obbligo. Ma le condizioni in cui sta maturando il dibattito politico anche in questo ambito suscitano non poche perplessità. Una lettura di tale provvedimento alternativa allo stare a scuola, al fare scuola è un'altra insidia che si rivelerebbe esiziale per la scuola, ma anche per la credibilità del governo. Nulla più di due ulteriori anni di condivisione e di apprendimento di conoscenze può mettere i ragazzi italiani nelle condizioni di procedere con maggiore consapevolezza ad una scelta che solo a quel punto potrà determinarsi in un'alternativa tra istruzione e formazione professionale. L'innalzamento si pone come una vera conquista di civiltà che rende la scuola istituzione garante di pari opportunità per tutti i cittadini italiani, indipendentemente dall'estrazione sociale, dal sesso, dall'etnia, dalla religione. Non è più tempo di pensare all'istruzione e alla formazione professionale come modelli di esistenza alternativa per i ragazzi di età inferiore ai 16 anni; tale alternativa impone una dicotomia ormai insostenibile tra luogo del sapere astratto e luogo della deprivazione: di diritti, di opportunità, di crescita culturale e civile.
E ora chiudo. Vado a seguire un convegno organizzato dall'Ulivo il cui titolo suona oggi vagamente beffardo: "Sapere, sviluppo, equità. La scuola, l'università, la ricerca per il futuro dell'Italia.

Marina Boscaino

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