Ada Grossi
Giuseppe Aragno - 01-07-2006
Una napoletana raccontò la guerra civile dalla radio della Spagna libera

Se la memoria non m'inganna, è stato Paul Ricoeur - non a caso un filosofo - a riflettere sull'intima relazione che corre tra "tempo" e narrazione e ad aprire con gli storici un dialogo sulla necessità di "fare storia raccontando". E' il racconto del resto - annota Pierre Vidal - la forma naturale con cui l'uomo prende coscienza del tempo. Bene. La storia che vi narrerò è quella anomala di un "passato contemporaneo" che vive, parla, ascolta, ma non si racconta; storia "ragionata", ma anche storia paradossale dell'inutilità della storia. Pensate alla formula eterna - conoscere il passato per comprendere il presente - e risolvetemi un rebus: perché, ricostruito il passato e compreso il presente, non evitiamo mai gli errori del futuro?
Aurelio e Ada Grossi li ho incontrati per caso - ricostruivo per la Cgil la vicenda in buona parte sconosciuta degli antifascisti napoletani - e non sono mai stati fascicoli di polizia. Non possono essere carte d'archivio cinque antifascisti, padre, madre, e tre figli, che, fuggiti in Argentina nel 1926, partono poi per la Spagna e si battono insieme contro il nazifascismo. Non pensi a carte d'archivio se hai da fare con Carmine Cesare Grossi, avvocato socialista vicino a Bordiga, che frequenta Porzio, De Nicola, Croce e Roberto Bracco, ha il culto di Matteotti e organizza la propaganda radio della Spagna libera assieme ad Ada, la figlia diciannovenne che parla tre lingue e legge i comunicati radio che da Barcellona accendono in Italia fiamme d'una speranza. Non puoi, se hai di fronte Maria Olandese, soprano che cantò per gli zar e in Spagna fu crocerossina mentre i figli Aurelio e Renato erano in prima linea coi repubblicani. Ada soprattutto mi pareva di conoscerla mentre scrivevo di lei nel mio saggio per la Cgil e mentre ne parlavo a studenti incantati che chiedevano che destino poi ebbe. "Non so, rispondevo. Sfuggita a Franco, finì nei feroci campi di concentramento francesi e l'ho persa di vista".
Giorni fa - non chiedetemi come sia accaduto, è lungo spiegare - Ada e Aurelio, evasi dal "secolo breve", sono riapparsi per incanto nella nostra città senza memoria e sono tra noi, involontario indice puntato sulla povertà morale di "parificatori" destri e sinistri, squallidi patroni dei "ragazzi di Salò" che, dopo la vittoria del no al referendum istituzionale, progettano ancora di manomettere la Costituzione in comunità d'intenti con la destra secessionista e razzista.
E' strano, lo so, ma è raro che uno storico incontri la storia, sicché ascoltare al telefono la voce ancora limpida di Ada Grossi mi ha profondamente commosso: "Venga, ci vediamo oggi". Ada è per me la ragazza che il padre mi aveva "presentato" in una lettera sequestrata dalla polizia: "castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico".


Ad aprirmi la porta con un sorriso è invece una signora quasi novantenne, ma è come la conoscessi da tempo e subito le restituisco momenti di vita che i fascisti le rubarono: lettere mai giunte e ritagli di giornali argentini in lingua italiana; uno ha una foto del padre ed un titolo che ricorda "L'odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento". Un'ombra le ha velato il viso, ma ha sorriso quando si è riconosciuta in una nota del questore di Napoli che nell'aprile del '37 così scrive a Roma: "A causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona si è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati. Ora la curiosità va scemando a seguito del sempre più perfetto funzionamento della stazione disturbatrice impiantata presso la Prefettura". Compiaciuta, Ada corregge il questore: "Eravamo socialisti, la radio non era comunista. L'aveva organizzata mio padre per il governo repubblicano e avevamo nella stanza a fianco un compagno, Novalis credo si chiamasse, che trasmetteva per il Portogallo. Un'impresa esaltante: la gente ci scriveva per ringraziarci. Poi giunsero gli stalinisti italiani e fu la fine: ci estromisero perché socialisti". Aurelio, che a 17 anni, col fratello Renato, era già combattente, benché malandato in salute, ricorda gli aspri contrasti coi "bolscevichi" e si emoziona quando gli mostro il verbale di un interrogatorio subìto a Napoli, in Questura, nell'aprile del 1941. Ada, intanto, dà via libera ai ricordi e prende a raccontare ciò che nessuna nota di polizia potrà mai rivelare. E' un mondo che mi dona. Ecco la madre, Maria Olandese, che una foto mi mostra giovane e bellissima e che Ada ricorda ribelle di fronte all'ipocrisia bigotta del rosario serale preteso dalle sorelle del marito, del quale condivide passione politica e idee di progresso. In Spagna, racconta, non badò a sacrifici nel soccorrere le pene dei feriti. In quanto al padre, che perde i clienti minacciati dai fascisti, ha un ritratto di Matteotti al muro del suo studio e sfugge a stento alla furia squadrista.
L'Argentina è prima la terra generosa che l'accoglie con migliaia di fuorusciti, poi il paese oppresso da Uriburu con gli oppositori politici che muoiono nelle galere della "Terra del fuoco". Quando giunge alla Spagna, il primo pensiero è per Garcia Lorca, "barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale" - come non pensare a Machado? "Cadde morto Federico / sangue alla fronte e piombo alle viscere/ Sappiate che fu a Granada il delitto/ Povera Granada!/Nella sua Granata". Ma la Spagna di Ada non è solo ferocia. Vivono nei suoi occhi chiari lampi per la libertà che ha respirato e difeso, per la Catalogna, l'Andalusia, Barcellona e la collina del Montjuic abbandonata all'ultimo istante, mentre in città entrano i falangisti, e si fugge in direzione dei Pirenei sotto le raffiche di mitra degli aerei fascisti. E' la disfatta e il bilancio è terribile: Aurelio ha perso un occhio, Renato, stremato dai lager francesi, avvilito per la sconfitta, è finito in manicomio distrutto dagli elettrochoc - e il dolore per la sua sorte vela per sempre gli occhi della madre - la famiglia è divisa: Ada, sposato un ufficiale repubblicano, torna in Spagna, gli altri vanno dispersi per l'Italia, confinati a Melfi e Ventotene.
Caduto il fascismo, i Grossi si fanno da parte senza chiedere riconoscimenti e, d'altro canto, nessuno mai si ricorda di loro. "Avevamo perso tutto, certo, spiega Ada, ma non c'era nulla da chiedere: abbiamo fatto ciò che pareva giusto. I governi poi erano democristiani, i fascisti non li aveva toccati nessuno e nessuno voleva che si ricordasse. Così siamo giunti a Fini e Berlusconi. Questa è la storia".

La saluto commosso e la ringrazio per la lezione di un'etica politica che ormai non c'è più. Marx però ha ragione: non possiamo giudicare un'epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa. Ada ed Aurelio non possono saperlo, ma hanno fatto molto più di quanto dovevano e, chissà, forse c'è ancora tempo perché la repubblica che hanno contribuito a far nascere, quella che oggi premia Quattrocchi ed esalta gli "eroi di Nassirya", senta almeno il bisogno di ringraziarli.

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 Sylvia Guzmán Grossi    - 04-02-2008
Caro Prof. Aragno,

Sono estremamente comossa per avere avuto la possibilità di leggere questo tuo articolo sulla mia famiglia materna; per avermi trovato di fronte alla foto di mia madre, Ada Grossi, e alla sua durissima, ma stremamente bella e feconda, esperienza di vita, condivisa con i fratelli, lo Zio Aurelio e lo Zio Renato, ed in testa al giovanissimo, piccolo e coraggioso fronte antifascita formato dai tre fatelli, il Nonno Cesare, avvocato, filosofo e tenore dilettante, intelettuale sensibile e coltissimo, e la Nonna Maria bellissima, soprano drammatico e poliglota, ma, soprattutto, dotata di una generosità e di una dignità "fuori dal mondo".

Dalla vita ho avuto il dono di essere nata da questa singolare famiglia e, più particolarmente, dal connubio fra Ada Grossi e mio padre, già defunto, Enrique Guzmán de Soto, spagnolo, anarchico, studente di medicina quando inizió la Guerra di Spagna (per lui, e anche per me, la Rivoluzione spagnola), poi ufficiale repubblicano; poi esiliato in Francia; poi duramente represso dal fascismo in Spagna e ,finalmente, di fronte all'impossibilità di finire gli studi di medicina e, soprattutto, di poterla esercitare nella Spagna di Franco, diventato chimico per portare avanti la famiglia a testa alta, a dispetto di quella Spagna terribile degli anni della mia infanzia e gioventù.

Purtroppo, della Nonna Maria ( Maria Olandese), benchè conosca perfettamente la sua vita incredibile per una napoletana della fine del 800, ho pochi ricordi perchè mi venne a mancare quando non avevo ancora compiuto i 5 anni.
Con mio Nonno, Carmine Cesare Grossi - per me il Nonno Cesare - ho avuto un rapporto bellissimo, di perfetta intesa come se fossimo stati, più che nonno e nipote, compagni e coetanei. Questo rapporto eccezionale l'ho vissuto fino ai 23 anni, quando egli morì.

Conosco la loro storia per filo e per segno e conservo gli scritti che il Nonno Cesare mi dedicò, raccontando gran parte delle sue avventurose memorie.
Sono figlia e nipote di persone che hanno fatto della loro vita un'atto di eroismo continuato, giorno per giorno, perchè credevano fermamente che la volontà dell'uomo deve servire a trasformare la sopravvivenza, alla quale il sistema dominante intende destinarci, in una vita degna di essere vissuta.

Ringrazio i miei per essere quello che sono stati, che sono, e che saranno sempre nella memoria delle persone che credono che la vita sia una strada da percorrere a piedi e non in ginocchia.
E ringrazio te, Prof. Aragno, per avere percorso nello stesso modo la strada che ti ha permesso di incontrare i fratelli Ada ed Aurelio, novantenni, ma stremamente giovani, come quando arrivarono in Spagna, nel 1937, per unirsi alla Repubblica cioè, alla Rivoluzione, come la pensava mio Babbo e come la penso anch'io.

Dalla Spagna, grazie ancora, e ¡Salud, compañero!

Sylvia Guzmán Grossi