Il Dirigente scolastico oggi
Francesco Di Lorenzo - 04-04-2006
1. Il dibattito che pure si è alimento negli ultimi anni su chi dovesse essere il dirigente scolastico ha visto impegnati due fronti contrapposti. In pratica, gli apocalittici e gli integrati, nelle cui posizioni - a volte più complesse ed articolate - si potevano intravedere i termini di chi difendeva situazioni superate, dove il capo di istituto era visto come l'intellettuale chiuso tra le pareti della libreria aristocratica e critico verso tutto ciò che avveniva fuori, e chi invece sosteneva la vulgata del manager sempre in movimento, tutto preso dal fare.
Drucker nel suo "La società post-capitalistica" a proposito di una auspicata riconciliazione tra la cultura dei manager e quella degli intellettuali, facendone, anzi, una condizione per la riuscita del programma globale di società della conoscenza, dice: " I loro punti di vista sono contrapposti, ma sono contrapposti come due poli complementari, non contraddittori. Ciascuno ha bisogno dell'altro ...l'intellettuale, se non è completato dal manager, crea un mondo dove ognuno fa ciò che vuole ma dove nessuno fa nulla". D'altra parte, chi si concentra solo sul fare può perdere la capacità di capire la direzione in cui sta andando, cosa gli sta accadendo vicino, a fianco, nella società, risultando alla fine manchevole sotto molti punti di vista. E per quanto riguarda il particolare mondo della scuola, ciò risulterebbe essere ancora più grave.


2. La dirigenza scolastica vive un momento intenso e nuovo attraverso l'assunzione di diverse forme di responsabilità ormai reali, e con un quadro di riferimento sia normativo che culturale in parte stabilito anche se ancora in evoluzione.
Nella situazione attuale il dirigente scolastico è il responsabile di un organo dell'amministrazione pubblica. Come per tutti i dirigenti statali, attraverso un decreto legislativo del 1993 egli è " responsabile dell'attività svolta dal suo ufficio in merito ai risultati, della realizzazione dei programmi e dei progetti affidati, in relazione agli obiettivi, dei rendimenti e dei risultati della gestione finanziaria, tecnica e amministrativa". Poi, in linea con tutta una serie di funzioni e di competenze che si andavano spostando dal centro alla periferia, anche per i dirigenti scolastici è stato introdotto il concetto di valutazione, questo per recuperare la produttività in declino dei servizi pubblici e per valutare la corretta gestione delle risorse pubbliche.
Per la parte ormai acquisita delle norme che regolano l'andamento della nuova dirigenza, forse giustamente, valutando da dove si partiva, una vera e propria forma di metabolizzazione delle novità ancora non c'è stata.
Ma da dove si partiva? Qual è il retroterra, la storia che sta alle spalle del dirigente scolastico di oggi?
In grandi linee, potremmo dire che ci sono stati quattro periodi essenziali della dirigenza scolastica italiana.
Il primo periodo, pionieristico, fondativo della moderna gestione della scuola, parte dalla legge Casati che è del 1859 e che deve essere considerata a tutti gli effetti la prima legge sull'istruzione del Regno d'Italia. In questi primi anni, nella figura del capo di istituto, preside o direttore didattico, prevalgono in assoluto gli aspetti culturali. Siamo in presenza della figura dell'uomo colto, intellettuale al cento per cento, con un'appendice specifica per le questioni più propriamente didattiche.
Un secondo periodo parte dalla riforma Gentile del 1924. Il dirigente scolastico è considerato come un esecutore e un garante dell'attuazione delle disposizioni di legge, dei regolamenti e degli ordini delle autorità superiori. In questo periodo, nonostante il forte richiamo al ruolo di esecutori di ordini che pure resta attivo e presente, presidi e direttori non diventeranno mai acritici e banali sostenitori della politica culturale dettata dal centro. Siamo nel periodo fascista, e potremmo far iniziare da questo particolare momento la tendenza allo sforzo di coniugare un ruolo di semplice esecuzione con l'attività di proposta, di stimolo, impulso e indirizzo che da allora in poi non è mai mancato nelle scuole italiane.
Un terzo periodo va dall'immediato dopoguerra e ed arriva fino alla scuola cosiddetta di massa. Nella professione emersero gli aspetti più propriamente amministrativi e burocratici. Periodo non facile per la difficoltà di dover conciliare l'organizzazione scolastica con le esigenze della società e i richiami del mondo della produzione. In questa situazione di disagio e malessere generale si giunse al 68'. Le riposte che il dirigente dovette in quel periodo dare alle domande dei diversi interlocutori non derivavano da nessuna norma e neanche da una cultura dirigenziale codificata, non erano supportate da nessuna 'grammatica dirigenziale'. Furono il frutto dell'improvvisazione. Le richieste erano forti ma le risposte o erano grossolane e banali o di contrapposizione o di prudente accettazione, fino al caso di alcuni capi di istituto che diedero loro stessi le chiavi della scuola ai gruppi di studenti che in assemblea ne avevano deciso l'occupazione. In pratica, mancanza di riferimenti chiari e sbandamento totale.
Il quarto periodo, quello che segna la vera e propria evoluzione del ruolo, parte dai decreti delegati del 1974. I punti cardine sono la partecipazione alla gestione della scuola di forze e soggetti fino ad allora ritenuti estranei e quindi una gestione collegiale delle pratiche e delle procedure che servono a far funzionare un istituto scolastico.
In forma indiretta la legislazione del 1974 chiedeva al dirigente di possedere le abilità per arbitrare, per negoziare, per gestire conflitti, mediare tra maggioranza e minoranza, avere cognizione delle dinamiche dei gruppi e riuscire ad avere una qualche influenza sui comportamenti delle persone.
In pratica si trattava di acquisire competenze da leader del settore educativo, per diventare una forza di mediazione istituzionale nella gestione collegiale della scuola.
È evidente, però, che si trattava di una mediazione che contrastava con un apparato e un impianto amministrativo ancora estraneo ed impermeabile alle novità, che prevedeva una gestione complicata, spesso velleitaria, molto formale, poco o niente in linea con i tempi.
In effetti la modifica profonda del modello organizzativo, il periodo che si sta vivendo attualmente, parte proprio dal 1974. Da lì, con un orientamento caratterizzato sempre più da flessibilità e autonomia, si arriva fino all'attribuzione della personalità giuridica e all'autonomia organizzativa, finanziaria e didattica a tutte le istituzioni scolastiche. Entrano in campo concetti come efficacia e legittimità e il ruolo del dirigente diventa sempre più attivo e dinamico.

3. La dirigenza scolastica è stata definita da molti una leadership per l'apprendimento. Però, una definizione che pure esprime l'idea di fondo e la sostanza di una professione, da sola non basta a spiegare di che cosa si tratta e di che cosa si sta parlando. Nel caso specifico, il discorso va inserito nel contesto più ampio della complessiva riorganizzazione del sistema scolastico, in coerenza con il processo di riforma della Pubblica Amministrazione che ha trasferito fasi importanti della progettazione del servizio dal centro alla periferia. Intanto, tale trasformazione ha fatto sì che il capo di istituto di una volta si trasformasse in dirigente scolastico, cambiando di fatto la sua funzione e la sua identità professionale, in evidente discontinuità con il passato.
Alcune delle tappe fondamentali di questo percorso possono essere sinteticamente così fissate: il decreto legislativo n. 29 del 1993 che avvia la riforma della dirigenza pubblica; la legge n. 59 del 15 marzo 1997 che ha definito il nuovo sistema di autonomia della scuola in vigore attualmente; il decreto legislativo n. 59 del 6 marzo 1998 che ha disciplinato e attribuito la qualifica dirigenziale ai capi di istituto delle istituzioni scolastiche autonome; il decreto legge n.165 del 2001 su tutti gli impiegati della pubblica amministrazione, che è una diretta evoluzione di quello del 1993. Poi, nel 2002 arriva il primo contratto nazionale per i dirigenti scolastici.
È sempre fastidioso elencare date e citare leggi, ma in questo caso ci serve per sottolineare e ribadire che tutto il cammino verso la nuova idea di dirigenza scolastica non è pensabile separato dall'autonomia e da tutto ciò che questo concetto ha significato nella pratica.
C'è bisogno ora , però, di fare un passo indietro e contemporaneamente fissare alcuni punti.
In effetti, quando nel 1993 con un decreto legislativo i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche vennero disciplinati in modo privatistico, cioè allo stesso modo dei rapporti di lavoro dell'impresa, la scuola ci entrò superando qualche forzatura e qualche contraddizione. Era successo che nel corso degli anni la conflittualità tra chi sosteneva il sistema pubblico e chi il sistema privato del rapporto di lavoro diventasse sempre più forte. Per vicende di opportunità politica e sindacale, si arrivò, attraverso il decreto, a stabilire che la base costitutiva del rapporto di impiego fosse solo il contratto, allo stesso modo di qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato, così come è tipizzato nel codice civile.
I lavoratori della scuola si trovarono inseriti loro malgrado in questo contesto e con qualche difficoltà ad essere considerati alla stregua dei lavoratori delle altre pubbliche amministrazioni: l'articolo 33 della Costituzione, comma 1, che richiama il particolare che l'arte e le scienze sono libere come è libero il loro insegnamento, poneva non solo questioni di semplice differenza, ma metteva in essere dubbi più sottili e sotterranei relativi ad un sentire e ad un immaginario particolare.
In parte, poi, la peculiarità, la distinzione, la specificità del mondo scolastico verranno successivamente ribadite nel contratto nazionale di lavoro del comparto scuola del 1995.
In seguito, con la legge sull'autonomia (n. 59 del 1997), ci fu il conferimento della personalità giuridica di diritto pubblico a tutte le scuole. Cosa significa? Significa che ad ogni scuola viene riconosciuta una sua specificità perché ha una vita propria, perché è considerata un'unità sociale, un'organizzazione distinta dai singoli membri partecipanti. Chi dirige, progetta in funzione di un'organizzazione collettiva, che è qualcosa di più e di diverso dalla singola somma delle parti. La scuola diventa un'entità a se stante, un'unità giuridica e quindi persona giuridica.
Il decreto legislativo successivo (6 marzo 1998 n. 59) ha concesso autonomia di gestione a chi dirige una scuola: si tratta di una norma che consente ampi spazi di azione in campo didattico, ma al tempo stesso chiede il conseguimento di risultati, efficacia, efficienza, produttività del servizio, nonché trasparenza nell'azione.
Il cambiamento in pratica è totale: siamo in un campo altro rispetto alla vecchia 'scuola apparato' e alla filosofia politica che la ispirava.
La personalità giudirica attribuita alle istituzioni scolastiche in base al diritto pubblico e l'autonomia, contestualmente la qualifica dirigenziale ai capi di istituto, in pratica fanno da spartiacque, operano una cesura con chi ancora pensa di trovarsi in continuità con il passato.
Infatti, da questo momento, il dirigente scolastico, essendo titolare del 'proprio' istituto e suo legale rappresentante, diventa anche il titolare di alcune specifiche relazioni sindacali che ricadono da ora in poi sotto la sua responsabilità. Si tratta di norme definite nel CCNL del comparto scuola. Niente di preoccupante per chi vuole assumersi le proprie responsabilità, molto fastidioso, invece, per chi ha sempre e solo eseguito ordini.
Inoltre, c'è l'ufficio di segreteria e la funzione del 'direttore dei servizi generali e amministrativi' che ne è il coordinatore con ampi poteri autonomi, i quali poteri - anche se in conformità con le direttive di massima - fanno capo al dirigente scolastico e si inseriscono nel complesso della gestione unitaria dell'unità scolastica.
In conclusione, il dirigente scolastico oltre alla responsabilità dei risultati, ha responsabilità di natura disciplinare, amministrativa, contabile, civile e penale. Insomma, la scuola non è più amministrazione periferica del potere centrale.
Una distinzione va subito rilevata: tra la carriera direttiva (di una volta) e la qualifica dirigenziale ( di oggi) c'è la distanza che passa tra due poli, una distanza di 180 gradi. In pratica i due sistemi riflettono consuetudini, valori, prassi, programmi diversi.
Alla staticità del sistema scuola come apparato, di natura tolemaica, fermo nella ripetizione dei propri statuti, si contrappone un sistema scuola-servizio che è in evoluzione come i bisogni dell'utenza, è dinamico, di natura copernicana. E ancora, la filosofia politica che sorregge un impianto apparato, si fonda sui principi del centralismo, della burocrazia verticistica e dà vita a modelli organizzativi rigidi. Lo sfondo della scuola-servizio, invece, è basato sul cardine costituito dall'autonomia quindi sul decentramento e su un'organizzazione flessibile.
Prendendo a prestito concetti e parole da Enzo Spaltro, potremmo esemplificare il passaggio da una concezione vecchia ad una augurabile condizione nuova, attraverso una serie di coppie di termini che rimandano a dei concetti. Diremo quindi che la scuola sta percorrendo, e deve ancora farlo in gran parte, la strada dall'idea di oggettività all'idea della soggettività, dall'unità alla pluralità, dall'autorità al consenso, dalla vittoria all'accordo, dalla guerra alla pace, dall' opacità alla trasparenza, dall'imposizione alla negoziazione, dalla quantità alla qualità, dal passato al futuro, dal dominio alla parità.
Su ognuna di queste coppie si potrebbe parlare a lungo ma lo scopo ora è solo quello di mettere a fuoco un auspicio e una speranza. Niente di peggio del pericolo sempre in agguato del cambiare solo il vestito, gestire l'autonomia con la mentalità del sistema apparato non porterebbe da nessuna parte.

4. Se si pensa che una ricerca dello IARD di pochi anni fa mise in luce il fatto che l'81% dei maestri elementari, l'85% dei docenti delle scuole medie e l'89% dei docenti delle superiori, erano convinti che il proprio capo di istituto non fosse veramente capace di organizzare e di coordinare il lavoro degli insegnanti, il cammino da fare è ancora tantissimo, nel senso che bisogna lavorare per scardinare tali convinzioni dimostrando sul campo i risultati del cambiamento.
La nuova figura professionale del dirigente scolastico dovrà intanto muoversi seguendo alcuni principi, consapevole di essere un fattore di progettazione e di innovazione, pronto a gestire e valorizzare le persone al fine di perseguire dei risultati.
Ciò significa che dovrà aver presente:
a) la dimensione giuridico formale: quella più propriamente amministrativa, un'area che richiede non la semplice applicazione delle norme ma la loro interpretazione e la loro utilizzazione per la risoluzione dei problemi e per il conseguimento dei risultati che la scuola si prefigge;
b) la dimensione organizzativa: vale a dire la conoscenza e l'utilizzo di alcune regole di base per gestire un organismo e stabilire relazioni positive con le persone, valorizzarle, diffondere leadership;
c) la dimensione educativa: il possesso di competenze per analizzare i fenomeni educativi ed assumere una funzione di guida pedagogica all'interno della propria scuola, ma non solo.
Innanzitutto, però, bisogna convincersi che l'autonomia è un utile strumento per fare, non per nascondersi: se non si hanno idee o non si ha intenzione di "fare", l'autonomia non serve, anzi, è di impaccio e di ostacolo.
La scuola come organizzazione complessa che agisce a più livelli autonomi, che a loro volta interagiscono e si intersecano, certamente pone problemi di gestione.
Intanto, come ricorda Piero Romei, avere la pretesa di gestire la complessità è fuorviante, la complessità più che gestirla bisogna interrogarla ed è poi indispensabile essere in grado interpretare le riposte che si ricevono.
Nella scuola voler conoscere tutti i fenomeni e volerli gestire, diventa praticamente impossibile; ci sono in essa una serie di 'legami deboli' che impediscono di predeterminare con certezza i comportamenti, le azioni e i risultati conseguenti. Prendiamo ad esempio la questione del 'prodotto' ( parola abusata da adoperare con tutte le precauzioni possibili): per la scuola è il servizio da offrire agli studenti, è l'insegnamento. Bisogna che esso sia di ottima qualità per indurre apprendimento Di conseguenza, anche l'apprendimento è un prodotto della scuola. Però, di fatto, questo si trova esposto a influenze esterne dominanti e quindi non si possono avere certezze assolute di risultati.
Era solo un sintetico esempio per sottolineare la situazione di difficoltà, il rischio ma anche il fascino, e poi la scommessa che deve accettare chi è deputato a coordinare l'organizzazione scolastica.
Ma ora proviamo a leggere in maniera diversa alcuni termini già ampiamente usati: un cammino, un passaggio, un cambiamento devono portare anche visioni e concezioni nuove.
Prendiamo la leadership. In modo perentorio ed efficace Enzo Spaltro afferma: Nella scuola si sta passando progressivamente dalla leadership alla membership. E' arrivato infatti il momento di comprendere più chiaramente ed intenzionalmente la soggettività e il suo ruolo nella vita scolastica e nella vita lavorativa. Questa è la radice di ogni partecipazione: la soggettività. Non si può liquidare la richiesta di qualità riducendola al controllo di qualità, dimenticando che il passaggio dalla quantità alla qualità rappresenta un cambiamento culturale: dall'etica all'estetica, dall'oggettività quantitativa alla soggettività qualitativa, dalla leadership alla membership, dal comando all'appartenenza e quindi costituisce una mentalità partecipativa, negoziale e consensuale. E, ancora meglio, spiega che.. oggi il sentimento di leadership si sta sempre più identificando con l'idea di membership, cioè di appartenenza. Il leader può così essere considerato come il soggetto che possiede il più forte sentimento di appartenenza in gruppo.
Forse, allora, ci sono alcune domande preliminari che bisognerebbe fare al dirigente scolastico per il presente e soprattutto per il futuro. Gruppo, appartenenza, consenso: hanno valore? Quale valore hanno?
Un dirigente scolastico oggi è chiamato ad applicare la sua linea, a dare il suo contributo, il suo apporto, e a seconda della sua personalità e delle sue idee, a scegliere dei percorsi piuttosto che altri. Dovrebbe esplicitare, allora, la sua idea di servizio, che cosa è il pubblico?. C'è bisogno che si interroghi, ad esempio, su che cosa intende per potere. Sempre Spaltro ci indica un possibile percorso: ... e poiché il potere consiste, come ha scritto Rollo May, sempre più nella capacità di "promuovere od impedire cambiamenti", il territorio del pubblico si trasforma da campo del dominio e del potere unilaterale a campo delle parità e dei poteri reciproci.
E poi ancora, sugli stili di comando. Si può pensare che sono una metafora rappresentata con diversi modelli, uno è quello di Likert, autoritario autocratico e paternalistico, partecipatorio consultivo o di gruppo. Un altro è quello basato sul modello: assenso, dissenso, consenso come individuazione nel comando di una delle forme di esercizio del potere e della trasformazione del dominio in parità. Un altro ancora è quello della differenziazione del comando con tre leadership: gerarchica, tecnofunzionale e socio emotiva. Occorre nella funzione pubblica usare diversi modelli, perché la pluralità degli stili di comando porta all'uso del piccolo gruppo ed alla partecipazione nell'ambito della funzione pubblica.
Le questioni sono aperte. Ma sono aperte anche su di un fronte di natura più strettamente contenutistico, relativo alla questione decisiva del senso e dello scopo del fare scuola. Se lo scopo di una qualsiasi azienda è il profitto, per la scuola la questione non è così semplice? Quand'anche riuscisse a vendere bene il proprio lavoro, siamo sicuri di essere nel giusto?
La dimensione educativa, il senso profondo del perché si fa scuola in questo preciso momento storico, come ha avvertito Postman, ha bisogno di essere ridefinito. Ad esempio, recuperare il rispetto per l'apprendimento è un programma che va la di là di un qualsiasi discorso sul prodotto.
Altrimenti il rischio è quello di rinnovare gli strumenti senza considerare il perché li si rinnova. Fare discorsi intorno al progetto di offerta formativa, all'organizzazione, all'innovazione e superare il fatto grave che ormai da qualche anno, abilmente, l'establishment della scuola, di qualsiasi colore politico, nasconde che essa non è più capace di essere uno strumento di mobilità sociale, detto brutalmente, il figlio di genitori con una bassa scolarità, al di là delle proprie capacità, ha molte meno probabilità di laurearsi dovrebbe far riflettere non poco. Una scuola pubblica 'elitaria', che non permette matrimoni misti, è povera e si impoverisce sempre più, è debole, malata, è una non scuola. E contraddice tutti i bei discorsi che tra le righe sono stati fin qui fatti. Il punto è: un dirigente scolastico, che non è un dirigente qualsiasi, questi interrogativi di fondo, costitutivi della sua professione, li deve solo conoscere, approfondire, toccarli tangenzialmente, farli propri o sentirli come un dovere?
Se la complessità pone sempre problemi, il nostro, per quanto riguarda la professione del dirigente scolastico si sostanzia in una domanda: ci sono oggi programmi seri per costruire un efficace canale di reclutamento alla professione? Se dopo il corso di formazione iniziale di riconversione altra seria formazione non c'è stata; se ancora si continua da parte ministeriale e sindacale a fare leggi e leggine per sanare le situazioni dei collaboratori e dei vicari, qual è lo spazio per le vere novità?
O ancora e sempre bisogna sperare che gli alunni, i genitori, gli insegnanti, il personale di segreteria e quello ATA, capitino in una scuola con a capo un dirigente colto, interessato, adeguato e competente? Un po' come scommettere sul terno al lotto.

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L'articolo è uscito sul n. 138 di Psicologia e Lavoro - Red

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