breve di cronaca
La scuola di Prodi
Dalle Dichiarazioni Programmatiche del Presidente del Consiglio dei Ministri On. Prof. Romano Prodi al Senato

Signor Presidente del Senato,
onorevoli senatrici e onorevoli senatori,


il mondo del XXI secolo non è solo ... un mondo carico di rischi e di paure. E' anche un mondo carico di straordinarie opportunità, nel quale un terzo dell'umanità si è svegliato, è uscito dall'isolamento e ha trovato la strada di un formidabile sviluppo economico. Nel quale, tra la Cina e l'India, oltre due miliardi di persone stanno scoprendo e provando che la povertà e la miseria non sono una maledizione eterna.
Un mondo che sta imparando a conoscere il valore della tutela dell'ambiente. Un mondo al quale i progressi della scienza, della medicina, delle biotecnologie schiudono nuovi orizzonti e nuove speranze di vita.
E, tra rischi e opportunità, l'Italia vive un momento di grande difficoltà e incertezza.
La nostra gente sembra più occupata a difendere il benessere residuo che a costruire per sé e per la collettività nuove occasioni di sviluppo e di crescita, mentre si allarga l'area delle vecchie e nuove povertà.
I nostri giovani sembrano costretti a una vita segnata dalla provvisorietà, dall'incertezza sul proprio futuro professionale e di vita.
Il nostro sistema produttivo sta perdendo colpi, si stanno erodendo le nostre quote di mercato nel commercio mondiale. Scivoliamo indietro in tutti gli indicatori più importanti.
Le ragioni per cui questo avviene sono profonde. Il mondo è cambiato, sono cambiati i modi di produrre, e sono cambiati i fattori indispensabili per accrescere la competitività del sistema Italia.

Oggi vince chi riesce a restare sulle frontiere della innovazione. Una innovazione fatta di ricerca, di scuola, di università, di mercati aperti all'ingresso di nuovi protagonisti, e che trova la propria condizione di successo in una grande capacità organizzativa.

Noi abbiamo come compito primario quello di ribadire l'importanza delle regole, e soprattutto il loro rispetto.
Credetemi, avremo tutti da guadagnare da un ritorno alla sobrietà della politica e del potere.

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Quando rifletto su questi temi il mio pensiero va innanzi tutto alla necessità di offrire un esempio ai giovani. È infatti ai giovani che dobbiamo soprattutto pensare.
La nostra società e la nostra economia stentano anche perché non valorizziamo e impegniamo pienamente le grandi risorse dei giovani e delle donne. Ma, pensando ai giovani, mi chiedo come sia possibile appellarci alla loro freschezza, alle loro energie, alle loro capacità, alla loro voglia di fare, se la loro vita avviene in un contesto che demotiva e scoraggia, perché premia la furbizia invece del merito, la disinvoltura sul piano etico invece del rispetto delle regole. E come è possibile vederli partecipi e creativi se essi arrivano su un mercato del lavoro che li condanna in misura crescente a una condizione di permanente provvisorietà.
L'Italia non ha scommesso sui giovani: eppure solo scommettendo su di loro - come il nostro governo intende fare - potrà riprendere il cammino dello sviluppo. I nostri giovani hanno oggi meno speranze di quante ne avessimo noi alla loro età. Eppure potrebbero avere davanti a loro orizzonti sempre più ampi. Eppure, nei pochi casi in cui vengono date loro delle occasioni, esprimono al meglio tutte le loro qualità.
Certo, la società ed il mondo del lavoro hanno oggi bisogno di flessibilità. Ma la flessibilità, interpretata come precarizzazione, non ha aumentato la capacità competitiva del sistema ma lo ha impoverito. In realtà, la società italiana ha bisogno di meno precarietà ai livelli medio-bassi di impiego, mentre necessita di una cospicua iniezione di competizione agli altri livelli, ma soprattutto a quelli medio-alti.
Una competizione che premi il talento individuale e la capacità di lavoro, la creatività e la capacità di leadership. In una parola: il merito. Una competizione orientata anche a ricostruire la mobilità sociale perché in questi anni la mobilità sociale in Italia si è arrestata.
Una società senza mobilità, in cui i figli ereditano la stessa professione dei padri, non è una società che cresce. Una società retta da gerarchie sociali consolidate che demotiva le energie nuove, perpetua disuguaglianze inaccettabili. E' quello che avviene oggi in Italia, diventata una delle società meno mobili d'Europa e del mondo. Una società che nega il futuro ai suoi giovani, nega il futuro a se stessa.
Noi qui intendiamo agire con una gamma di interventi. Intendiamo sottoporre a revisione la legge 30 per attuare una politica del lavoro capace di armonizzare flessibilità e stabilità riducendo fortemente l'area della inaccettabile precarietà. Lo si farà all'interno di una analisi complessiva della normativa che regola il mercato del lavoro, cercando di giungere, attraverso la strumento della concertazione con le parti sociali, alla definizione di un nuovo quadro organico. E, attuando una riduzione dell'eccessivo carico contributivo sul lavoro dipendente, su cui tornerò più avanti, attenueremo anche di molto la convenienza dei contratti atipici.

Agiremo poi per aprire spazi significativi ai giovani nell'università e nella ricerca perché l'Italia ha bisogno di giovani che insegnino e facciano ricerca con stabilità e libertà.

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A causa della precarietà del lavoro, le giovani coppie devono differire la scelta di farsi una loro famiglia, il sogno di farsi una casa perché il sistema bancario non concede mutui proprio per la precarietà dell'occupazione. Agiremo perciò per ridurre l'area del precariato e per istituire un fondo di garanzie per i mutui alle giovani coppie.

Per noi tuttavia i sostegni economici non si sostituiscono ai servizi. Porremo perciò a noi stessi e agli enti locali l'obiettivo di raddoppiare nell'arco della legislatura il numero degli asili nido, per andare incontro a una domanda oggi largamente insoddisfatta.

Ma ciò vale per tutti gli ambiti dei servizi alla persona. E' questo il modo di garantire i diritti di cittadinanza a tutti, in particolare alle persone in maggiore difficoltà, spesso non autosufficienti: agli anziani, ai disabili, ai malati, a tutti coloro che vivono con disagio il loro inserimento nella società.

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La coesione sociale è un elemento fondante della qualità civile di una società, un patrimonio che è stato faticosamente costruito e che in anni recenti è stato in parte consumato. Noi dobbiamo ricostruirlo, ma in un'ottica nuova.

L'insieme dei servizi sociali, la sanità, la scuola, la previdenza, la stessa distribuzione dei redditi non sono, in quest'ottica, solo il risultato di politiche di redistribuzione, ma parte integrante di un progetto di sviluppo civile, sociale ed economico del paese.

Su un altro piano, è fattore di coesione anche l'attenzione a diritti o condizioni nuove che meritano di essere comprese e giustamente tutelate.
Per noi la coesione sociale è un fattore di sviluppo. Non possiamo pensare di competere riducendo il livello delle tutele e dei servizi sociali né aumentando gli squilibri dei redditi. Al contrario, dobbiamo valorizzare fattori di equilibrio e coesione della nostra società, per favorirne la crescita.

I due settori più importanti sono la sanità e la scuola.

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Per il futuro dell'Italia e per il suo sviluppo l'istruzione rappresenta l'elemento chiave. Non si torna a crescere senza investire mezzi ed energie intellettuali nella ricerca, nella innovazione, e nella scuola.

Dobbiamo investire in conoscenza diffusa, in qualità ed efficacia dei percorsi formativi, cominciando dalle scuole per l'infanzia fino ai livelli più alti, restituendo valore e dignità ai percorsi formativi tecnici, e creando centri di eccellenza.

Siamo consapevoli che la scuola è una macchina complessa che ha bisogno di un progetto condiviso e di lungo periodo per dispiegare l'efficacia della sua azione educativa. Dopo dieci anni di riforme e controriforme, è giunto il momento di mettere ordine, fare il punto, cambiare ciò che palesemente non funziona o ciò che appare sbagliato, e dare stabilità. Valorizzando appieno l'autonomia degli istituti e il ruolo degli insegnanti.

Sbagliata appare la liquidazione della formazione tecnico-professionale. Abbiamo invece bisogno di valorizzarla ed estenderla attraverso percorsi universitari brevi, attraverso istituzioni che diventino le scuole tecniche del XXI secolo.

Ho già notato che si stanno intensificando in queste settimane segnali di uscita dalla stagnazione. Ebbene, la ripresa economica sta evidenziando una mancanza di operai e tecnici specializzati in molti dei settori industriali che caratterizzano il sistema produttivo italiano. Solo la formazione e specializzazione professionale possono riportare equilibrio tra domanda e offerta di lavoro limitando i nuovi flussi migratori.

I nostri giovani devono ereditare e accrescere la cultura industriale del Paese. Il sistema scolastico e formativo è lo strumento che deve portare a questo obiettivo riavvicinandosi al mondo della produzione. E' necessario ricostituire quel binomio scuola tecnica-impresa che è stato alla base della crescita industriale del paese.

Dobbiamo poi concentrarci sulla ricerca, perché la competitività economica del Paese richiede un grande salto in avanti in tutti i settori della ricerca e della innovazione tecnologica. Con appena l'1,1 per cento del Pil destinato a ricerca e sviluppo l'Italia è agli ultimi posti in Europa e nell'Osce. Così si va solo indietro.

E allora occorre un forte impegno nelle politiche per la ricerca, con interventi mirati su specifici programmi nelle aree di netta priorità, con il credito di imposta automatico sulle spese di ricerca, con il riconoscimento di agevolazioni per le assunzioni di ricercatori, con una politica attiva di trasferimento tecnologico.

Faremo delle università italiane un polo di attrazione per la formazione dei giovani e dei ricercatori, cui occorre garantire stabilità e libertà di ricerca. Stimoleremo decisamente le lauree in discipline scientifico-tecnologiche, anche in relazione alla creazione o al rilancio di distretti tecnologici collegati con le università, gli enti di ricerca e le realtà produttive del Paese.

Come dicevo, abbiamo risorse umane, energie, intelligenze, competenze da mobilitare in uno spirito di coesione perché il nostro Paese torni a crescere.


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Grazie della vostra attenzione.

18/05/2006
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 Gianni Mereghetti    - 20-05-2006
Prodi nel presentare il programma del suo governo ha dedicato una certa attenzione anche alla scuola. Ha fatto dei cenni generici e del tutto scontati, come ad esempio che si deve investire in conoscenza diffusa e in qualità dei percorsi formativi, ma ha anche fatto capire che per quanto riguarda la riforma cambierà ciò che palesemente non funziona – restiamo in attesa di sapere che cosa, anche se è probabile che tra ciò che non funziona dobbiamo mettere “il tutor” e “la scelta a quattordici anni tra liceo e formazione professionale”. Non ha citato la parità scolastica, perché deve tenersi buona una certa parte della coalizione, come per avere il gradimento da un’altra parte ha evidenziato la centralità della formazione tecnica. Tutto secondo copione, anche se di questo copione c’è da trattenere quelli che sembrano i due punti centrali della politica scolastica del nuovo governo: autonomia scolastica e ruolo degli insegnanti. Se è questa la scuola che vuole Prodi, una scuola dell’autonomia e con al centro la professione docente, sia benvenuta! Infatti una scuola moderna non può che essere autonoma, ma autonoma fino in fondo, ossia costituita dalla libertà di chi a scuola ci va. Per questo ben venga che Prodi garantisca a tutti la possibilità di costruirla la scuola, perché questa è autonomia, non che ogni scuola decida il da farsi a colpi di maggioranza, bensì che in ogni scuola, come dice la legge dell’autonomia, possano operare tutti coloro che hanno una proposta educativa, sia coloro la cui proposta è condivisa dalla maggioranza sia le diverse minoranze. E’ evidente come una autonomia reale implichi la parità, perché fa parte del principio stesso della libertà di educare la possibilità che chiunque costruisca scuole. Se quindi è interessante l’apertura di Prodi all’autonomia, a patto che dica la volontà di mettere al centro del sistema i soggetti che fanno la scuola, ancor di più è la sottolineatura della centralità della professione docente. A questo riguardo un suggerimento a Prodi, tolga a noi insegnanti le mille prescrizioni che ci opprimono e ci conceda la libertà di far scuola, certo una libertà di cui possiamo dar conto, e non attraverso sistemi assurdi di valutazione del nostro lavoro, come i diversi Progetti Qualità, ma attraverso una valutazione seria della qualità del nostro lavoro, quella che possono fare famiglie e studenti, scegliendoci o rifiutandoci. Ma avrà Prodi il coraggio di premiare gli insegnanti che valgono, prendendo le distanze dall’egualitarismo che i sindacati vogliono conservare? Se non avrà questo coraggio, l’autonomia di cui parla è solo uno specchietto per le allodole, perché senza libertà continuerà a mancare ciò che rende affascinante insegnare ed imparare. E’ una partita decisiva quella che si gioca ora nella scuola, è la partita tra libertà e conservazione. Prodi ha detto “autonomia”, sia coerente a quanto implica, perché un’autonomia senza libertà per tutti i soggetti è la scuola di oggi dove si fa ciò che vuole la maggioranza, ossia nulla di interessante. Chi va a scuola invece ha bisogno di vedere una mossa di libertà, lì inizia il fascino del cammino educativo. Questa mossa Prodi non la può dare, favorisca che là dove c’è si sviluppi, tutto qui, sarebbe il miglior programma possibile!

 Gianfranco Giovannone, insegnante, scrittore e animatore del    - 21-05-2006
Le dichiarazioni programmatiche dei baby-governi non possono che generare noia e sbadigli, appartenendo di buon diritto al genere letterario dell'aria fritta. Certo, se Prodi avesse detto di voler riprendere il progetto dell'ex-ministro De Mauro per portare attraverso 3 leggi finanziarie gli stipendi degli insegnanti italiani ai livelli europei sarebbe stato diverso. Poteva farlo. Srebbe stato l'unico modo serio per riconoscere la centralità della professione docente.Ma aria fritta x aria fritta preferisco quella di Prodi a quella di Gianni Mereghetti. Che offre una singolare visione di tale centralità: "A questo riguardo un suggerimento a Prodi, tolga a noi insegnanti le mille prescrizioni che ci opprimono e ci conceda la libertà di far scuola, certo una libertà di cui possiamo dar conto, e non attraverso sistemi assurdi di valutazione del nostro lavoro, come i diversi Progetti Qualità, ma attraverso una valutazione seria della qualità del nostro lavoro, quella che possono fare famiglie e studenti, scegliendoci o rifiutandoci. Ma avrà Prodi il coraggio di premiare gli insegnanti che valgono, prendendo le distanze dall’egualitarismo che i sindacati vogliono conservare?"
Nostalgia del concorsaccio di Berlinguer? Certo una semplificazione pericolosa della questione del merit pay, pericolosa e ad alto tasso di demagogia. Spero che i colleghi leggano attentamente le parole che ho riportato.
Infine due parole ingenue sull'autonomia, una di quelle parole che come riformismo e globalizzazione stanno conoscendo un grado di pazzesca entropia. Davvero il problema di noi insegnanti è la libertà di insegnamento, davvero stiamo attraversando una fase di obblighi e costrizioni intollerabili? Non è piuttosto una fase di massima anarchia e confusione dove ognuno può fare assolutamente quello che vuole perchè a nessuno, nemmeno alla Moratti, della scuola importa più niente? E vorrei che qualcuno mi spiegasse come una maggiore autonomia potrebbe migliorare i modesti standard educativi del nostro paese, soprattutto per quel che riguarda le conoscenze matematiche e scientifiche. Non ci sarebbe bisogno, al contrario, di fissare, a livello centrale, degli obiettivi minimi di competenze e assicurarsi che vengano rigorosamente raggiunti?


 Fabrizio Polacco- Roma    - 21-05-2006
Purtroppo l'autonomia scolastica introdotta negli istituti da alcuni anni è stata finora esattamente ciò che Mereghetti paventa : l'oppressione di una maggioranza sulla minoranza, del conformismo pseudo-scientifico-pedagogico sulla libertà di insegnamento, dei POF e delle procedure che vincolano e avviliscono la pratica educativa sulle scelte responsabili dei docenti e sulle esigenze di crescita umana, culturale e professionale dei ragazzi.

Molte scuole si sono così trasformate in piccole repubbliche, peraltro illiberali, afflitte da micro-istituzioni, parlamentini, riunioni pletoriche, cavillosi codici di comportamento e regolamenti interni (capita anche di arrivare a leggere, in classe e interrompendo la lezione, cento, duecento circolari l'anno).
Invece gli insegnanti dovrebbero coltivare la proprio vocazione - i non pochi che la hanno - ed essere lasciati liberi di fare essenzialmente due cose : continuare a studiare (poiché l'approfondimento e l'aggiornamento di ciò che si trasmette - che per i giovani è comunque nuovissimo, benché scritto magari due o tremila anni fa - è esigenza fondamentale) e insegnare. Occorerebbe d'altra parte ridurre al minimo tutti gli adempimenti inutili e non confacenti alla professione, che hanno il solo risultato di distogliere docenti e alunni da un rapporto reciprocamente vivificante .

Come valutare i docenti? Non certo con quiz o concorsi vari, e tanto meno con l'accumulo di punteggi basati sulla loro permanenza fisica o sul loro agitarsi all'interno dell'istituto, magari per fare altro (con il paradosso che il docenti 'migliore' risulterebbe magari quello più capace di coordinare dipartimenti o lavorare con le carte, insomma chi si è assunto quelle che erano le vecchie 'funzioni obiettivo': tutte cose utili ma che non sempre corrispondono ad una effettiva qualità dell'operato in classe).

Mi attira la proposta che mi pare ventilata tra le righe dal collega: lasciare che le famiglie, per i più piccoli, o gli alunni stessi, nel caso delle superiori, esprimano una loro valutazione 'con i piedi', cioè scegliendo liberamente di seguire il corso di questo o quell'insegnante. Sarebbe una prassi forse sconvolgente, e perciò andrebbe in qualche modo regolamentata, per evitare che si finisca con il premiare l'insegnante 'buonista' o quello ideologicamente più affine. Andando in forte controtendenza rispetto a quanto fatto da tutti gli ultimi governi, occorrerebbe perciò inserire correttivi e vincoli tendenti a responsabilizzare tutti quanti: serie prove di passaggio o esami selettivi, non solo da un ciclo all'altro, ma anche da un anno all'altro, effettuati ovviamente da docenti esterni;
conoscenze e competenze molto chiare da conseguire per tutti di anno in anno (pochi testi base, e poi margini di libertà di scelta per ciascun docente),

Insomma, se i docenti diventassero o anche solo apparissero agli allievi degli 'allenatori' - non solo agli esami, ma anche alla vita - più che dei giudici o dei controllori, e se per di più divenissero oggetto di una scelta personale, forse allora non solo i risultati scolastici sarebbero migliori , ma svanirebbero anche molte contestazioni e ribellioni, incomprensioni e intolleranze.
Ma temo di aver fatto finora solo un bel sogno.