Il cerchio di Giotto
Emanuela Cerutti - 17-05-2002
Cominciamo dalla persona umana.
Da mettere al centro.
Già qui c’è un errore di prospettiva, perché non esiste individuo al di fuori di un insieme, di una collettività alla quale deve rendere conto e che costituisce come parte ineliminabile. Come non esiste un elemento al di fuori di un sistema con cui interagisce.
In nome della sacralità della singola persona e poi del singolo popolo ne abbiamo compiute di dissacrazioni, da Adamo ad oggi. E continuiamo, imperterriti, difendendo una dignità a senso unico, che perciò stesso non esiste più, rimane solamente l’affermazione di una parte solitaria con pretese di totalità.
“Diritto del singolo" è una specie di tautologia, che si ferma lì.
Come il mio diritto al riposo si ferma, tutte le sere, davanti al diritto di bocche affamate, o il mio diritto ad un orario comodo cozza tutti gli anni, a settembre, col diritto di alunni e studenti ad una distribuzione disciplinare armonica, o ancora il mio diritto ad un giorno di permesso sbatte drammaticamente il naso contro il diritto di credibilità dei lavoratori in sciopero…e si potrebbe allungare la lista col diritto ad avere risorse per me sapendo che le toglierò a qualcun altro, o a liberarmi di un insegnante incompetente sapendo che finirà nella classe accanto, o a dire a qualcuno quello che penso sapendo che avrà diritto ad arrabbiarsi per questo…
Universo quotidiano condito di banalità, ma nostro.

Nell’epoca delle grandi affermazioni di principio e dei diritti umani spezzo una lancia a favore del caos primordiale.
E mi metto in ascolto di ogni decibel di rumore, frastuono o musica che sia.
Sento le sferzate (con il bastone, maestra, e, se sei tanto cattivo, senza scarpe e calze) contro l’ignoranza: nessuna contestazione, gli insegnanti hanno il diritto di picchiare, che si tratti di Tunisia, Marocco, Albania, Kosovo, Macedonia dell’oggi o valli bergamasche del ventennio descritte dalla Gianini Belotti e confermate da altre Belotti che allora erano bimbe.
Sento la resistenza all’innovazione da parte di quelli che decidono e da parte di quelli che dicono che bisogna andare avanti: sperimentazioni bloccate prima di risultati significativi, reti territoriali proclamate e smentite nel breve volgere di timori autonomisti, promesse europeizzanti e “territori” alla rovescia nel pentolone delle cattedre estere.
Sento lo stridore dei catenacci del programma, altisonante dover essere impermeabile a qualunque variabile, comprese quelle che tutti i giorni cercano di dirti che esistono.
Di là, sento la risata di Abdel, che corre più veloce delle sberle in arrivo e poi torna a sedersi, perché “tanto anche i grandi dimenticano cosa stavano facendo”.
Sento le voci di studenti che prendono per mano bambini e li fanno giocare e gli spiegano un’acca troppo difficile, mentre nell’aula accanto Signornò disprezza il lavoro volontario: in fretta, perché tra cinque minuti ha una lezione privata o un fondo regionale da riscuotere ( scusa, non te l’avevo detto?).
E sento anche il dirompente furore di Michele, che, da un letto d’ospedale, appanna con la sua aria di scherno lo specchio del successo scolastico monitorato dai pasciuti questionari all’uopo predisposti: niente da fare, la macchiolina non se ne va.

Mi permetto di essere contro, convinta che una parte di odio scaldi e colori ogni passione profonda, o che la lotta dell’uomo, da sempre, sia il tentativo ribelle di colmare fratture.
Nulla di “necessario”, certamente: ci si può attestare su uno dei due margini a guardare l’abisso, ci si possono gridare da una parte all’altra le proprie ragioni, lasciandole rimbalzare su pareti di gomma, si può anche fingere che di là non ci sia nulla. Scelte etiche, o scommesse metafisiche.
Però sarebbe “sufficiente”: perché la giostra riparta quel tanto che basta a ridisegnare il sogno.

Barbiana non è un santuario: è una frontiera concretissima che si tuffa nelle sicurezze, le interroga e le ferisce, allora come oggi.
Don Milani non è un mago: sa in anticipo che non riuscirà ad abbattere “il muro della diffidenza e l’odio di classe”. Ma vuole una scuola che non riempia tanto “l’abisso di ignoranza, quanto quello di differenza”.
“Non si tratta di fare di ogni operaio un ingegnere e di ogni ingegnere un operaio. Ma solo di far sì che l’essere ingegnere non implichi automaticamente anche l' essere più uomo”.

Solo.
Più contro di così…
Allora, non si tratta unicamente dell’”umanità di ogni singolo ragazzo”, ma di un mondo di relazioni da rivoluzionare, di pregiudizi da abbattere e di discorsi nuovi da fare: un’intera scala di valori da rimettere in piedi, con priorità da rivendicare e comuni desideri da ricontrattare.

Ci sono poli universitari baciati dai finanziamenti miliardari (euro concedendo) da poco approvati e piccoli comuni senza locali scolastici, nelle cui giunte stato e regioni giocano al “tocca a te” di turno.
Ci sono scuole che saranno deprivate di risorse, ma arricchite di materiale umano, a riprova dell’efficiente intuizione di Lavoisier sulla conservazione della massa.
Ci sono Penelopi in attesa di definizioni contrattuali, mentre Ulisse l’eroe gioca con la bella Circe al miglior trasformismo possibile: e i Proci gozzovigliano.

A Barbiana il ponte è stato gettato e la prospettiva corretta: l’utopia rivela il suo volto più autentico e più pericoloso, quello della realizzabilità.

Trecentosessanta gradi perché il cerchio si chiuda, come fece Giotto, il pastore, su questa stessa terra, silenziosamente, molti anni fa.

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