Croce: un lampo di tristezza
Giuseppe Aragno - 15-07-2006
Con un lampo di tristezza che ci attraversò il petto, Pina uscì dalla mia vita come c'era entrata: per caso. Se ci penso però, nessuno mi toglie dalla testa che spesso la sorte non ha scampo e ci conduce là dove porta la via del tempo che abbiamo vissuto. Sia come sia - oggi ne sono certo - fu un addio consapevole e senza speranze. Ci sentivamo pupi dai fili spezzati e avevamo scoperto che prima si muore dentro, poi il resto non conta.

Non so bene perché, ma c'inventammo una stanchezza di natura tutta professionale e trovammo il rimedio:
- Cambiare, non c'è dubbio, la medicina è questa: stimoli nuovi, un ambiente diverso. Ricominciare, mettere il treno su un altro binario.
Come capita spesso quando mentiamo per disperazione, la recita fu esemplare e sapemmo toccare i toni giusti: franchi, disincantati, ironici, accattivanti. Cambiare ci dicemmo, e via di corsa, dietro l'illusione seducente di una "carriera conclusa da insegnanti": un binario nuovo, luci, colori, stazioni modernissime e mille soluzioni d'avanguardia. E nella corsa gli occhi si fecero lucenti: una nuova giovinezza o forse solo segnali di febbre. Pina si scapigliava e rimetteva a posto di continuo la frangetta anni trenta, io rivoltavo gli elenchi squinternati delle scuole cittadine, sbarravo gli occhi sotto i capelli sempre più bianchi e le indicavo soddisfatto gli istituti vicini a casa mia.
- Lo so, riconoscevo.Commercianti, professionisti, magistrati, funzionari e impiegati pubblici e privati. Non mi sono mai piaciuti, lo ammetto. Però, mi credi? Se mi affaccio guardo nelle aule. Ci pensi a che sarà?
Pina acconsentiva, ma si faceva ironica e un po' amara: - Sarà quel tesoro d'ipocrisia della nostra "società civile". - E poi, solenne, mi faceva il verso: - In privato corrotta e in pubblico sempre molto severa con i corruttori! Così dicevi, o sbaglio?
- Regole, s'intende, professore - le facevo eco, imitando un avvocatuccio del consiglio d'Istituto - nel mio caso, però, se si potesse far qualcosa... Cos'è una regola senza le debite eccezioni?
E trovavamo la sincronia di un coro: - Questi li trovi ovunque. Sì, dai, mettiamo il treno su un nuovo binario!
Non ci dicemmo - si può avere pietà per se stessi - che eravamo ormai a piedi, che il treno s'era irrimediabilmente guastato e non correva più. Eppure lo sapevamo bene: non era la "Siberia" a metterci in fuga; oggi non so, ma in quegli anni al Rione Sant'Alfonso c'era di tutto e bastava cercare: tra il degrado e la violenza, c'era un'umanità palpitante che si faceva posto nel cuore e non ne usciva più. La Siberia non c'entrava niente: era venuto meno il nostro mondo. Se ne stava amaramente uscendo dal palcoscenico della storia e ci sentivamo smarriti: marinai senza bussola in un mare in tempesta. Questo era il dolore non detto, questa l'insostenibile amarezza che ispirava la fuga.
Il Comitato di quartiere per la scuola s'era sciolto da tempo. Politica la gente non ne faceva ormai più e i pochi genitori attivi ce l'avevano coi docenti "buoni solo quando si tratta di parlare". C'erano stati incidenti durissimi: cassonetti della spazzatura bruciati, interventi pesanti della forza pubblica e una violenza che da una parte e dall'altra non aveva nulla a che vedere con la scuola occupata. Avevamo preso le distanze e, a poco a poco, anche con i ragazzi tutto s'era fatto più difficoltoso.
L'idea di rappresentare ad un tempo le Istituzioni e la legalità, gettando sul piatto della bilancia la stima personale acquistata nel quartiere tra i ragazzi e genitori, ci aveva posto di fronte a evidenti contraddizioni. Eravamo un avamposto isolato nel deserto: i raid di poliziotti che colpivano alla cieca - vedono solo i pesci piccolini, sostenevano convinti i nostri alunni - lo spaccio impunito davanti ai cancelli della scuola, i voti in cambio di favori, le zone d'ombra fittissima entro le quali tutto si somigliava, tutto diventava terribilmente uguale, deturpavano il volto delle Istituzioni. Alla lunga, l'equazione Istituzioni uguale legalità s'era rivelata solo un irrimediabile errore. E' vero, al Comune s'era installato il socialismo che sbandierava il rigore di Filippo Turati e bacchettava polemicamente clericali bacchettoni e indecorosi nipotini di Togliatti; giorno dopo giorno, però, la politica si era ridotta a "comitato d'affari" e il discredito delle Istituzioni aveva costi incalcolabili. La storia, sulla quale avevamo insistito con passione, conquistando i ragazzi con la ricerca e trasformando la scuola in una vera e propria fucina di storici in erba, s'era fatalmente rivelata un'arma a doppio taglio: più conosci il passato, meglio capisci il presente avevamo sostenuto per anni, affinando noi stessi e i nostri giovanissimi ricercatori. Ora che in città dominava un partito trasversale, pronto a speculare su progetti irrealizzabili, buoni a finanziare in equa misura corruttori e corrotti, i modelli lungamente proposti si trasformavano fatalmente in un indice puntato. Pennivendoli, velinari e portaborse dell'informazione sbandieravano ai quattro venti le future meraviglie: "Utopia", Neonapoli, la "Città Metropolitana": chi più ne aveva più ne metteva, ma l'araba fenice era alla fine una volgare gallina dalle uova d'oro. C'era poco da insistere sul tema prediletto delle Istituzioni come presidio della legalità: la "Siberia" aveva suoi occhi e sue orecchie nel Palazzo e finì che figli di scippatori e camorristi che ci volevano un bene dell'anima prima fecero il processo al sindaco socialista - "e questo sarebbe Turati, pruvessò?" - poi, per sommare il danno alla beffa, si autoproclamarono nostri avvocati d'ufficio e fu la fine:
- Lo Stato fa schifo, è sicuro! - sbottò una volta Meledandri, un tipo bruno e spigoloso che a 15 anni conosceva il mondo e le regole del gioco, era ladro di destrezza e contorsionista capace di chiudersi dall'interno in un armadietto di settanta centimetri e sparirci per ore fino a rischiare la morte per asfissia - 'O pruvessore però ci crede veramente alla legalità e personalmente nun ha mai imbrogliato. Perciò - concluse seccamente - 'o primmo ca parle l'accide 'e mazzate!

Non trovò difensori padre Marino, uno che anni prima aveva sacrilegamente "aperto ai comunisti", con un giornale "eretico" - "Com Tempi Nuovi" credo si chiamasse - e aveva acquistato credito tra la gente del rione con il gruppo"Siberia" e un centro sociale che faceva assistenza e alfabetizzazione tra poveri ed emarginati. Logorato da una sua feroce contraddizione interiore tra disciplina talare e tempra di ribelle, si era sentito rigenerato nel Comitato di quartiere e in quell'impresa aveva messo ciò che rimaneva d'un antico entusiasmo. Basso, tarchiato, ormai completamente privo dei capelli ch'erano stati mossi e corvini come le sopracciglia cespugliose su due occhi luciferini, un naso lievemente camuso e le labbra carnose, Don Marino aveva avvertito per primo la solitudine minacciosa che andava rapidamente avvolgendo la scuola in un velo impalpabile. Se n'era subito incupito.
- La chiesa è sempre più deserta. Non mi piace, non mi sento tranquillo.
Lo trovarono una sera nella sagrestia, sanguinante e stordito per un colpo alla testa. Aveva un braccio rotto e il viso tumefatto.
- Mo', si tiene 'o coraggio, fa 'n'ata predica rivoluzionaria!
Tutto qui, Non una parola in più: un messaggio cifrato: politico e camorristico. Nel rione qualche commento a voce prudentemente bassa. Nessun segno di solidarietà dalla gente, silenzio delle autorità. Un maresciallo di Pubblica Sicurezza, che conosceva bene il sacerdote, fu esplicito: -
- Padre Marì, ascoltate il consiglio d'un amico: è meglio che lasciate stare.
Il prete se ne andò e non l'ho più visto.
- Siamo soli, spiegò, non è questione di coraggio. Siamo soli e non serviamo a niente.
Pina non disse una parola. Io cercai di trattenerlo:
- Forse una botta in testa dimostra il contrario: qualcosa la facevi se ti hanno aggredito.
- Chiacchiere facevo. Come fai tu. Chiacchiere. E non servono a niente.
Lo seguirono in molti tra i colleghi migliori.
Quell'amara considerazione - "non serviamo a niente" - divenne un ritornello e pensai anch'io ch'era giunto il momento di andar via. Era caduto da poco il muro di Berlino e gli scienziati della borghesia che guidavano il grande partito della classe operaia si avviavano a sbaraccare. In città governava il centrosinistra, ma a dieci anni dal terremoto dell'Ottanta c'era chi viveva nei prefabbricati e in alberghucci per appuntamenti a ore. Della stagione dei sogni non c'era traccia e i movimenti che si accendevano improvvisi, violenti e brevi come scosse telluriche, erano spicchi di proteste separate tra loro in una realtà disgregata che non aveva mai il respiro del futuro: le "mamme coraggio" contro la camorra e la droga ai Quartieri Spagnoli, gli studenti della "Pantera" contro la riforma dell'università, i senzatetto contro gli sfratti e il carocasa. Ognuno per sé senza un progetto comune.
La trincea dell'equazione tra Istituzioni e legalità aveva già le sue gatte da pelare, quando a Galassia Gutemberg - un mercato del libro nato con le pretese di una mostra - i miei studenti incontrarono per caso un uomo simbolo delle Istituzioni: il Presidente della Camera dei Deputati. Un uomo a doppia faccia: galantuomo di vecchia scuola, scienziato illustre della borghesia, non era mai stato comunista, ma aveva trascorso l'esistenza nel Pci senza spiegare mai a nessuno perché fosse quello il suo partito. L'incontro fu breve, ma lasciò segni profondi tra ragazzi affascinati da quel vecchio signore elegante e gentile che accettò in dono un loro stupefacente volumetto in cui narravano con rigore di ricercatori la storia sanguinosa di una rivolta operaia e di un proditoria strage proletaria. Il vecchio scelse di fare le cose per bene e, dopo strette di mano non protocollari a scippatori e ladruncoli in veste di studiosi, chiamò un suo portaborse e gli ordinò di appuntarsi nome e indirizzo della scuola. Il saluto fu solenne:
- Leggerò attentamente e ci rivedremo: vi dirò che ne penso.
Nessuno dei ragazzi aveva chiesto quell'appuntamento e nessuno mi fece mai domande; l'attesa durò un anno. Quando capirono che non sarebbe venuto, se la presero a male.
- 'O presidente non vi ha fatto sapere niente?
Ero perfettamente consapevole di come sarebbe finita, ma non azzardai difese.
- No.
- Non ha scritto nemmeno una lettera per dire scusate ma non vengo? Nemmeno un biglietto per farci sapere se il libro secondo lui è bello oppure fa schifo?
- Nulla. Non ha scritto niente e mettetevi l'animo in pace: non viene.
Meledandri - avevano scelto lui per fare da portavoce, perché era uno che andava per le spicce - si voltò a guardare i compagni, strinse prima gli occhi, poi serrò le mascelle e infine sputò il rospo:
- A voi vi stimiamo, lo sapete. 'O presidente vostro è nu ciarlatano che non mantiene la parola che ha dato. Uno ca nun tene rispetto. Aveva detto che veniva. Si 'o diceva uno dei nostri lo faceva. E se proprio non poteva, mandava qualcuno per cercare scusa. So' meglio 'e nuoste, pruvessò, me dispiace. I nostri sono sono meglio.


Un binario nuovo. Certo. Ma quale treno metterci sopra?
Pina non era una che si arrendeva facilmente e, quando si metteva in testa qualcosa, andava sino in fondo. L'idea che occorresse portare nel sindacato l'esperienza del Coordinamento fu una di quelle cui non rinunciò. Io naturalmente fui per lei subito parte del progetto che, di fronte alla crisi della scuola alla "Siberia", tornò di stringente attualità.. Fece di tutto per convincermi. Un'insistenza cauta, inizialmente scherzosa e quasi sempre dolce, ma incredibilmente tenace. Si appellava al passato:
- Hai la tua storia, lo so. Ce l'hai con la sinistra. Ma è anche una storia di militanza. Non puoi tirarti indietro.
Mi metteva davanti alla crisi che vivevamo:
- Qui va tutto a rotoli. Non puoi far finta di non vederlo. Ho bisogno di una mano. Da sola non ce la faccio.
Approfittava d'ogni occasione:
- Sei tu che mi hai messo in testa l'idea di trovare un modo di non disperdere l'esperienza che gli insegnanti fanno in zone come questa. E hai ragione. Ma c'è solo un modo: aprire la discussione nel sindacato.
Io non mi smuovevo e la prendevo in giro:
- E dai, Pina. Uno come me, un estremista che non conosce mezze misure tu lo vuoi portare al sindacato?
- Saresti utilissimo.
- Levatelo dalla testa.

Presi la tessera poco prima d'un congresso e fu così che il treno si ruppe davvero.


Continua



p.s.: Rabi Khan, nato in Bangladesh e vissuto in Canada, ha suggerito le immagini qui trattate e riproposte: Moment Before the Kiss , The World Outside, e The Kiss sembrano la perfetta colonna cromatica di una storia dolceamara, comunque profondissima - (red)
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