L’Italia dal punto di vista delle famiglie: lavoro, consumi, accesso ai servizi, partecipazione sociale
Delinea l'andamento e gli stili di vita delle famiglie italiane il "Rapporto annuale dell'Istat - La situazione del paese nel 2001", presentato stamani nella Sala della Lupa di Montecitorio alla presenza del presidente della Camera, Pierferdinando Casini.
Abbiamo scelto di presentarlo partendo dall'ottica del nucleo familiare e non dal punto di vista individuale, analizzando quindi la relazione delle famiglie con il lavoro (spesso atipico e talvolta sommerso, soprattutto al sud) e la disoccupazione, con i consumi e la fruizione culturale - in cui si accentua il divario tra nuclei benestanti e disagiati specialmente riguardo all'uso di computer, internet, e alle spese per tempo libero, cultura e giochi -, con i servizi sanitari, scolastici e giuridici.
Infine, uno sguardo sul pianeta del non profit e dei volontari, dell'alta partecipazione sociale che coinvolge un quarto degli italiani in associazioni e partiti.
Prosegue nel 2001, anche se lentamente, l'aumento del numero di figli per donna (da 1,24 a 1,25): secondo le stime relative allo scorso anno, le nascite dovrebbero aggirarsi intorno alle 544.500, con un incremento diffuso al nord (tranne Val d'Aosta e Veneto); al centro e nel Mezzogiorno solo Toscana, Calabria e Campania dimostrano un trend positivo, mentre nelle altre regioni si assiste a un calo delle nascite. Tuttavia i dati del '99 evidenziano che i valori più elevati di fecondità si registrano proprio al sud, ad esclusione di Sardegna. Abruzzo e Molise. Una curiosità: nel 2001 la provincia autonoma di Bolzano detiene il primato del più elevato numero di figli per donna (1,52), superando la Campania (1,49) che storicamente è la regione più prolifica del paese. I valori più bassi si registrano in Liguria e Sardegna; tuttavia la fecondità recupera lievemente quota grazie alle regioni del centro-nord.
L'aumento della natalità corrisponde però a una diminuzione dei matrimoni: 270mila nel 2001, 10mila in meno rispetto all'anno precedente. Diminuisce la mortalità e la dinamica complessiva della popolazione è positiva grazie al fenomeno migratorio. In crescita gli anziani: l'indice di vecchiaia risulta pari al 129%, cioè su ogni 129 persone ultra 64enni vivono in Italia 100 minori di 14 anni (in Campania il rapporto è 75 anziani su 100 bambini, in Liguria 239 su 100).
In 700 mila famiglie (2 milioni di persone) non lavora nessuno. ''La disoccupazione è una delle più importanti cause di disagio sociale''
La relazione tra famiglia e lavoro fotografata dal Rapporto Istat 2001 evidenzia innanzitutto “l’opportunità di produrre informazione e analisi del mercato del lavoro condotte secondo una prospettiva familiare”, dato che l’ottica individuale si dimostra insufficiente a cogliere che la disoccupazione, ad esempio, “è una delle più importanti forme di disagio non solo economico, ma anche sociale” e che il lavoro non rappresenta più soltanto “un’opportunità di reddito aggiuntivo a quello familiare, ma anche come un fondamentale aspetto di realizzazione della persona e di inclusione sociale”.
Le famiglie con almeno un componente in età compresa tra i 15 e i 64 anni, appartenente alle forze di lavoro, costituiscono circa i due terzi del totale delle famiglie italiane, che presentano varie tipologie: dal single al monogenitore, dalla coppia senza figli a quella con prole. Se il tasso di disoccupazione scende al 9,5% nel 2001, passando al sud dal 21 al 19,3% (18,8% nel dato più recente), la crescita di occupazione non è distribuita in modo uniforme tra le famiglie italiane: crescono infatti quelle in cui almeno 2 adulti sono occupati (42,5%), mentre non si riducono quelle in cui nessun componente è occupato (11,1%).
Quasi 700mila le famiglie in cui nessuna delle forze di lavoro presenti è occupata: circa 2 milioni di persone, il 68% residenti al sud, dove i nuclei familiari interessati sono 456mila, poco meno di un milione e mezzo di persone. In 12 milioni e mezzo di famiglie, invece, sono occupate tutte le forze di lavoro presenti. “Non ci sono segnali di interventi né di ammortizzatori sociali sulle famiglie disagiate, a maggior rischio di esclusione sociale”, nota l’Istat. Si denota, inoltre, un forte aumento delle famiglie “jobless” con un solo componente su tutto il territorio nazionale: fenomeno (anche europeo) che al nord coinvolge soprattutto i single, mentre nell’area meridionale tocca tutte le tipologie familiari.
Negli ultimi 8 anni le nuove lavoratrici sono donne nel 96% dei casi (su oltre un milione di persone), ma la cura familiare è ancora un ostacolo: il tasso di occupazione per le 30-39enni in coppia con figli si riduce al 48,9% (senza figli: 72,7%). Il contesto familiare, al contrario, condiziona poco la partecipazione degli uomini al mercato del lavoro: il tasso di attività maschile tra i 30 e i 39 anni si mantiene molto alto indipendentemente dal contesto familiare, passando dal 95% degli uomini soli al 97,9% degli uomini che vivono in coppia. Il divario tra le donne, invece, è notevole: lavorano l’89,7% delle single tra i 30 e i 39 anni. Le donne con figli registrano anche un tasso di disoccupazione del 12,3%, più alto rispetto alle donne senza prole (8%) o alle single (6%).
Ancora più evidente il maggiore utilizzo del lavoro a tempo parziale da parte delle donne (16,6%) rispetto agli uomini (3,5%). Il part-time viene scelto per conciliare il lavoro con impegni di natura familiare; tra gli occupati di 30-39 anni che lavorano a tempo parziale, le donne sono sempre la maggioranza: l’80,9% di coloro che vivono in coppia ma senza figli, l’87,7% di chi ha figli, il 57,4% dei single. “Nel Mezzogiorno – evidenzia l’Istat – la scarsa partecipazione al mercato del lavoro delle donne sembra essere principalmente influenzata da un modello ancora molto tradizionale di vita in coppia, che spinge le donne a occuparsi solo della cura della famiglia, indipendentemente dalla presenza di figli”.
Ancora alta la disoccupazione femminile in Italia (13%) rispetto alla media dell’Unione europea (9%); al centro-nord è al 7,2%, cioè meno della metà di quella maschile nel Mezzogiorno. Resta elevata anche la disoccupazione giovanile: le persone in cerca di occupazione con meno di 29 anni sono il 51,4% e il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 29 anni è ancora quasi il doppio rispetto a quello degli adulti tra i 30 e i 39 anni; quello dei 20-24enni è oltre il triplo.
Consumi: per tempo libero, cultura e giochi, alle famiglie disagiate ''bastano'' 29 euro al mese
Come cambiano i consumi e la fruizione culturale all’interno delle famiglie italiane? Dall’ultimo Rapporto Istat, presentato oggi a Montecitorio, nel 2000 la spesa media mensile delle famiglie italiane risulta pari a 2.178 euro, con un aumento del 7,6% rispetto al ’97, dovuto all’inflazione per il 6,1%. Ma, indipendentemente dal tenore di vita, si nota un mutamento negli stili di consumo, in cui trasporti e comunicazioni (carburanti, trasporti pubblici e telefoni cellulari in testa) diventano voci insostituibili accanto ad alimentari, abitazione, assorbendo complessivamente il 63% della spesa familiare.
Se crescono i consumi per tutte le famiglie, non così per i nuclei disagiati, che spendono 29 euro mensili per tempo libero, cultura e giochi, mentre le famiglie benestanti destinano a questo scopo 244 euro al mese. Le famiglie del nord-est spendono complessivamente 2.520 euro al mese, quelle del centro 2.148 e quelle del sud 1.857, quindi si accentuano le differenze territoriali. In aumento i soldi destinati a vacanze e pasti fuori casa, ma anche per assicurazioni vita e malattia, sostenute da un numero crescente di famiglie; nelle regioni del nord, oltre alle spese per i mobili e gli elettrodomestici, in salita quelle per la collaborazione domestica, il baby-sitting e l’assistenza agli anziani.
Le uniche spese in calo sono quelle per istruzione e sanità, quest’ultima dovuta al costo diminuito degli accertamenti diagnostici; solo nelle regioni del nord-est si verifica un trend inverso, in particolare per le visite mediche specialistiche e per le cure dentistiche. Trattandosi di una zona in cui sono diffusi il benessere e la crescita economica, il dato segnala probabilmente “un maggior ricorso alle strutture private e all’attività di prevenzione”, ipotizza il Rapporto Istat 2001.
Gli stili di vita delle diverse generazioni si traducono in comportamenti di spesa molto diversi: le famiglie di anziani destinano una quota maggiore delle loro spese all’alimentazione e all’abitazione, mentre i nuclei composti da giovani e adulti spendono di più per tempo libero e cultura, trasporti e comunicazione. Riducono in modo consistente la spesa mensile le persone sole giovani o adulte (tra i 35 e i 64 anni) e le famiglie monogenitore; in quest’ultimo caso crescono gli investimenti in istruzione, tempo libero e cultura, sanità, servizi di baby-sitting e/o asili nido.
Nel ’97 erano le coppie con 3 o più figli a registrare le spese più elevate, nel 2000 sono le coppie con 2 figli, anche per la progressiva concentrazione delle famiglie più numerose nel Mezzogiorno, che registra i livelli più bassi di spesa per consumi e in cui risiede il 57,4% delle famiglie disagiate. In sintesi, nel 2000 il 20% delle famiglie più disagiate (coppie con 2 o più figli, anziani soli o in coppia) spendeva mensilmente meno di 972 euro, mentre l’equivalente delle famiglie più benestanti (il 65,4% risiedenti al nord, per lo più persone sole, coppie in età giovane e adulta e con un solo figlio) superava i 2.574 euro mensili.
Per quanto riguarda l’uso delle nuove tecnologie, il “cultural divide” persiste tra nuclei benestanti e disagiati: il 27,2% delle famiglie italiane possiede un personal computer, ma solo l’11% delle disagiate e ben il 42% delle benestanti, che per acquistare pc e attrezzature informatiche spendono quasi il doppio rispetto alle disagiate (le quali, comunque, accorciano le distanze, avendo acquistato più spesso un computer dal ’97 al 2000). Se il 30% della popolazione con più di 6 anni di età usa il pc, il 19% degli ultra 11enni si collega a Internet. Con il computer si lavora, si gioca e si studia, mentre Internet è usato soprattutto per svago (69%), per lavoro (52%) e solo nel 16% dei casi per studio.
Ben il 60% dei navigatori on line cerca informazioni su riviste e giornali elettronici, oltre 3 milioni e 800mila persone leggono il quotidiano in rete e il 22% cerca informazioni su servizi di pubblica utilità; il 20% si connette per dialogare tramite chat, forum e newsgroup; solo il 9% fa acquisti in rete (circa 870mila persone).
Tuttavia l’uso del computer non esclude altri media, anzi, si integra con essi e si e accompagna a livelli più alti di lettura e ascolto della radio, mentre diminuisce il tempo dedicato alla tv. Ben 8 milioni di persone usano la rete e i cd-rom per fruizione culturale (quasi il 40% sono giovani tra i 14 e i 19 anni). Meno tv e più radio, meno quotidiani e più settimanali; l’informazione diventa sempre più veloce e personalizzata.
Scuola, giustizia, sanità. Per analisi e visite specialistiche attese più lunghe se si è anziani o si ha scarsa disponibilità economica
Qual è la richiesta di servizi da parte delle famiglie italiane? Il Rapporto Istat 2001 indaga anche sulla relazione del nostro paese con il mondo della scuola, della sanità e della giustizia.
Le bocciature aumentano nel primo anno di ciascun ciclo, che rappresenta una sorta di “sbarramento” tra segmenti in cui “gli standard di profitto e le difficoltà sono fortemente differenziate”, osserva l’Istat; il punto critico sembra una “mancanza di continuità tra i diversi livelli scolastici”. I bocciati al secondo anno delle superiori scendono al 12,8% (aumentano di nuovo al terzo anno dei licei e degli istituti tecnici), mentre al termine del primo anno scolastico alle superiori 2000/2001 quasi uno studente su 5 (il 18,8%) è stato respinto.
Si rileva un aumento della frequenza e di conseguenza una diminuzione dell’evasione scolastica, in particolare nella scuola secondaria superiore, dove gli iscritti erano l’83,6% nell’anno scolastico ’99-2000: il 13% in più rispetto al ’91-’92. Cresce anche il numero di giovani con un titolo di studio secondario che consente l’accesso all’università (71%). Ben l’88% degli docenti si dichiara “molto soddisfatto” del rapporto con gli studenti; tra gli aspetti più critici del sistema scolastico, il 24% ravvisa l’eccesso di burocrazia, il 19% la bassa retribuzione e il 16% l’inadeguatezza delle strutture. Per gli studenti, invece, il principale motivo di soddisfazione viene dai contenuti didattici dei corsi (86%), ma anche dalla relazione con gli insegnanti (84%), mentre le strutture sono definite “insoddisfacenti” da oltre la metà (54,2%).
Meno ottimistico il quadro che emerge dal pianeta sanità: nel sistema sanitario nazionale, infatti, i tempi di attesa per accedere all’assistenza diagnostica e a quella medico-specialistica sono maggiori per le categorie più deboli. I rilevamenti statistici sul Servizio sanitario nazionale evidenziano infatti un “evidente svantaggio di alcune categorie sociali”, che hanno meno alternative al sistema pubblico “in quanto più disagiate dal punto di vista economico, più anziane e con un livello di istruzione medio-basso”. In ogni caso “le persone con un cattivo stato di salute accedono in tempi più brevi ai servizi, indipendentemente dalle loro condizioni socio-demografiche”, rileva l’Istat. Tuttavia i tempi di attesa per accertamenti diagnostici e visite specialistiche, nel 2000, erano maggiori di 60 giorni rispettivamente nel 2,4% e nell’1,2% dei casi, minori di 60 giorni nel 50,7% e 31,2%, oppure programmati (quindi senza alcuna attesa) nel 46,9% e 67,6%.
La riduzione dell’attesa è tra gli obiettivi del Piano sanitario nazionale 2002-2004, insieme al monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza. Al momento, i tempi di attesa per gli accertamenti sono minori nel Mezzogiorno: 5 giorni al massimo nel 50% dei casi, contro i 7 del resto del paese. Anche per le visite specialistiche le regioni del sud mostrano un’accessibilità maggiore, registrando un’attesa che nella metà dei casi non supera i 7 giorni, contro i 15 del nord-est e gli 8 del nord-ovest. Diminuiti la degenza media e i ricoveri a rischio di inappropriatezza, cioè per i quali sarebbe stato più adeguato il day-hospital o l’uso di strutture ambulatoriali. Va ancora monitorato l’eventuale miglioramento derivante dalle autonomie regionali.
Il sistema giustizia sembra registrare i ritardi più consistenti: nell’ultimo decennio la durata dei procedimenti civili al sud è di 2 anni e 7 mesi, il doppio rispetto al nord (1 anno e 3 mesi). Tuttavia il personale denota gravi deficit di organico previsto: i giudici ordinali raggiungono il 92,9%, il personale tecnico e amministrativo l’88%, infine i giudici di pace appena il 72,4% del fabbisogno.
810 mila famiglie fatte di ''atipici''. Una prima classificazione in 31 categorie. La mappa regionale del lavoro sommerso
Per la prima volta il Rapporto Istat 2001 tenta una classificazione dei lavori atipici, individuando 31 diverse tipologie, classificate secondo la durata (permanente o temporanea), l’orario (pieno o ridotto) e la maturazione dei diritti previdenziali (interi o ridotti). Secondo questa griglia, tra il ’96 e il 2000 l’occupazione dipendente atipica nell’industria e nei servizi privati è aumentata del 40%, quella standard dell’1%.
Una prima misura della progressiva diffusione del lavoro atipico viene data dalla percentuale delle famiglie dove è presente almeno un lavoratore atipico rispetto al totale di quelli presenti sul mercato del lavoro: nel ’93 l’incidenza era pari al 9,2%, mentre nel 2001 si è attestata al 15,5%. Il fenomeno, quindi, coinvolge oltre 2 milioni e 200mila famiglie in cui vivono più di 7 milioni e mezzo di persone; tra loro almeno un occupato temporaneo o part-time. Il lavoro atipico risulta più diffuso nelle regioni nord-orientali (18,4%), a nord-ovest e al centro la percentuale scende al 15% e al sud si aggira intorno al 14,2%.
Quasi 810mila le famiglie – pari a circa 2 milioni e 400mila persone - in cui tutti gli occupati sono “atipici”: l’incidenza sul totale dei nuclei presenti sul mercato del lavoro è pari al 5,6%, con un costante aumento nel corso degli anni (3,3% era la percentuale del ’93). Circa la metà delle famiglie con tutti occupati “atipici” abitano nel Mezzogiorno, mentre al nord-est il fenomeno coinvolge poco più del 15% del totale: in queste regioni, infatti, l’occupazione atipica “tende a coniugarsi, nell’ambito familiare, con posizioni lavorative standard”. Gli incrementi più significativi in questo campo hanno riguardato le famiglie con un solo componente, in particolare i single, ma anche le coppie (a prescindere dalla presenza di figli); in entrambi i casi l’ampliamento si è verificato prevalentemente nell’area nord-orientale e centrale del paese.
Per l’Istat la diffusione delle posizioni lavorative atipiche “sembra svolgere un ruolo rilevate nella distribuzione dell’occupazione tra le famiglie, favorendo da un lato il contenimento delle tendenze all’aumento delle famiglie ‘jobless’, e dall’altro sostenendo la crescita del numero delle famiglie ‘all-employed’”.
Oltre un quarto degli occupati dipendenti lavora con un orario flessibile, soprattutto nelle imprese di piccole dimensioni; mentre al nord e al centro la flessibilità viene regolata dal contratto, nel Mezzogiorno si basa in prevalenza su accordi individuali. Cresce anche l’interinale, soprattutto tra gli uomini con meno di 30 anni (nel ’99, l’80% delle imprese ha siglato contratti per meno di 3 mesi), il 10% dei contratti è siglato da lavoratori extracomunitari regolari: una quota “particolarmente consistente, soprattutto tenendo conto di quanto il lavoro sommerso caratterizzi questo segmento della popolazione”.
È una novità di quest’anno, per il Rapporto Istat sulla situazione del paese, anche la presentazione della distribuzione regionale del sommerso, che passa dal 14,5% (1995) al 15,1% dell’occupazione totale (1999); nel Mezzogiorno il 22,6% delle unità di lavoro complessive opera al di fuori delle regole fiscali e contributive; al centro la quota scende al 15,2%, al nord-ovest e nord-est raggiunge livelli inferiori alla media nazionale (rispettivamente, l’11,1% e il 10,9%). Il peso del lavoro irregolare è più rilevante in Calabria (27,8%), Campania (25,9%) e Sicilia (24,1%), contenuto a poco più del 10% in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.
La partecipazione sociale: un quarto degli italiani coinvolto nelle attività di associazioni, sindacati, partiti
Alti i livelli di partecipazione sociale nel nostro paese: circa un quarto degli italiani è coinvolto in attività di associazioni e partiti, con segnali di crescita sul versante del volontariato. Un dato “non trascurabile” e stabile nell’ultimo decennio, assicura l’Istat nel Rapporto 2001, presentato oggi a Montecitorio.
Nel 2000 l’associazionismo coinvolgeva il 21% delle persone con più di 14 anni, coinvolte in attività nell’abito di organizzazioni sindacali, di volontariato, di associazioni ecologiste, culturali o che si occupano di diritti civili. Sono circa 7 milioni e 800mila le persone che versano un contributo sporadico a un’associazione. Il coinvolgimento personale sembra maggiore al nord: Trentino e Alto Adige sono al primo posto nella partecipazione a riunioni di associazioni culturali, mentre per quelle sindacali il primato spetta a Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia. Ancora Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta registrano i livelli più alti di attività gratuite per associazioni di volontariato; al sud si colloca al primo posto la Sardegna.
L’associazionismo è più diffuso nei piccoli comuni (tra 2mila e 10mila abitanti) e quelli con meno di 2mila abitanti, coinvolgendo più uomini adulti tra i 35 e i 54 anni e donne giovani (14-24 anni), anche se nell’ambito del volontariato le differenze di genere sono meno accentuate. Rispetto al ’95 crescono partecipazione a riunioni e attività gratuite nel volontariato, soprattutto al nord-ovest (Valle d’Aosta e Lombardia), mentre al nord-est il Trentino Alto Adige registra un calo e aumenta il Veneto. Al sud si evidenzia un aumento in Campania e Basilicata (dal 5 al 7%). Si riducono le distanze tra aree metropolitane e piccoli centri: i volontari si spostano più facilmente per le riunioni e le attività.
Complessivamente, le istituzioni non profit italiane sono 221.412, concentrate al 50% nelle regioni del centro-nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana). All’opposto, altre 5 regioni (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Umbria e Calabria) sfiorano il 6% del totale. I volontari rappresentano l’80% delle risorse umane, impiegati esclusivamente nel 70% delle istituzioni censite. In totale nel non profit sono attivi oltre 3 milioni di volontari, quasi 100mila religiosi, 30mila obiettori di coscienza, a cui vanno aggiunti 532mila lavoratori dipendenti (la maggioranza a tempo pieno), quasi 80mila con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e circa 18mila distaccati da altri enti: 4 milioni di persone, quindi, gravitano in questo pianeta.
I finanziamenti hanno un’origine privata nel 64% dei casi. Cultura, sport e ricreazione i settori principali di intervento (63,3%); il secondo settore è quello dell’assistenza sociale, di cui si occupa l’8,7% delle istituzioni non profit (19.344); segue il settore delle relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (7,1%). Tra le altre voci, tutela dei diritti e attività politica (3,1%), promozione e formazione religiosa (2,7%), sviluppo economico e coesione sociale (2%), ambiente (1,5%), cooperazione e solidarietà internazionale (0,6%), filantropia e promozione del volontariato (0,6%).
“Si partecipa direttamente alla vita sociale e politica impegnandosi nelle attività delle organizzazioni e dei gruppi politici e non – spiega l’Istituto nazionale di statistica -, ma anche interessandosi e coinvolgendosi sul piano della comunicazione, che è strettamente collegata ai percorsi di formazione dell’opinione pubblica”. Nel 2000, ad esempio, il 30,3% delle persone con oltre 14 anni si informava ogni giorno di politica, ma la percentuale sale al 54,5% se si considera il tempo settimanale; il mezzo d’informazione prescelto è la televisione (93,7%), quasi al 50% i quotidiani. Il divario tra regioni è evidente tra centro-nord (Emilia Romagna 42,3%, Friuli Venezia Giulia 37,9%, Toscana 36,4%, Veneto 35,4%) e regioni meridionali (Campania 16,8%, Calabria 18,5%), dove oltre il 30% non si informa mai di politica. A livello nazionale ben un quarto della popolazione non si informa mai di politica (24,7%), e la percentuale sale per le donne (32,7%), arrivando al 55,1% per le anziane. Alte le quote anche tra i giovani tra i 14 e i 17 anni (43,9%) e tra i 18-19 anni (31,7%).(lab)