Unico, come la scuola media
Redazione - 27-09-2006
"Quanto all'obbligo di istruzione, esso unisce in sé due aspetti entrambi necessari: il ragazzo deve decidere ad un'età in cui ha consapevolezza delle proprie scelte; occorre aumentare l'appeal dell'offerta formativa in modo tale da favorire la lotta alla dispersione scolastica. Questa è la ragione per cui utilizzo sempre la locuzione percorso unitario e non quella percorso unico." (Dalle comunicazioni del ministro dell'istruzione Fioroni sugli indirizzi generali della politica del suo dicastero. Senato, VII commissione, 19 settembre 2006).

All'atto dell'applicazione della legge 9/99 il ministero impegnò molte risorse per preparare in qualche modo, la scuola ad accogliere i ragazzi che il nuovo obbligo scolastico - così veniva definito in tutti i documenti - avrebbe tenuto ancora per un anno a scuola.
Ad essere coinvolti, credo a maggioranza quasi assoluta, furono gli Istituti professionali, ai quali furono indirizzate anche specifiche iniziative di formazione.
Ci si chiedeva di accogliere questi ragazzi costruendo per loro percorsi specifici, con una sorta di "toccata e fuga" - modulare - su temi generali o mirati a ridefinire un minimo di competenze linguistiche e di conoscenze legate al mondo del lavoro ed all'operatività. E, al termine dell'anno, una certificazione di competenze su un modello standard, fornito dal ministero.

Cominciò da qui, prima ancora che dall'istituzione dell'obbligo formativo, una sorta di divaricazione, all'interno di ciascuna scuola, tra chi avrebbe seguito un percorso più o meno lineare e chi no. Con il presupposto che molti dei ragazzi "obbligati" a scuola sarebbero venuti, appunto, solo perché obbligati. E che avrebbero considerato quell'anno in più, una sorta di interregno tra il fuori ed il dentro. Cosa che finiva poi per accadere veramente, anche perché un anno in più non aveva senso, non rappresentava alcuna compiutezza. E spesso si concludeva - e questo era il dato più sconcertante - anche con una bocciatura.

Questa è la realtà, frustrante, che ho vissuto io, nella mia scuola. E sembrerebbe presa d'atto di una impossibilità, mentre invece potrebbe costituire esperienza utile per tentare di evitare gli stessi errori. O meglio: l'errore insito proprio nella differenziazione.

Nel 1962, quando l'obbligo fu elevato a 14 anni, con l'istituzione della scuola media unica sicuramente furono molti sostenere, come si fa oggi per il biennio unico, l'impossibilità per molti bambini che terminavano la scuola elementare, di "reggere" addirittura ben tre anni di scuola in più. In una società ancora in parte contadina, ma in forte evoluzione, che considerava normale - perché storicamente sedimentato nella coscienza comune - il fatto che già a dieci anni si poteva essere utili alla famiglia, a casa per le bambine, nei campi e non solo per i bambini. E non a scuola a tradurre il "De bello gallico", come allora si faceva.
La soluzione trovata fu , quindi, quella di ricostruirla completamente, la scuola media. Unica, uguale per tutti. Certo erano molte ancora le "professoresse" simili a quella alla quale scrivevano i ragazzi di Don Milani, ma quella lettera non fu respinta al mittente.

Ed a sedimentarsi nella coscienza comune fu la normalità dell'andare a scuola fino a 14 anni.

E' possibile, mi chiedo, che questo possa accadere anche per la scuola superiore? O meglio, mi chiedo come mai, dopo anni ed anni di discussioni e proposte di riforma, che partono tutte dal riferimento al luogo comune in cui tutti ci riconosciamo, cioè una società complessa i cui effetti, nel bene e nel male, ricadono in maniera determinante sugli adolescenti, e che, proprio per questo, esige interventi altrettanto, se non più, profondi ed incisivi, quel modello di intervento non venga mai ricordato.

Mi sono riconosciuta in quanto scrive scrive Carlo Avossa: " Vogliamo dire che scuola ed extrascuola siano la stessa cosa? Sarebbe pedagogicamente infondatissimo. Il che non significa che io, docente, non devo portare gli alunni a vedere da dentro che cosa sia un'industria alimentare: ce li porto; ma certamente mettendoli dentro a fare gli operai non impareranno che cos'è un'industria, ma che cosa deve fare un operaio. E qui, forse, casca l'asino. Quest'idea è funzionale ad un modello di società che perpetua le differenze. "

Una risposta indiretta, arriva dal ministro, che, sempre al Senato, ha sostenuto: " Credo che oltre a preoccuparci degli altri Paesi dovremmo preoccuparci anche del lavoro minorile di 150.000 bambini nel nostro Paese e prevedere, con una precisa disciplina, che il lavoro contrattualizzato inizi a 16 anni e che comunque fino ai 18 anni esso abbia carattere prevalentemente formativo, aspetto largamente condiviso non solo dalla maggioranza, ma anche dall'opposizione."

I 16 anni, appunto. Ma, soprattutto - e qui " casca " di nuovo " l'asino " di cui parlava Avossa - cosa si fa nella scuola, entro quel termine. E'su questo che bisogna lavorare, partendo dalla capacità/necessità, per la scuola superiore, di cambiare dal profondo, aldilà delle soluzioni ingegneristiche, di struttura, non certo di senso.

E cambiare non consiste, a mio avviso, nell'abbassamento del livello o degli obiettivi. Cosa che molti lamentano - e con qualche ragione - stia già accadendo da tempo. Mai pensato. Sono le strategie a dover cambiare, per tutti. Soprattutto se il ministro lega l'innalzamento dell'obbligo alla lotta contro la dispersione che riguarda i ragazzi iscritti negli istituti superiori, non quelli che chiudono con la scuola al termine della terza media.

Biennio unico, quindi, che però non immagino come una prosecuzione della scuola media. Unico nel suo essere frutto di obbligo scolastico, con una base comune e riconosciuta per tutti, e con aspetti caratterizzanti la scelta. Sempre rivedibile. Se ci penso bene, questo sì che è l'esistente da cui partire, imparando dai fallimenti del 99. Le passerelle, ad esempio. Furono pensate, allora, per offrire la possibilità di rivedere, motivatamente, le proprie scelte. Cos' come erano state pensate, erano una buona soluzione: i consigli di classe della scuola di partenza e di quella di arrivo avrebbero dovuto lavorare insieme, mettendo a disposizione le loro capacità progettuali ed organizzative, perché il ragazzo che intendeva cambiare, potesse frequentare, già prima della fine dell'anno scolastico "sbagliato" le materie nuove che avrebbe trovato nell'altra scuola. Eravamo noi insegnati, quindi, ad essere invitati a muoverci, prima ancora che i ragazzi. E il fallimento della proposta - almeno in base alla mia esperienza - fu nostro.

Anna Pizzuti

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 giuliano galiardi    - 04-10-2006
Spettabile Redazione,
dopo avere inviato lunedì 3 ottobre il commento riportato sotto vi sarò grato se vorrete sostituirlo con il presente modificato con l’aggiunta di una frase. Grazie

“Se vado indietro nel tempo al momento della scelta della scuola superiore io che avevo una famiglia proletario-piccolo borghese, cioè assai poco culturalizzata e poco attrezzata verso i miei problemi esistenziali e scolastici, devo dire che quel periodo adolescenziale doveva essere gestito dalla scuola in modo molto più responsabile ed intelligente .
Anche ascoltando le esperienze di coetanei ho l’impressione che la scelta della scuola superiore sia stata effettuata in modo molto disinvolto e impreciso
Ed allora perché, se è ancora vero quello che dico, non si pensa di organizzare un biennio di tipo orientativo, incentrato su interessi, attitudini, risorse dell’ individuo e che, dopo un terzo anno specifico o propedeutico, continui nei percorsi tradizionali esistenti ?”
Distinti saluti
Giuliano Galiardi
Ex insegnante
Ipsia di Parma