Scuola elementare: programmi a confronto
Bruna Sferra - 03-05-2006
INTRODUZIONE

Le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati, allegate al D.lvo n. 59/04 applicativo della L.53/03, dovrebbero sostituire i Programmi Nazionali del 1985 (DPR 104/85). Già ad una prima lettura si evince in modo evidente l'estrema povertà ed il basso profilo culturale e pedagogico delle Indicazioni Nazionali; sembrano scopiazzate dai Programmi del 1985 in modo estremamente disordinato e confuso e con il preciso intento di stravolgerne il progetto culturale, pedagogico e politico che essi intendevano realizzare e quindi le finalità che ne costituivano il fondamento.
Per tali tematiche, gli estensori, di cui non si conoscono i nomi, sembrano ispirarsi ai ben più vecchi Programmi del 1955. Infatti, ad una lettura più attenta, emergono diverse similitudini tra le Indicazioni Nazionali e i Programmi del 1955.
Chi conosce la scuola elementare ha denunciato il regresso di 30 anni che la riforma Moratti ha apportato ad essa, ma questo raffronto dimostra come questo ritorno al passato sia ben più consistente.
I Programmi del 1955, sebbene abbiano avuto una durata formale trentennale, furono sostituiti de facto ben prima del 1985 da una serie di radicali innovazioni sia nel campo della legislazione sia in quello pedagogico. Oltre all'istituzione della scuola media nel 1962 e della scuola materna nel 1968, che pure hanno influito sulla natura stessa della scuola elementare, ci furono la L.820 del 1971 che istituì il tempo pieno, i Decreti delegati del 1974 e la L.517 del 1977 che modificò i tratti fondamentali del rapporto tra maestro e scolaro sotto i profili della valutazione, della programmazione e dell'integrazione dei bambini portatori di handicap. La logica della programmazione portò al rifiuto del concetto stesso di programma ministeriale. Alcuni evidenti parallelismi tra le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati e i Programmi del 1955 possono tristemente ricondurre i fini della scuola elementare "morattiana" a quelli di 50 anni fa.

SOMMARIO

• Esplicazione articolata e commentata sulle sostanziali similitudini e differenze tra i tre programmi in merito alla personalità dell'alunno, al rapporto scuola- famiglia- extrascuola, al dettato costituzionale, alle pari opportunità, alle difficoltà d'apprendimento e all'handicap.
• I cicli scolastici nella scuola elementare nei tre programmi.
• Educazione alla convivenza democratica (Programmi del 1985) ed Educazione alla convivenza civile (Indicazioni Nazionali).

LA PERSONALITA' DELL'ALUNNO

I Programmi del 1985 aderiscono ad una pedagogia della formazione scolastica attenta alla globalità dello sviluppo umano e all'intero potenziale di cui ogni soggetto dispone: movimento, cognizione, affettività sono forze dinamiche e interattive di uno stesso processo di sviluppo, anche nelle esperienze di relazione e di apprendimento proposte dalla scuola; e ciò significa che muoversi, conoscere, provare sentimenti, sono per il bambino bisogni primari, ma anche esigenze di formazione per diventare capace di "funzionare" interamente, come persona, ad un buon livello di integrazione e di organizzazione delle sue risorse e capacità. È l'idea di una persona in cui "le fuzioni motorie, cognitive ed affettive" operano in modo sinergico. Bisogna rifarsi alle teorie organismiche della personalità, ben note alla psicologia umanistica-laica, per cogliere l'importanza dell'opzione pedagogica contenuta nella Premessa dei Programmi del 1985, il cui punto focale consiste nell'immagine di una scuola che accoglie ogni alunno come persona totale. Significa provocare l'azione simultanea, sinergica, delle funzioni senso-motorie, intellettive, emozionali ed affettive, ottenendo dall'alunno risposte che non sono mai il risultato di una parte soltanto della sua personalità, ma messaggi a più dimensioni, segnali evidenti del suo crescere come unità originale, funzionante secondo propri ritmi e strategie. Il dato interessante è l'aver individuato un potenziale di creatività, tutto da valorizzare, nel modo con cui ciascun alunno impara a "funzionare", fino a provare il gusto di imparare, di sforzarsi, di riuscire. Sviluppare la creatività non è l'attesa di una miracolosa "fioritura" di capacità e di risorse, ma è l'offerta sistematica di sollecitazioni e di opportunità formative. È Brunner che introduce, nella sua ipotesi sulla creatività, il concetto di "azione creativa" come azione che può generare una "sorpresa produttiva" come egli la chiama; che non è mai un fatto bizzarro o eccezionale, una sorta di effetto raggiunto per caso, ma il risultato "di un bisogno profondo di capire qualcosa, di padroneggiare una tecnica, di rinnovare un significato".
I programmi del 1955 si riconducono alla tradizione educativa umanistica-cristiana ispirandosi espressamente alla concezione del personalismo, cioè all'affermazione del valore della persona e dei suoi "valori che la fondano: spiritualità e libertà, all'istanza di una formazione integrale". La premessa di questi programmi, nel fondare tale filosofia dell'uomo, si ispirò al filosofo francese, allora contemporaneo, Jacqus Maritain il quale sosteneva che il concetto di persona si è arricchito dei contributi del pensiero della corrente umanistico-cristiana.
Sicuramente i Programmi del 1955 occupano un posto di rilievo nello sviluppo e nella continuità storica della scuola elementare italiana. La concezione del personalismo intendeva superare quella antecedente naturalistica sostenuta dai positivisti e quella esclusivamente spiritualista del Lombardo-Radice ed in questo i programmi erano senza dubbio innovativi.
Le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati non prestano alcuna attenzione ad una pedagogia scolastica attenta globalità della persona limitandosi a citarla nel tema della corporeità che viene concepita come inscindibile dalla "dimensione simbolica che anima il fanciullo" e dalle "sue relazioni familiari e sociali". È estremamente significativo, ed è su questo enunciato che si ritrova il parallelismo con i Programmi del 1955, che le Indicazioni Nazionali affermino che "l'avvaloramento dell'espressione corporea è condizione e risultato dell'avvaloramento di tutte le altre dimensioni della persona: la razionale, l'estetica, la sociale, l'operativa, l'affettiva, la morale e la spirituale religiosa." Le Indicazioni Nazionali si spingono oltre la concezione del personalismo dei Programmi del 1955: se nei Programmi del 1955 i valori a fondamento della persona sono la spiritualità e la libertà, nelle Indicazioni Nazionali il valore diventa dimensione e allo spirituale si sente il bisogno di unire il religioso. L'estensore ha sentito cioè l'esigenza di rafforzare il termine "spirituale", che gia di per sé intende ciò che attiene alla vita religiosa oltre che morale e intellettuale, con il termine "religioso". Tutto ciò è senz'altro coerente con le altre disposizioni "morattiane" (inserimento dell' insegnamento della religione cattolica nel documento di valutazione, assunzione degli insegnanti di religione cattolica, ecc.) tese alla perdita del carattere laico della scuola pubblica e alla difesa dell'identità religiosa della cultura occidentale in opposizione a quella islamica.

IL RAPPORTO SCUOLA-FAMIGLIA- EXTRASCUOLA

In tutti e tre i testi dei programmi viene usato il termine fanciullo in luogo del termine bambino. Dopo la stesura dei Programmi del 1985 ciò non ha mancato di suscitare qualche polemica. Si notava nel primo termine il riemergere di un linguaggio retorico lontano dalla realtà della scuola e dei suoi problemi reali. Sta di fatto che in questi programmi la figura dell'alunno, bambino o fanciullo che sia, che viene disegnata è decisamente figlia del suo tempo. " Sin dalla prima infanzia - si legge nella Premessa- è coinvolto in una realtà sociale caratterizzata da rapidi e profondi processi di mutamento dei costumi, da atteggiamenti, comportamenti individuali e collettivi che stimolano ad interrogarsi"; è, perciò, un bambino carico di sollecitazioni, di domande, di impressioni anche contraddittorie del mondo in cui vive immerso e che dilata a dismisura i suoi confini per la presenza dei mass-media. La preoccupazione che traspare dal testo è quella di pensare a un fanciullo reale che impegna la scuola a misurarsi con l'extrascolastico. Analoga è, invece, la figura dell'alunno che viene descritta nei Programmi del 1955 e nelle Indicazioni Nazionali. Nel primi l'alunno è "tutto intuizione, fantasia, sentimento", nei secondi la sua figura appare come "ingenua". Le accezioni del termine ingenuo sono:eccessivamente fiducioso, sprovveduto, per un fondo di candore, semplicità o inesperienza; e, quindi, tutto intuizione, fantasia e sentimento. È l'adesione delle Indicazioni Nazionali ai più banali luoghi comuni che, se possono trovare una giustificazione storica e culturale nei programmi del 1955, sono inaccettabili nei nostri giorni.
Nella Premessa dei Programmi del 1985 la scuola incontra un limite nella "sua funzione educativa": là dove, facendo riferimento al dettato costituzionale, il fine era la formazione dell'uomo e del cittadino, esso era risultato immediatamente legato al concetto di democrazia pluralista in cui ciascuna persona è abilitata a compiere le proprie scelte di vita nel rispetto delle scelte degli altri. Risultava evidente che le scelte educative spettassero alla famiglia e che la scuola non possa che rispettarne l'orientamento.
Il discorso era vero anche per i Programmi del 1955, ma là si diceva che, pur non avendo lo Stato "una propria metodologia educativa", le indicazioni fornite sorgevano "come sintesi concorde e spontanea, dalla meditazione sui problemi dell'educazione e dell'insegnamento", con riferimento " alla nostra tradizione umanistica e cristiana". Si era, quindi, in una logica di delega alla scuola di funzioni educative coerenti con le scelte della famiglia, in una società ritenuta ancora fondamentalmente omogenea.
Nel testo delle Indicazioni Nazionali si legge: "La Scuola Primaria si propone, anzitutto, di apprezzare [il] patrimonio conoscitivo, valoriale e comportamentale ereditato dal fanciullo" e "La Scuola Primaria, coinvolgendo la famiglia e nel rispetto della coscienza morale e civile di ciascuno, mira, inoltre, a far esplicitare ai fanciulli l'implicito e lo scontato presente nel patrimonio di visioni, teorie e pratiche che ha accumulato, e ad assumere consapevolmente queste ultime, insieme ai valori che contengono, in armonia con la Costituzione della Repubblica Italiana.". Se uno dei ruoli fondamentali della scuola dei programmi del 1985 era quello di concorrere, con l'integrazione dell'azione della famiglia, "con appropriata azione didattica, a favorire condizioni educative e di socializzazione idonee ad eliminare, quanto più possibile, disuguaglianze di opportunità nel processo di scolarizzazione", le Indicazioni Nazionali si limitano ad "apprezzare [il] patrimonio conoscitivo, valoriale e comportamentale ereditato (termine alquanto passivo) dal fanciullo", qualunque esso sia. Non si preoccupano di eliminare disuguaglianze di opportunità ma prendono atto di una situazione esistente e l'apprezzano in ogni caso "nel rispetto della coscienza morale e civile di ciascuno". Sembrano puntare su una visione omogenea della società come quella degli anni '50 (che omogenea non era neanche allora). Non si tiene conto del fatto che il forte flusso migratorio sta arricchendo la scuola di un numero sempre maggiore di alunni stranieri e sta rendendo la società sempre più eterogenea e pluralista. Ed è anche sulla disattenzione che la scuola "morattiana" pone nei confronti della diversità che si ritrova l'intento di riproporre una scuola ispirata ai valori religiosi, pure essendo gestita da uno Stato costituzionalmente laico. Riferendosi alla coscienza, la duplice aggettivazione morale (come presupposto spirituale-religioso del comportamento) e civile (riferendosi "impropriamente" alla Costituzione) rafforza questa finalità. La Moratti deve aver pensato ad un modello di famiglia standard, medio borghese e di buon livello culturale. Questo spiegherebbe il coinvolgimento della famiglia nella stesura del portfolio che è un documento di valutazione. Questo tipo di collaborazione, oltre a generare una confusione di ruoli tra insegnanti e genitori, ignora l'esistenza di moltissime famiglie che non posseggono gli strumenti culturali per apportare un simile contributo. Ciò determina, anziché la rimozione delle disuguaglianze, la messa in atto di interventi discriminanti. I Programmi del 1985 affidano il compito valutativo esclusivamente agli insegnanti poiché la valutazione è intesa come formativa e viene concepita nel duplice aspetto di riferimento all'alunno e all'insegnamento stesso. I punti di riferimento del processo valutativo sono dati dai livelli di partenza commisurati ai livelli di arrivo dei percorsi scolastici compiuti dai singoli alunni, in relazione agli obiettivi fissati dalla programmazione; ma sono dati anche dai livelli di crescita registrati complessivamente nel gruppo-classe e rapportati al progresso personale di ciascuno. L'attenzione valutativa riferita al soggetto e al gruppo attenua il pericolo di una valutazione puramente "constatativa" centrata sul singolo alunno e sollecita ad una valutazione di tipo "promozionale", centrata sull'alunno in relazione con il gruppo dei pari.

IL DETTATO COSTITUZIONALE
La caduta del fascismo e l'instaurazione della democrazia portarono a definire una nuova identità della scuola che voleva cancellare dalla nostra cultura educativa ogni segno di retorica e di nazionalismo. Si cercò di costruire una nuova coscienza sia civile che civica, fondata sui valori del lavoro e della democrazia, della solidarietà e della libertà. La Costituzione, entrata in vigore nel 1948, fissò la durata dell'obbligo scolastico in otto anni. A tale proposito i Programmi del 1955 presentarono degli elementi interessanti anche sotto il profilo metodologico: "far aderire maggiormente il piano didattico alla struttura psicologica del fanciullo e tenere conto che per precetto della Costituzione l'istruzione inferiore obbligatoria ha per tutti la durata di almeno otto anni." Ciò che appare nuovo nei Programmi del 1985 è il riferimento immediato, diretto, al dettato costituzionale, per dare contenuto normativo al fine della scuola. Nei Programmi del 1955, come si è già rilevato, una concezione educativa dichiaratamente ispirata al personalismo cristiano aveva dettato i principi a cui la scuola avrebbe dovuto attenersi nella sua opera di formazione dell'uomo e del cittadino: il "riconoscimento della dignità della persona umana", il " rispetto dei valori che la fondano"- "spiritualità e libertà" e l'"istanza di una formazione integrale". In tale orizzonte di principi e valori, acquistava una sostanziale coerenza la formula della religione cristiano-cattolica come "fondamento e coronamento" di tutta l'opera formativa della scuola. In tale contesto socio-culturale e politico profondamente diverso da quello degli anni '50, i Programmi del 1985 sono,invece, espressione di una scelta di laicità e di pluralismo nella ridefinizione istituzionale della scuola elementare italiana. Citando l'art.3 della Costituzione essi definiscono come compito della scuola elementare quello di contribuire sostanzialmente a rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".
Le Indicazioni Nazionali fanno riferimento anch'esse all'art. 3 della Costituzione ma hanno sostituito il termine 'uguaglianza' con il termine 'giustizia'. Si legge, infatti, che la Scuola Primaria "assicura obbligatoriamente a tutti i fanciulli le condizioni culturali, relazionali, didattiche e organizzative idonee a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che, limitando di fatto la libertà e la giustizia dei cittadini, «impediscono il pieno sviluppo della persona umana» indipendentemente dal sesso , dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche e dalle condizioni personali e sociali". Il Costituente scrive nell'immediato dopoguerra, dopo il lungo periodo nazifascista in cui i diritti fondamentali della persona erano stati cancellati, il principio dell'uguaglianza affermando che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge per quanto concerne i loro inalienabili diritti. Quindi uguaglianza non significa che tutti siamo eguali ma che sono proprio le differenze a chiamare in causa il principio dell'uguaglianza! La scuola "morattiana" non intende perseguire, con soggetti diversi, risultati sostanzialmente equivalenti nell'apprendimento formativo di tutti gli alunni come, invece, è affermato dai Programmi del 1985. Questa finalità della scuola, che significa l'offerta a ciascun alunno degli aiuti necessari e delle condizioni per trarne il migliore profitto attraverso l'attivazione concreta di detti aiuti e condizioni, necessita del diritto alla prestazione individualizzata e, se necessario, differenziata, giammai personalizzata. Risulta evidente che il concetto di uguaglianza del diritto alla prestazione scolastica non può rientrare nel testo delle Indicazioni Nazionali che si muove in tutt'altra direzione: non l'uguaglianza del diritto alla prestazione, bensì l'omogeneizzazione dei livelli di prestazione e la costruzione di percorsi formativi personalizzati attraverso i quali sono penalizzati gli studenti in difficoltà di apprendimento ed incentivati gli "eccellenti".

LE PARI OPPORTUNITA' E LA PERSONALIZZAZIONE

Si è gia visto ampiamente come i Programmi del 1955 e le Indicazioni Nazionali si ispirino entrambi alla concezione del personalismo inteso come affermazione del valore della persona nel senso storicamente acquisito dalla tradizione umanistico-cristiana. I Programmi del 1955 presentarono degli elementi innovativi rispetto agli antecedenti programmi; sotto il profilo metodologico troviamo infatti il principio di "far aderire il piano didattico alle strutture psicologiche del fanciullo". Da questo presupposto derivano due applicazioni: la graduazione del corso elementare per cicli e l'alleggerimento del carico nozionistico. Dei cicli il fondamento espresso era quello di rendere possibile "un insegnamento individualizzato in relazione alle capacità di ciascuno così che, in un tempo a più lungo respiro, ogni alunno possa giungere maturando secondo le proprie possibilità al comune traguardo". I Programmi del 1955 hanno operato un notevole sforzo di sintesi tra quanto di valido proveniva dalla tradizione scolastica e quanto di più attuale era offerto dalla pedagogia del tempo. L'accelerazione storica impressa poi anche alla scuola dalla legislazione e dalla riflessione pedagogica, nonché dalle sollecitazioni della contestazione, hanno portato la scuola stessa all'esigenza di nuovi programmi rispondenti alle evoluzioni socio-culturali avvenute. I Programmi del 1985, colmano questa esigenza prefigurando un tipo di scuola che si adegua "alle esigenze formative del fanciullo" attraverso l'offerta di una prestazione efficace fruibile a tutti gli alunni, qualunque sia il tipo e il grado della loro "diversità". Il nodo di questi programmi consiste appunto nella qualità dell'intervento operato dalla scuola sui processi di formazione di ogni singola persona, accolta nella sua unicità e aiutata ad integrarsi con gli altri. In pratica, perseguire, con soggetti diversi risultati sostanzialmente equivalenti e cioè garantire a tutti pari opportunità formative. Le risposte che questo tipo di scuola deve dare alle esigenze di ogni singolo alunno dovranno essere unitarie ma al tempo stesso flessibili, adattabili. Si profila, così, un ampio spazio di mediazione didattica in cui si colloca il ruolo di chi opera la trasformazione del programma, come ipotesi teorica, in programma-di-azione (programmazione), traducendo le "linee" programmatiche in itinerari didattici, da realizzare in una situazione adeguatamente organizzata e idonea a favorirne il successo. La programmazione, già introdotta dai Decreti delegati del '74 e, successivamente, oggetto di normativa nel contesto della L.517/77 ha, nei Programmi del 1985, una funzione precisa: si qualifica per la metodologia della progettazione dell'insegnamento in funzione dell'apprendimento. La definizione centrale di "programmazione" data è: "La programmazione, nel quadro della prescrittività delle mete indicate dal programma, delineerà i percorsi e le procedure più idonee per lo svolgimento dell'insegnamento, tenendo comunque conto che i risultati debbono essere equivalenti qualunque sia l'itinerario metodologico scelto". Stabilite le "mete", si profila tutta una gamma di "percorsi" e una varietà di "procedure" che esigono scelte oculate per agevolare l'apprendimento. Il procedimento didattico differenziato, anche attraverso l'insegnamento individualizzato, nasce dalla constatazione che il livellamento della scolaresca, secondo il rendimento di un ipotetico alunno medio, danneggia contemporaneamente i più "bravi" e i più "deboli". Di qui la necessità di adottare un metodo che, rispettando i ritmi di maturazione e la capacità di ogni singolo alunno, favorisca il graduale processo di apprendimento. L'apprendimento è un processo personale di adattamento all'ambiente culturale che non può essere forzato dall'apprendimento, se non a rischio di svilirne il contenuto. Le Indicazioni Nazionali rovesciano questi principi attraverso l'introduzione del Piano di Studi Personalizzato. Oggi sembra essersi affermato un orientamento che, nel tentativo di mediazione tra massificazione e individualismo, tende a vedere nel personalismo un tentativo di soluzione di queste due estremità, cioè tende a valorizzare l'uomo e a definirlo persona. Il personalismo delle Indicazioni Nazionali non si colloca in una corrente generale, ma si traduce in un modello preciso di organizzazione didattica. I Piani di Studi Personalizzati sono redatti secondo un modello che non coniuga la personalizzazione con l'istanza dell' individualizzazione poiché dà alla personalizzazione lo scopo di sviluppare i personali talenti attraverso la diversificazione degli obiettivi e non unicamente dei percorsi. La sua finalità è quella di garantire le forme di eccellenza cognitiva e di formare persone con profili cognitivi diversi.
Se l'insegnamento individualizzato comporta la costruzione di un percorso che scelga la strada opportuna, senza perdere di vista la meta e senza ridurre a priori le attese nei confronti di possibili risultati, la personalizzazione diversifica le strade ponendo mete diverse da alunno a alunno. In altre parole, il Piano di Studi Personalizzato pone la diversità come una discriminante perdendo di vista l'offerta agli alunni delle pari opportunità formative. È la legittimazione del personalismo più becero; percorsi formativi e obiettivi personalizzati per soggetti considerati differenti per carattere, per temperamento, per modo di essere, dove ognuno ha il suo talento poiché è portato verso cose diverse e ama cose diverse, riportano la scuola ad un insegnamento fondato sulla teoria delle attitudini, già fortemente stigmatizzata quaranta anni fa da Don Dilani nella sua scuola di Barbiana. Non è più la scuola che si adegua alle esigenze dell'alunno ma è la scuola che risulta al servizio della "volontà dell'alunno" (o della famiglia o della società), in senso strumentale, perdendo così l'identità del suo ruolo e la specificità della sua dimensione formativa.

LE DIFFICOLTA' DI APPRENDIMENTO E L'HANDICAP

Prima della L.517 del 1977 e a decorrere dalla metà degli anni cinquanta, i bambini con disabilità psichica o sensoriale venivano accolti nelle scuole speciali o nelle classi differenziali. Non vi è traccia, quindi, nei Programmi del 1955 delle tematiche relative al loro inserimento nella scuola. La L.517 rese possibile l'integrazione di tutti i bambini disabili nella scuola dell'obbligo proponendo, su basi del tutto nuove, il concetto di educazione nella scuola di tutti. I Programmi del 1985 pongono il problema delle "situazioni di handicap o di svantaggio" - che "non vanno tra loro confuse"- oggetto di specifica trattazione. Il principio della scolarizzabilità si estende a tutti gli alunni in linea con quanto dichiarato a proposito di "diversità e uguaglianza". La scelta è programmatica: gli "alunni in difficoltà di apprendimento" non sono un incidente di percorso che bisogna in qualche modo superare, né sono 'casi' di cui la scuola è costretta ad occuparsi quasi facendo eccezione alle sue regole di funzionamento: sono il problema pedagogico per eccellenza. Le possibilità di riuscita di qualunque intervento sono determinate, secondo i Programmi del 1985, da una condizione-base: la programmazione educativa e didattica si deve articolare e sviluppare "in modo da prevedere la costruzione e la realizzazione di percorsi individuali di apprendimento scolastico che, considerando con particolare accuratezza i livelli di partenza, ponga una progressione di traguardi orientati, da verificare in itinere". I percorsi individuali di apprendimento scolastico sono forse l'acquisizione teorica più interessante che trova la sua soluzione in una profonda innovazione organizzativo-didattica, conseguente soprattutto al principio del perseguimento di risultati sostanzialmente equivalenti. Significa programmare un percorso che dia la possibilità di fare un cammino anche per l'alunno che parte in posizione di svantaggio rispetto agli altri ma, come gli altri, ha diritto di raggiungere certi traguardi essenziali alla sua formazione. Costruire un percorso adatto a lui, pertanto, non vuol dire farlo incamminare per una strada diversa da quella degli altri, quanto alla direzione da seguire, ma soltanto per una strada più agevole che consenta l'andatura necessaria, il procedere con le scansioni opportune, il sostare o l'accelerare se occorre, ma senza perdere di vista il traguardo e la speranza di raggiungerlo.
Le Indicazioni Nazionali affrontano il problema delle situazioni di handicap o di svantaggio in modo "astratto", non viene né esaminato né viene data alcuna indicazione su come la scuola debba intervenire riguardo ad esso. Il testo si limita a prendere atto dell'esistenza delle varie forme, palesi o latenti, di disagio, diversità ed emarginazione esistenti nell'ambiente dell'alunno e nel mondo che lo circonda e, senza alcun fondamento, determina come compito della scuola quello di "far acquisire ai fanciulli non solo la consapevolezza", "ma anche la competenza necessaria ad affrontarle e superarle con autonomia di giudizio, rispetto nei confronti delle persone e delle culture coinvolte, impegno e generosità personale". Oltre "alla presa di coscienza della realtà dell' handicap" l'allievo dovrà essere stimolato "ad operare e a ricercare con sensibilità, rispetto, creatività e partecipazione allo scopo di trasformare sempre l'integrazione dei compagni in situazione di handicap in una risorsa educativa e didattica per tutti". Queste sono le uniche parole che trattano il problema e si riferiscono sempre e solamente all'atteggiamento che l'alunno deve tratteggiare nei confronti del disagio e dell'handicap, mai che l'alunno in difficoltà di apprendimento diventi il soggetto dell'azione formativa della scuola. Su come possa realizzarsi una vera "integrazione" nella scuola di questi bambini e su come possano diventare essi "una risorsa educativa e didattica per tutti" non viene scritto niente! Sembrerebbe emergere quella idea (rifiutata dai i Programmi del 1985 ) dell'alunno in difficoltà di apprendimento che costituisce una sorta di incidente di percorso di cui la scuola è costretta ad occuparsi. Del resto, tutto l'impianto della riforma Moratti, come è stato ampiamente dimostrato precedentemente, è diretto nella direzione di una scuola che pone la diversità come discriminante e la trasforma in disuguaglianza. A riprova di ciò, ci sono tutte le disposizioni della L.53/03. L'individuazione, ad esempio, della funzione tutoriale associata alla riduzione delle ore di compresenza per gli insegnanti hanno reso ancora più difficile la presenza del bambino disabile in classe. Se a questo si associa la riduzione del numero di classi, a fronte di un incremento complessivo di alunni in questi quattro anni di circa 70.000 unità (da 7.607.977 a 7.675.693) si comprende come sia sempre più frequente che due o più bambini disabili siano presenti nella stessa classe. Vanno sottolineate anche le riduzioni progressive degli organici di diritto degli insegnanti di sostegno che il ministro Moratti ha ostinatamente perseguito (sono passati dai 49.934 del 2000-2001 agli attuali 41.506) con il conseguente sensibile scadimento della qualità della scuola per i bambini disabili.

L'ORDINAMENTO IN CICLI

I Programmi del 1955 diedero il via ad un'importante indicazione pedagogica: l'elaborazione di programmi graduati per cicli didattici. Questo allo scopo di "fare aderire maggiormente il piano didattico alla struttura psicologica del fanciullo" , esigenza praticabile solo alleggerendo "il carico delle nozioni rispetto ai programmi quinquennali precedenti". Nel 1957, per dare fondamento giuridico a questa indicazione fu realizzata, con la L.1254/57, una significativa modifica dell'ordinamento scolastico con il passaggio dell'ordinamento per gradi a quello in cicli. La scuola elementare era ordinata in due gradi: quello inferiore che comprendeva le classi 1^, 2^ e 3^ con gli esami di compimento alla fine della terza; quello superiore che comprendeva le classi 4^ e 5^ con esami di licenza alla fine della quinta. I cicli rappresentarono una sostanziale riforma: essi vincolavano il maestro ad un più ampio periodo di programma (il ciclo anziché l'anno) e, di conseguenza,ad un diverso modo di valutare l'alunno che, in via ordinaria, non poteva essere respinto al termine degli anni intermedi del ciclo (classi 1^, 3^,4^) salvo casi eccezionali da motivare adeguatamente, con apposita relazione, al Direttore didattico. L'istituzione dei cicli segnò, così, l'inizio di un processo di riduzione del numero delle bocciature conferendo alla scuola elementare un carattere più aderente alla sua funzione di scuola per tutti, formativa e non selettiva. La graduazione del corso elementare dei cicli determinava l'indicazione di tre modi di insegnamento:
• il metodo globale, per il primo ciclo e, parzialmente, per la terza classe elementare;
• il metodo episodico- collegato, per il secondo ciclo;
• il metodo sistematico, per il terzo ciclo (ora scuola media).
I referenti storici di questa trilogia sono Sergej Hessen e Ovide Decroly. Quest'ultimo fu l'ideatore e il propugnatore del principio di globalizzazione come funzione portante dell'insegnamento e dell'apprendimento. Egli affermava che la conoscenza globale è il principio di partenza naturale della conoscenza e che bisogna sempre partire da essa per fare emergere, gradualmente, le conoscenze più differenziare e precise. Nel pensiero di Decroly il metodo globale tende ad espandersi per un lungo tratto. Dall'età scolastica fino quasi all'adolescenza. I Programmi del 1955, invece, assegnano al globalismo un ambito di applicazione limitato al primo ciclo e, parzialmente, alla terza classe. Sotto questo profilo esse adottano integralmente la teoria di Hessen il quale riteneva che, per aderire alle strutture psicologiche degli scolari, la scuola dovesse applicare il metodo globale per le età del primo ciclo, il metodo episodico-collegato per quelle del secondo ciclo e il metodo sistematico per le età dell'attuale scuola media. L'opera di Hessen è il punto di riferimento del ventesimo secolo nella mediazione pedagogica tra acquisizioni della psicologia e ricerca di soluzioni istituzionali. L'ipotesi che il rispetto delle caratteristiche psicologiche delle varie età sia la condizione per una concezione scolastica a misura di persona è suffragata sia dalle ricerche empiriche di Erikson, sia da quelle psicologiche di Piaget. È interessante notare, infatti, come anche gli stadi di sviluppo cognitivo individuati da Piaget corrispondano alla scansione dei cicli didattici: egli definisce il periodo dai 4 ai 7 anni come lo stadio del pensiero intuitivo (scuola materna e primo ciclo elementare), il periodo dagli 8 agli 11 anni come lo stadio delle operazioni concrete (secondo ciclo scuola elementare), dagli 11-12 anni in avanti come la fase delle operazioni formali (dalla scuola media in poi).
La cosiddetta "relazione Fassino", che concluse la prima fase di lavoro della Commissione incaricata ad elaborare i Programmi del 1985, valutò positivamente l'ordinamento per cicli istituito con i Programmi del 1955 in quanto corrispondente "ad una distinzione di fasi di sviluppo, di contenuti e di metodi". Constatò, inoltre, che l'innovazione strutturale proposta dai Programmi del 1955 si era potuta attuare solo in parte a causa "di una politica che [era] andata avanti prevalentemente dietro le spinte di accomodamenti settoriali e che nei rari casi di decisioni strategiche (come la creazione della scuola media unica) [aveva] manifestato margini di incertezza, lasciando sussister frammenti di strutture preesistenti". Dopo aver ricordato le innovazioni succedutosi dopo il '55, la relazione affermò che i programmi dovevano rispondere da un lato alla domanda sociale, dall'altro alla domanda personale dell'alunno e che per fare ciò era necessario rapportarsi a nuove condizioni organizzative della scuola. I Programmi del 1985, nella loro struttura e nel loro contenuto, furono tesi al rispetto della scansione ciclica corrispondente allo sviluppo cognitivo dell'alunno individuando dei punti nodali portanti:
• la richiesta di svolgere il progetto culturale ed educativo evidenziato nella Premessa "secondo un passaggio continuo che va da una impostazione unitaria pre-disciplinare all'emergere di ambiti disciplinari progressivamente differenziati";
• l'individuazione di detti "ambiti disciplinari" e la loro giustificazione teorica secondo la logica del progetto,
• l'ipotesi sottesa della funzione delle 'discipline';
• il loro quadro d'insieme;
• il problema dell' "unità educativa" e delle sue "componenti essenziali" nel nuovo curricolo elementare.

Senza nessun fondamento storico e senza darne alcuna motivazione psico-pedagogica, la L.53/03 effettua sostanziali modifiche sull'articolazione della scuola primaria (elementare). Si legge: "la scuola primaria è articolata in un primo anno, teso al raggiungimento delle strumentalità di base, e in due periodi didattici biennali". Le Indicazioni Nazionali, in conformità a queste disposizioni, stabiliscono obiettivi specifici di apprendimento per la classe prima, per le classi seconda e terza (primo biennio) e per le classi quarta e quinta (secondo biennio). Inoltre, la L.53/03 istituisce l'anticipo di frequenza alla scuola dell'infanzia e alla suola primaria. La scelta è affidata esclusivamente ai genitori, che possono decidere se far iniziare la frequenza ai loro figli, per esempio nella scuola primaria, a 5 anni e 4 mesi, a 6 anni o a 7 anni. Di conseguenza le classi prime potranno essere composte da alunni aventi tra loro ben 20 mesi di differenza. Si vede bene come tali disposizioni non rispondano alla domanda formativa degli alunni nel rispetto dei loro tempi di maturazione ma piuttosto costituiscano da una parte la volontà di aprire la strada a spinte improntate all'accelerazione dei tempi dell'apprendimento come fattore di competizione sociale, dall'altra la necessità di avviare lo studente, fin dalla scuola primaria, alla logica della canalizzazione precoce nel doppio canale delle scuole superiori: il sistema dei licei pre-universitario e quello dell'istruzione e della formazione professionale rivolto all'avviamento al lavoro. Anche in questo caso, la nuova articolazione scolastica fa pensare ad una regressione addirittura antecedente ai Programmi del 1955.

EDUCAZIONE ALLA COVIVENZA DEMOCRATICA ed EDUCAZIONE ALLA CONVIVENZA CIVILE

Il paradigma della scuola dei Programmi del 1985 è fondato sulla promozione della prima alfabetizzazione culturale e sull'educazione alla convivenza democratica, i due binari su cui su costituisce tutto il modello curricolare. Il termine 'educazione' assume un significato ben preciso in relazione alla finalità che viene dichiarata: perché la 'convivenza democratica' diventi un obiettivo realizzabile non basta pattuirne norme e stabilire diritti e doveri per vivere civilmente insieme, ma occorre 'educare' ad interiorizzare norme e valori per imparare a con-vivere, nel responsabile esercizio dei diritti e dei doveri di cui ciascuno è titolare. È un programma di educazione scolastica che sta alla base di tutti gli altri, finalizzato agli apprendimenti previsti dal curricolo. L'alfabetizzazione culturale non è fine a se stessa; è lo strumento per la crescita di una società più giusta, fatta di persone educate a convivere secondo un ideale di democrazia, cioè di libertà e di solidarietà. La scuola, quindi, nel suo "spazio educativo", si pone due scopi essenziali: promuovere la conquista di autonomia e agevolare l'integrazione sociale. Essi procedono di pari passo, si stimolano e si consolidano vicendevolmente, perché tanto più l'individuo guadagna proprie capacità e responsabilità tanto più è in grado di comunicare e di interagire con gli altri; e, d'altro canto, quanto più l'integrazione sociale si realizza, in un clima di accettazione, di rispetto, di dialogo, di partecipazione, tanto più l'individuo è sollecitato ad essere se stesso, al meglio delle sue possibilità. I Programmi del 1985 fanno della dinamica dello sviluppo in dimensione personale e in dimensione sociale il tema centrale, facendo appello a valori razionali condivisi, nell'etica della convivenza democratica. Vi è l'assenza di riferimenti ad una morale teologicamente ispirata o di una fondazione religiosa del discorso educativo, ma ciò, come qualcuno potrebbe obiettare, non costituisce un limite nell'ottica di una pedagogia che ha come obiettivo "il pieno sviluppo della persona umana". La scuola dello Stato, in quanto laica, è il luogo di promozione di 'virtù sociali e civiche'. Nei Programmi del 1985 questa ricerca si realizza concretamente tenendo conto che "il fanciullo, quando inizia la sua esperienza scolastica, ha già cumulato un patrimonio di valori e di esperienze relative a comportamenti familiari, civici, religiosi, morali e sociali". Questi Programmi vedono la luce ad un anno dalla firma dell'Accordo di revisione del concordato Lateranense che ha regolato, per gli alunni che se ne avvaleranno, l'insegnamento della religione cattolica nella scuola dello Stato. Se da una parte i Programmi del 1985 non risolvono il dibattito sul problema del rapporto tra religione e scuola statale, mirano comunque "alla formazione di un costume di reciproca comprensione e di rispetto anche in materia di credo religioso"; è, quindi, un'attenzione educativa rivolta a tutti gli alunni, siano essi credenti o non credenti. Una scuola così concepita non annulla, non ignora, non valuta le esperienze che l'alunno vive e ha vissuto, ma porta gradualmente l'alunno a "rendersi conto", a "divenire consapevole" di ciò che accade quando le persone entrano in rapporto tra loro. La progressiva consapevolezza che l'alunno è aiutato a conquistare si esercita nell'ambito di due parametri di giudizio:
• le persone, diverse l'una dall'altra, sono cittadini di "pari dignità sociale";
• la convivenza civile ha per condizione la consapevolezza delle proprie idee e la responsabilità delle proprie azioni "alla luce di criteri di condotta chiari e coerenti che attuino valori riconosciuti".
I Programmi del 1985 si pongono, pertanto, il problema di fondo della formazione di una coscienza democratica che trovi le basi nell'educazione alla responsabilità. Altri obiettivi di sviluppo completano lo spazio educativo che l'educazione alla convivenza democratica intende perseguire che investono più direttamente il rapporto del bambino con l'ambiente, con il mondo, e toccano profondamente gli aspetti della complessa civiltà in cui tale rapporto si attua. A questi viene dato un contenuto preciso: salute e sicurezza e cultura e cooperazione. Riepilogando, si può osservare che i Programmi del 1985 introducono una prospettiva nuova, cioè che a riconoscere l'esigenza dei predetti requisiti si può giungere partendo da una pluralità di posizioni ideologiche e costruendo insieme una cultura dei valori condivisi finalizzata al futuro di una vita e di una convivenza 'umane'.
Le Indicazioni Nazionali introducono l'educazione alla Convivenza civile che dovrebbe riempire il vuoto lasciato dall'educazione alla convivenza democratica di cui in questi programmi non si fa cenno. L'educazione alla Convivenza civile è articolata in ulteriori educazioni, ognuna delle quali con propri obiettivi specifici di apprendimento. Tali obiettivi sono presentati in maniera analitica, le stesse indicazioni raccomandano che ciascuno di essi, insieme a ciascuno degli obiettivi specifici di apprendimento delle discipline debbano obbedire " al principio della sintesi e dell'ologramma". Questo vorrebbe dire (fortunatamente viene spiegato!) che " gli uni rimandano agli altri; non sono mai, per quanto possano essere autoreferenziali, richiusi su se stessi, ma sono sempre un complesso e continuo rimando al tutto. Un obiettivo specifico di apprendimento di una delle dimensioni della Convivenza civile, quindi, è e deve essere sempre anche disciplinare e viceversa; analogamente, un obiettivo specifico di apprendimento di matematica è e deve essere sempre, allo stesso tempo, non solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, geografica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale, religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile. E così per qualsiasi altro obiettivo specifico d'apprendimento". Ci si rifà, quindi, non solo ad una condizione interdisciplinare di ciascuna disciplina ma anche, e qui sta la differenza con i Programmi del 1985, ad una forte ripercussione dei valori sociali, morali e religiosi sulle discipline stesse. Le Indicazioni, pertanto, intendono superare il problema della del rapporto tra religione e scuola statale sottoponendo ogni singolo obiettivo specifico di apprendimento al condizionamento dei valori morali e religiosi.
L'educazione alla Convivenza è costituita dall'educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all'affettività. Come già detto, queste educazioni sono trattate attraverso una "lista" di obiettivi specifici accompagnati da "pillole" di contenuti esplicativi. Sebbene per esempio nell'Educazione alla cittadinanza siano presenti alcuni riferimenti ai principi del rispetto dell'altrui diversità, il termine 'democrazia' non viene mai usato. L'abbandono di questo principio trova del resto la sua giustificazione in tutta l'impostazione della L.53/03 nella quale si assiste alla grave perdita di una visione ugualitaria dei rapporti sociali e dei diritti all'interno della scuola, nella sua organizzazione e nella sua funzione educativa e didattica.
Stupisce il fatto che le tematiche trattate nelle educazioni vengano illustrate senza alcuna argomentazione: se da una parte si scrive che esse sussistono solo se in stretta connessione con le discipline, dall'altra ci si limita ad elencare, per ognuna di esse, una lunghissima serie di obiettivi da raggiungere. Il tutto dà l'impressione che il docente potrebbe affrontare questi temi limitandosi ad effettuare lezioni a sé stanti, utilizzando, per esempio, il solo libro scolastico e dando da studiare a casa la "lezioncina". In tal modo i contenuti, fondamentali in una scuola che si pone come comunità educante, si svuoterebbero della loro valenza formatrice e non sarebbero interiorizzati dall'alunno A conferma di ciò, basti pensare che l'educazione alla convivenza civile è inserita nel documento di valutazione allegato alla circolare ministeriale n.84 del 10 novembre 2005. Porre l'educazione alla convivenza come oggetto di valutazione e quindi sottoporla ad una misurazione comporta il grave rischio di esimere la scuola da un'importante responsabilità. L'educazione alla convivenza è compito prioritario dell'istituzione scolastica e se anche un solo alunno non riuscisse ad interiorizzare norme e valori sociali la scuola dovrebbe chiedersene il motivo e attivare ogni strategia possibile per capire dove ha sbagliato e per correggere il tiro. Come già scritto, tra le educazioni figura quella all'affettività. L'affettività è il complesso dinamico dei vari sentimenti e il Piaget afferma che "a partire dal periodo preverbale esiste uno stretto rapporto fra lo sviluppo dell'affettività e quello delle funzioni intellettuali, in quanto si tratta di due aspetti indissociabili d'ogni azione: in ogni condotta infatti le motivazioni e il dinamismo energetico dipendono dall'affettività, mentre le tecniche e l'adeguamento dei mezzi impiegati costituiscono l'aspetto cognitivo (senso-motorio o razionale). Non esiste quindi un'azione puramente intellettuale (nella soluzione di un problema matematico intervengono ad esempio sentimenti molteplici: interessi, valori, impressioni di armonia, ecc.) e neppure atti puramente affettivi (l'amore suppone sempre la comprensione), ma sempre e in ogni caso, sia nelle condotte relative agli oggetti sia in quelle relative alle persone, intervengono entrambi gli elementi, giacché uno suppone l'altro". Ciò ci fa comprendere quanto un armonico sviluppo dell'affetività sia fondamentale per l'organizzazione degli interessi e dei valori legati a quella del pensiero intuitivo in generale. Lo stesso Piaget definisce l'interesse come un prolungamento dei bisogni e quindi l'orientamento proprio ad ogni atto d'assimilazione mentale, esso "implica un sistema di valori che il linguaggio comune chiama 'gli interessi' e che si differenziano proprio nel corso dello sviluppo mentale, attribuendo scopi sempre più complessi all'azione". Del resto Anna Freud dimostrò, attraverso approfondite indagini da lei condotte, che i bambini cresciuti nei brefotrofi, negli orfanotrofi, nelle carceri per minori avevano un coefficiente di intelligenza inferiore a quello posseduto da quelli che avevano potuto fruire delle cure e dell'affetto materno. La personalità, il carattere, lo sviluppo cognitivo sono quindi strettamente connessi alla vita emotiva. Si profila, in tutta la sua importanza, l'azione che la scuola è chiamata a svolgere per la formazione di persone capaci di 'equilibrio', in senso psicologico, e di una sufficiente, sana 'autostima'; entrambe sono doti necessarie, soprattutto oggi, per vivere e convivere in una società sempre più complessa. Si tratta di un segnale da cogliere con particolare sensibilità educativa, avendo presenti i gravi problemi di una patologia sociale che interpella anche la scuola: all'origine della violenza, della disistima per la vita, del suo degrado, c'è quasi sempre il dramma di personalità fragili, disgregate, incapaci di reggere l'urto della realtà nelle sue diverse manifestazioni. La scuola elementare è sì il luogo della formazione culturale, ma di persone che imparano anzitutto ad entrare in contatto con le proprie emozioni e con i propri sentimenti, con i problemi della propria relazionalità e con l'esperienza del proprio essere al mondo, carico di interrogativi e dilemmi. Essa ha pertanto il dovere di favorire uno sviluppo equilibrato del bambino attraverso la costruzione di un ambiente scolastico sereno (di quel "clima sociale positivo" di cui parlavano i Programmi del 1985), privo di tensioni emotive violente e di traumi; tesa non soltanto a creare una generica atmosfera di buoni rapporti , ma a strutturare condizioni favorevoli per l'apprendimento di ciascun alunno. E questo obiettivo deve essere rivolto non ai soli alunni, ma a tutti i membri dell'istituzione scolastica. Solo in tal modo si rende possibile la maturazione di un adeguato equilibrio affettivo e sociale e la costruzione di un'immagine positiva di sé. In tale contesto è astruso pensare di poter occuparsi dell'affettività quasi come se fosse una materia da studiare in cui l'educatore, dall'alto della sua cattedra, è chiamato sollecitare, per esempio, "l'esercizio di modalità socialmente efficaci e moralmente legittime di espressione delle proprie emozioni e della propria affettività" o "l'espressione della propria emotività con adeguate attenzioni agli altri e alla domanda sul bene e sul male" o, ancora, "la comunicazione della percezione di sé e del proprio ruolo nella classe, nella famiglia, nel gruppo dei pari in genere" come le Indicazioni Nazionali designano. E ancora più insensato è concepire che un qualsiasi fattore costituente la personalità di un individuo, quale è l'affettività, possa essere oggetto di valutazione.

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