Parlare di scuola
Giuseppe Aragno - 29-04-2006
Quale scuola? La domanda non è certo banale, ma la risposta passa inevitabilmente per un altro quesito: quale società? Mentre cambia la guardia e la destra fa posto alla sinistra, mi pare più evidente che mai: parlare di scuola è parlare di società e, per farlo, occorre probabilmente provare a guardarsi un po' indietro e "storicizzare" l'esperienza recente.

Cosa ci mosse a lottare contro il "concorsone"? Partirei di qui e, semplificando, direi che la protesta ebbe due motivazioni prevalenti: quella "retributiva", provocata dai sei milioni di lire garantiti solo ad alcuni lavoratori in una busta paga che era - e rimane - un vero e proprio oltraggio, e quella "antidiscriminatoria" che rifiutava la divisione dei docenti in "buoni" e "cattivi" e il conseguente "aumento per merito".
Tra noi, tuttavia, c'era chi criticava non solo la "gerachizzazione" del personale, ma anche il ruolo imposto agli insegnanti e alla scuola dello Stato e avvertiva che la logica del "concorsone" era quella di una selezione funzionale alla scuola-azienda. Chi lo aveva ideato si affannava a negare: si tratta solo di avviare concretamente l'autonomia scolastica. Nei fatti, invece, si inaugurava quel processo di "autonomizzazione aziendalistica" della scuola che la sinistra non ha mai ripudiato e la destra ha condotto alle sue estreme conseguenze.

Ritornata al potere, la sinistra che fa? Abolisce la riforma Moratti? Si direbbe di no. Aggiusta, a quanto pare, modifica, rattoppa, ma non abolisce. E' un dato di fatto. Chi ha vissuto in prima persona, come dirigente sindacale, delegato, o anche solo militante attivo, lo scontro sull'autonomia sa che esso si fece aspro quando risultò chiaro che, dalla fase teorica, si stava passando alla realizzazione concreta d'una scuola che non solo ricorreva ad una selezione degli insegnanti in rapporto a parametri valutativi discriminanti - il che appariva, ed era, già di per sé grave - ma si proponeva di rivedere la funzione docente in vista di compiti comandati e del tutto subalterni. La scuola-azienda passava per un sistema integrato pubblico-privato e aveva bisogno di insegnanti sconfitti, costretti ad accettare ruoli mortificanti. Non solo selezione, quindi, ma subordinazione ad un sistema scolastico, servo a sua volta di quello economico, il cui compito non era più quello di formare cittadini, ma di dare risposte al mercato della forza-lavoro. La barzelletta delle "tre i" non è di schietta matrice berlusconiana. Ha radici più profonde, che vanno cercate sul terreno delle scelte concrete - lascio da parte quello dell'ispirazione ideologica - legate all'esperienza del governo D'Alema, che si distinse per il tentativo di mostrarsi all'altezza delle aspettative del grande capitale. Come per la guerra, così per la scuola, la correttezza costituzionale cedette in quegli anni il passo agli interessi superiori del profitto che non ha patria. Ciò che si voleva ottenere era la costruzione, nell'ambito dell'area imperialistica, di un sistema scolastico paritario, pubblico e privato, finalizzato all'imposizione di una nuova alfabetizzazione - quella informatica - e ad una concezione mercantilistica della conoscenza - l'inglese a scapito di ogni altra lingua - che costituisse il primo gradino di una nuova scala di valori di un sapere volgarmente tecnico e decisamente funzionale ad una nuova divisione sociale del lavoro.
La scuola confindustriale non chiedeva cittadini consapevoli, ma utili idioti subordinati che, anche non sapendo mettere insieme un pensiero critico, avessero titoli "qualificati" in rapporto alle esigenze del mercato. Per ottenere questo scopo, occorrevano insegnanti ridotti ad agenti speciali del capitale in una scuola buona a costruire soprattutto giovani pronti ad eseguire mansioni contrarie ai propri interessi sia sociali sia, detto in senso lato, di "classe".

In questa direzione andava anche la creazione di una nuova "dirigenza scolastica", staccata dalla didattica e finalizzata non solo alla nascita di una burocrazia con funzioni amministrative e stretti agganci sindacali, ma rispondente al bisogno di una trasformazione radicale della scuola in una sorta di caserma, in cui il corpo docente diventava un vero e proprio "presidio armato" posto a guardia di un lavoro "militarizzato" dalla precarietà. Non è un caso che questa trasformazione si sia realizzata di pari passo con una riforma del mercato del lavoro che parte da Tiziano Treu per arrivare a Biagi. C'è un filo rosso che lega Berlinguer a Treu e la Moratti a Biagi. Un filo che spiega ampiamente i motivi per cui anche la risicata maggioranza di centro sinistra che si appresta governare - o la sua parte più moderata - potrebbe entrare in rotta di collisione con l'ala più avanzata di quei movimenti di base che, da soli, hanno consapevolmente e concretamente contrastato il progetto di riforma Berlinguer-Moratti, letto non semplicemente - e semplicisticamente - come attacco, pur grave, alla scuola dello Stato, ma per quello che esso è nella sostanza: un progetto scientificamente costruito per ridurre gli insegnanti alle ruote di un ingranaggio che parte dalla competizione, passa per la selezione e punta alla formazione di una forza lavoro sicuramente duttile sul piano tecnico e pronta a funzioni di manovalanza tecnologica di cui i "call center" possono essere assunti a simbolo e modello. Una forza lavoro tanto duttile quanto rassegnata e, soprattutto, estremamente povera sia sul piano della coscienza sociale, che su quello delle competenze, se per competenza si intende non semplicemente nozione, capacità ed esperienza necessarie a fare bene qualcosa, ma anche, e anzitutto, facoltà di intendere, attitudine ad interiorizzare principi, ad armonizzare criteri, a distinguere, a valutare ed a valutarsi. Se, in ultima analisi, ci si riferisce all'essenza stessa dell'uomo, alla scintilla di sovranaturale che dentro gli alberga e per la quale val la pena di vivere e morire. Lo spiegò Ulisse con parole immortali ai vecchi compagni nel momento della prova suprema: "nati non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza".

Tra Berlinguer e Treu, tra la Moratti e Biagi, per tornare al concetto iniziale, c'è un filo rosso che fa della scuola un vero e proprio strumento di lotta di classe - lo so è una formula caduta in disuso - un'arma micidiale puntata contro quei giovani che, tuttavia, per mille segnali, dimostrano di non volerci stare e inceppano il meccanismo, come è apparso evidente durante la recente lotta dei loro compagni francesi, i quali non hanno rifiutato - a che sarebbe servito? - i giudizi, le valutazioni, la cosiddetta "offerta formativa" della scuola, ma ciò che ad essa corrisponde nella vita quotidiana, nella realtà sociale: il processo di crescente precarizzazione del lavoro che è precarizzazione del progetto di vita. Un duplice furto, che li priva della formazione e del lavoro.

Cosa mi attendo da questa maggioranza che sarà governo e che non ha speso una parola chiara sulla scuola ereditata da Berlinguer e dalla Moratti in quasi tre centinaia di pagine di programma?
Niente direi, se dovessi badare solo ai sindacati che si riposizionano, ai segnali che colgo quando mi guardo attorno e mi accorgo dei balletti per le poltrone al Senato, alla Camera e al Quirinale, delle inversioni di marcia di molti di quelli che ieri sostenevano che occorre abrogare ed ora, chissà, forse sensibili ai richiami della Confindustria e dei parassiti della finanza e alle loro parole di consenso, dichiarano che basta correggere e riparare.
Non lo dirò quel niente. Sarebbe prematuro, perché per esprimere giudizi definitivi non bastano da soli i segnali negativi e perché c'è una legge di iniziativa popolare sulla quale si misurerà la reale volontà di cambiamento. Mi aspetto che qualcuno a sinistra pomga finalmente un primo, forte paletto. Basterebbe dire che la sbandierata "governance" non è solo governo o direzione, ma anche autorità e dominio.
Negli anni della mia gioventù coniammo uno slogan di guerra per ottenere una sentenza di pace: "mettere una bomba in Parlamento". Ne venne fuori la "legge Valpreda" e ci lasciammo ingabbiare dal sistema, per cui un innocente uscì di prigione, ma le stragi continuarono impunite. Dovesse passare una legge per la scuola fondata sulla stessa logica, allora sì, allora davvero direi che non mi aspetto nulla, se non che noi, cittadini che abbiamo vissuto quegli anni di grande speranza, ci mettiamo a fare muro assieme ai nostri figli, che hanno diritto a un cambiamento, e dall'interno e dall'esterno della scuola si prenda a dare forma e forza ad un movimento che dica chiaro e tondo che siamo stanchi di difendere una scuola "laica e repubblicana" se, da sola, non può tirarci fuori dallo sfascio cui siamo giunti. Allora sì direi che è giunto il tempo di battersi contro il vecchio sistema e quello sedicente "nuovo", per costruire una scuola che finalmente sia al servizio di tutti. Una scuola in cui l'insegnante, invece di trasmettere informazioni necessarie al mercato, promuova l'apprendimento del sapere e lotti assieme agli studenti contro un modello di istruzione tecnicistico, arido, subalterno, figlio di una società marcia in cui quello che conta è solo chi sarà il presidente del Senato e chi quello della Repubblica. Dovesse passare una nuova "legge Valpreda", allora sì, allora mi aspetto di poter affiancare ancora, dopo decenni, giovani disposti a battersi perché gli scranni su cui siederanno i presidenti tremino, vacillino e finalmente cadano, come in Francia è caduto il progetto Villepin. Allora sì, direi che mi aspetto solo di chiudere inseguendo l'ultima utopia: la costruzione di una società che sia ancora a misura d'uomo e non in mano a merci, mercati e mercanti.

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Giuliano Galiardi    - 04-05-2006
Egregio Professore,
pur non avendo simpatia per una scuola impostata secondo "merci, mercati e mercanti" tuttavia rimango perplesso di fronte ad una scuola impostata per farla breve, secondo i principi dell' Ulisse di Dante.
Dalla scuola vorrei una maggiore concretezza visto che la vita è purtroppo molto concreta : salute ed efficienza personale, rapporti con gli altri, scelta ad hoc degli studi e del lavoro, preparazione ed efficienza sul lavoro.
E' sui problemi concreti che vorrei che si impostasse la scuola e che si finisse una buona volta di tenerla come un'area di parcheggio teorica avulsa dalla realtà.

ex-insegnante
Ipsia di Parma

 Giuseppe Aragno    - 09-05-2006
Caro Galiardi, ho molti motivi per risponderle e la prego di credere: non ho potuto farlo prima. Voglio per ringraziarla dell'attenzione che ha dedicato a Fuoriregistro, per i toni pacati con cui ha espresso il suo dissenso e per la premessa iniziale che ci accomuna: la scarsa simpatia per la scuola-azienda. Condivido pienamente la sua esigenza di concretezza e non intendevo indicare a modello una scuola impostata "secondo i principi dell' Ulisse di Dante", però mi permetta di crederlo: una scuola in grado di formare tanti giobvani Ulisse sarebbe una scuola davvero eccezionale.