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La dead line Argentina
Altrenotizie.org - 30-03-2006
Trent'anni fa, la storia dell'Argentina precipitò nel cono d'ombra. Prese il potere, con un colpo di Stato, la giunta militare guidata dai generali Videla (esercito), Agosti (aeronautica) e Massera (marina). Il primo era un pupillo di Kissinger, il secondo dell'oligarchia argentina, il terzo un iscritto alla loggia massonica P2 e raccomandato speciale di Licio Gelli. Insieme, formarono la triade assassina che fece sprofondare l'Argentina nel periodo più buio della sua storia. Se Isabelita Peron riuscì a lasciare la Casa Rosada a bordo di un elicottero, la sorte di una intera generazione venne gettata nell'immondezzaio della civiltà.

La governance dei militari si manifestò con tutta la barbarie possibile. Sciolti Parlamento e Governo, messi fuori legge partiti e sindacati, chiusi giornali e radio, il paese latinoamericano divenne una immensa dead-line fuori della quale passò solo chi riuscì a fuggire. Dentro, rimasero carceri, torture, voli della morte ed assassini a sangue freddo. Il prezzo che l'Argentina pagò alla "guerra alla sovversione comunista" fu di 32.000 morti. Diecimila vennero uccisi in combattimento o fucilati per le strade, mentre i 365 campi di sterminio, insediati in ogni dove della nazione, sequestrarono 10.000 persone. Un milione e mezzo riuscirono a percorrere la strada amara dell'esilio.

Erano passati solo tre anni dal colpo di Stato che in Cile aveva chiuso a ferro e fuoco l'esperienza del governo democratico di Salvador Allende ed il copione si ripeteva. Come per il Cile, il Brasile, l'Uruguay e il Paraguay, anche i funzionari del terrore che presero in ostaggio l'Argentina, agivano in nome e per conto del governo degli Stati Uniti. Dalle scuole militari statunitensi provenivano i generali, così come i torturatori applicavano sul campo le tecniche che s'insegnavano alla Escuela de las Americas di Panama. Già l'Algeria aveva insegnato molto sulle tecniche utili a soffocare la resistenza popolare; tecniche decisive per una guerra contro una nazione intera, elevate a metodo di governo per conto d'interessi stranieri. A quegli anni terribili si deve l'ingresso del termine desaparecidos nel lessico degli orrori. Persone che venivano sequestrate, torturate, quindi fatte scomparire, gettate in fosse comuni o lanciate dagli elicotteri nel Rio de la Plata.

Il terrore arruolò diversi paesi negli anni 70 e 80 ed i militari argentini divennero degli autentici esperti del settore. Aiutarono infatti i loro colleghi torturatori in El Salvador, in Spagna e in Turchia, tutti paesi diretti da militari ansiosi di regolare i conti con i loro rispettivi popoli.

Ma l'Argentina fu forse il reparto d'eccellenza per il modello imperante, che consegnava a militari locali con la bava alla bocca un subcontinente intero, che tentava di smarcarsi dal dominio soffocante e saccheggiatore di Washington. Dietro il sangue versato a fiumi, arrivava il denaro, sprecato a fiumi. Se i militari si preoccupavano di eliminare gli argentini, le teorie economiche monetariste dei Chicago Boys, nipotini diligenti dell'economista Milton Friedman, s'incaricavano di eliminare l'Argentina. In questa nefasta sinergia distruttrice, che consegnò lutti e miseria ad una nazione intera, la contabilità tetra della dittatura produsse 43 miliardi di dollari di debito pubblico, saldo di fine macelleria.

Non furono soli, i barbari in uniforme. Ebbero la compiacenza delle gerarchie ecclesiastiche, in particolare di Monsignor Pio Laghi, che benediva i torturatori e cacciava le madri e le nonne di Plaza de Mayo, donne straordinarie che per 30 anni hanno rappresentato la nobiltà argentina. Ogni settimana infatti, per trenta lunghi anni, hanno sfilato chiedendo la riconsegna in vita dei loro figli e nipoti sequestrati, sfidando repressione e indifferenza, quando non addirittura ostilità frontale, come quella manifestata dal monsignore, che umiliava la sua tonaca e la sua fede pur di garantirsi un ruolo da comprimario nella "guerra al comunismo".
Quando gli assassini divennero superflui, perché la dottrina di sicurezza nazionale statunitense aveva assunto orientamenti diversi, la casta militare tentò di porre il suggello in divenire. Approfittando della debolezza politica dei governi che avviarono la transizione come quello di Alfonsin, e della malcelata nostalgia di quello presieduto da Menem, riuscirono ad imporre due leggi, una denominata Ley de la obediencia debida (legge dell'obbedienza dovuta) e l'altra Ley del punto final (legge del punto finale). Il principio ispiratore delle due amnistie mascherate da leggi era l'assoluta non colpevolezza e non responsabilità dei militari e dei poliziotti argentini per i crimini commessi, in quanto soggetti ad "ordini superiori". I criminali diventavano quindi non giudicabili e non perseguibili: un tentativo vergognoso di sbianchettare una tragedia immensa.
Chi non risponderà dei suoi crimini è proprio Monsignor Pio Laghi. La chiesa di Roma lo ha assolto e oggi, da pensionato, magari discetta sulla difesa cattolica del diritto alla vita. Il governo democratico di Nestor Kirschner si è incaricato di cancellare le due leggi dell'oblio e diversi sono i militari già arrestati e in attesa dei processi, mentre molti altri sono già stati condannati.

La settimana scorsa le madri e le nonne dei desaparecidos hanno dichiarato la fine delle manifestazioni. La loro supplenza è terminata.

Da qualche anno, la giustizia ha preso la cittadinanza argentina.

Fabrizio Casari

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 il Manifesto    - 30-03-2006
Argentina: il silenzio complice dell'Italia. La P2 ma non solo

Al contrario di quel che accadde dopo il golpe cileno del '73, la tragedia argentina non suscitò le stesse passioni ed emozioni. Per lungo tempo, governi democristiani e opposizione comunista, giornali e tv, il Vaticano di Marcinkus e del nunzio Pio Laghi girarono la testa altrove

Se il golpe di Pinochet in Cile di tre anni prima aveva suscitato enormi passione e commozione nel mondo e particolarmente in Italia, il golpe di Videla in Argentina del 24 marzo '76 non ebbe, all'inizio, la stessa risonanza. A Buenos Aires non si vedeva la Moneda in fiamme, non i prigionieri nello stadio nazionale, non la caccia all'uomo per le strade. Silenzio o quasi. Anche perché Isabelita Peron non era Salvador Allende..

Silenzio o quasi. Ma non solo perché i generali argentini erano stati più «bravi». Nel mondo e in Italia. Specialmente in Italia. Dove nelle elezioni del giugno 76 il Pci era quasi riuscito nell'aggancio con la Dc, le Brigate rosse impazzavano, Berlinguer aveva avviato nella conferenza di Berlino l'euro-comunismo e lo strappo da Mosca, la P2 di Gelli stava per comprarsi il Corriere della sera, i poteri forti industriali e finanziari con grandi interessi in Argentina facevano valere il loro peso, Oltretevere papa Montini era quasi alla fine del suo pontificato e, dopo la meteora Luciani, nel '78 era stato eletto l'anticomunista Wojtyla mentre il cardinale americano Marcinkus continuava a manovrare l'oscuro business vaticano. Nel silenzio-assenso dei grandi giornali e della Tv di stato, e dei governi di centro-sinistra guidati da Palazzo Chigi e dalla Farnesina dalla nomenclatura Dc - Rumor, Andreotti, Moro, Forlani, Malfatti...-, poi del compromesso storico, la tragedia argentina fece fatica a farsi luce.

Nel '76 e '77 cominciarono ad arrivare in Italia i primi esiliati argentini. Ma al contrario dei cileni, a Roma non ebbero subito lo status di rifugiati politici, come all'ambasciata italiana in Argentina non avevano avuto l'asilo politico. A Buenos Aires le Madri dei desaparecidos avevano già cominciando a sfilare silenziose e implacabili tutti i giovedì intorno alla Casa rosada,, ma allora erano ancora solo «las locas de la Plaza de Mayo» che in pochi conoscevano fuori dall'Argentina prima che la tv olandese, in occasione dei mondiali di calcio, le riprendesse. L'ambasciatore italiano a Buenos Aires, Enrico Carrara, amico dei militari e informato in anticipo del golpe del 24 marzo, aveva subito provveduto a blindare le porte dell'ambasciata: non voleva si ripetesse quello che era accaduto tre anni prima a Santiago del Cile, dove grazie al coraggio di due diplomatici allora giovani - Roberto Toscano e Tommaso de Vergottini - l'ambasciata italiana aveva accolto migliaia di profughi. Nell'agosto del '76 l'ambasciatore Carrara, dichiarava frivolo e impudico nel mezzo dell'apocalisse argentina che «qui mi sembra che la questione dell'ordine pubblico sia stata brillantemente risolta». Il nunzio apostolico Pio Laghi giocava a tennis con il golpista Massera, il capo dell'Esma dove sparirono più di 5000 «sovversivi». Carrara diceva alla Farnesina quel che la Farnesina (e Licio Gelli e Umberto Ortolani e Roberto Calvi) voleva sentirsi dire. Laghi riferiva al Vaticano quel che i complici vescovi argentini e il suo amico Massera volevano fosse riferito.

Il Corriere della sera, acquistato da poco da piduista Rizzoli e guidato dai piduisti Tassan Din e, come direttore, Franco Di Bella, aveva messo il silenziatore ai servizi del suo corrispondente da Buenos Aires, Giangiacomo Foà, ordinandogli anzi, agli inizi del '77, di trasferirsi a Rio de Janeiro per il suo bene (in effetti era nelle liste nere dei militari). In tv i servizi dall'Argentina di Italo Moretti faticavano a passare. A Buenos Aires, blindata l'ambasciata da Carrara, toccò al giovane console Enrico Calamai - insieme a Foà e al militante comunista Filippo di Benedetto, antico emigrato calabrese e responsabile dell'Incra-Cgil - rischiare la vita per salvare quella di tanti disperati, oriundi italiani ma non solo. Non erano solo l'ambasciatore e la Farnesina a chiudere occhi e orecchie davanti ai suoi racconti: anche il Pci e la Cgil fecero muro. L'Unità, per un bel pezzo, fu particolarmente penosa, provandosi a sostenere la tesi suicida del Pc argentino, uno dei più fedeli seguaci di Mosca, che vedeva nel golpe lo sbocco quasi inevitabile degli «opposti estremismi» di destra e di sinistra e in Videla «un moderato» - «il male minore» di fronte ai settori «duri» -, a cui bisognava dare «un appoggio critico» in vista di «patto nazionale democratico fra civili e militari»

Sulla tragedia argentina gravava una cappa di silenzio. Pesavano gli interessi economici italiani in quel paese - Fiat, Pirelli, Eni, Magneti Marelli, Techint, Banco di Napoli, Bnl, il Banco ambrosiano di Calvi, il Corsera che si era appropriata dell'editoriale Civitas... Pesava il clima in Italia dopo che le Br rapirono Moro nel marzo del '78. Pesava soprattutto la P2 di Gelli che insieme a Umberto Ortolani e Roberto Calvi erano di casa a Buenos Aires e Montevideo. Pesava il contesto internazionale: gli Usa che erano passati dalla partecipazione attiva a fianco dei golpisti con Kissinger a una sorta di neutralità complice con Carter alla Casa bianca e l'Urss, che messa sotto embargo da Reagan dopo l'invasione dell'Afghanistan, aveva bisogno del grano argentino e bloccava ogni pur timido passo dell'Onu.

Così fu solo alla fine del '79, tre anni dopo il golpe, che in Italia si cominciò a capire cosa era successo e stava succedendo in Argentina. Fu in settembre che davanti alla chiesa della Trasfigurazione, a Roma, comparve uno striscione delle Madri di Piazza di Maggio con su scritto: «Digiuniamo per la ricomparsa dei nostri cari». E fu in ottobre che papa Wojtyla si degnò di pregare all'Angelus anche per i desaparecidos, peraltro dopo aver a lungo rifiutato le richieste di udienza da parte delle Madri (mentre non si faceva scrupolo di ricevere i buoni cattolici Videla e Massera). E fu solo il 31 ottobre dell'82 quando Foà riuscì a far passare sul Corriere della sera, liberatosi dalla stigntate della P2, la lista di 297 desaparecidos italiani (un migliaio fra i 30 mila).

Tutti, in Italia, sapevano fin dal principio. «Anche da voi si sapeva tutto», disse Massera intervistato da Moretti nell'82. Purtroppo bisogna credere più a lui che a Giulio Andreotti che ancora nel 2001 osò dire «non sapevo niente».


Maurizio Matteuzzi