Università: rompere un tabù
Giancarlo Cesana - 18-03-2006
Per una vera riforma aboliamo il valore legale del titolo di studio propone provocatoriamente Giancarlo Cesana, Ordinario di Medicina del Lavoro presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca ed esponente di spicco di Comunione e Liberazione. L'articolo - che proponiamo alla cortese attenzione dei lettori - è estratto dall'ultimo numero della rivista "Atlantide" ed è stato ripreso dal quotidiano "Il nuovo Riformista". (Red)


Parlare di abolizione del valore legale del titolo di studio, dopo quanto è successo con la riforma Moratti, significa andare incontro a un gran numero di ostacoli e di proteste. Per affrontare questo tema mi sembra significativo partire da un'esperienza personale: ho avuto l'avventura di far parte, per un breve periodo, della commissione di esperti che avrebbe dovuto supportare l'azione della riforma universitaria del ministro Moratti. Quando chiesi di affrontare la questione dell'abolizione del valore legale del titolo di studio, mi fu risposto che si trattava di un problema prettamente europeo, che poco aveva a che fare con l'esperienza del nostro paese.

Affrontare un simile tema certamente non è facile, come del resto non lo è neppure quello, più generale, che riguarda il ruolo dell'Università nel nostro paese, anche perché purtroppo ciò che conta e che più interessa l'opinione pubblica sembra essere solo il risvolto politico di ogni questione. L'abolizione del valore legale del titolo di studio è dunque un argomento tabù: in Italia il "pezzo di carta" è sentito come una protezione in uno degli ambiti a cui i giovani si rivolgono con maggior facilità per cercare un posto di lavoro, quello dei concorsi pubblici. Nel pubblico, infatti, il valore legale del titolo di studio assicura una certa protezione; nel privato, invece, è tutto diverso.

Per cercare di capire quale possa essere l'importanza di questo tema, dobbiamo riflettere sui concorsi per l'accesso alla docenza universitaria, che oggi, dopo la riforma Moratti, sono indetti su base nazionale, per correggere l'insufficienza dei concorsi locali: chi non è ipocrita sa che l'ingresso nell'università è avvenuto e avviene per cooptazione, anche con i concorsi e nonostante essi.

Ci sono poi altri problemi di importanza non certo secondaria che descrivono la difficoltà in cui versa la situazione dell'università italiana; ad esempio, in genere le università hanno un numero di studenti superiore a quelli che sono in grado di formare. Nella facoltà di medicina di cui io faccio parte il numero chiuso è stato stabilito non per iniziativa italiana, ma europea; fosse stato per noi, avremmo continuato a sfornare medici chissà fino a quando. Nonostante l'introduzione del numero chiuso, la facoltà di medicina arruola comunque una quantità di studenti superiore a quella che le sue strutture possono supportare: le conseguenze che ciò comporta nella formazione dei medici sono sotto gli occhi di tutti. Non parliamo poi delle scuole di specializzazione, in cui spesso gli specializzandi, pur desiderosi di darsi da fare, sono di fatto messi in condizione di non poter fare nulla; lo stesso si potrebbe dire di numerose altre situazioni.

La recente introduzione del cosiddetto "tre più due", che differenzia i canoni di formazione tra un ateneo e l'altro, non ha fatto altro che peggiorare lo stato di cose esistente: oggi il corso triennale fornisce un titolo di «dottore» risibile, non accettato dagli albi professionali. La competitività internazionale dell'università italiana è giunta al suo livello più basso, non nel senso che non si possa scendere ancora, ma nel senso che siamo al più basso livello mai raggiunto prima; la controprova è la scarsissima capacità dell'università italiana di attrarre studenti e professori stranieri, come pure la sua limitata capacità di attrazione dei contributi culturali ed economici da parte del resto della società.

Si tratta di limiti ormai largamente risaputi, che costituiscono l'oggetto di una lamentela quotidiana sia da parte di chi l'università la fa, sia di chi la subisce in vario modo; l'impressione è che in fondo non si speri in nessun cambiamento sostanziale, perché sembra troppo difficile cambiare le cose: i pochi mutamenti che si tenta di introdurre, infatti, suscitano immediate resistenze, e vengono facilmente aggirati.

Che cosa vuol dire, in una situazione del genere, abolire il valore legale del titolo di studio? Secondo me, una cosa molto semplice: tentare di ripartire non da un progetto di università, da un progetto di riforma dell'università (ci troviamo di fronte a un castello di carte: se se ne sposta una, facilmente vengono giù tutte le altre). Inoltre, una riforma dell'università mi appare tanto difficile proprio per la fortissima resistenza al cambiamento. Non dobbiamo partire da un progetto generico e complessivo sull'università, ma dal riconoscimento della situazione così com'è: il punto da cui partire è l'apertura a un regime di concorrenza, dove la parola «concorrenza» non significa uccidersi l'un l'altro, ma "correre insieme", cercare di collaborare insieme per fare un'università migliore, partendo dalla constatazione di quello che c'è. Solo così sarà possibile riconoscere le università e le lauree migliori. Abolire il valore legale del titolo di studio implicherebbe compiere, per la prima volta, un atto di riconoscimento dello stato di cose; significherebbe partire non da un progetto, piccolo o grande che sia, ma dal riconoscimento della realtà.


Giancarlo Cesana

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 Franco Dore    - 19-03-2006
Credo che il problema posto abbia nell'articolo stesso una indicazione concreta : " ...oggi il corso triennale fornisce un titolo di «dottore» risibile, non accettato dagli albi professionali." Il perchè della non accettazione è dato dall'insufficiente livello di preparazione dimostrato. Se questa asserzione è falsa è solo un tentativo degli ordini professionali di autoproteggersi e ciò legittima chi richiede il superamento degli albi professionali che sono fondati anzitutto sul valore legale del titolo di studio; se invece l'asserzione è vera allora è legittimo richiedere una garanzia per un bene chiamato "prestazione professionale" dato soltanto da una competenza certificata da un serio "Esame di Stato". Il tema è ovviamente molto ampio e da approfondire, ma nulla toglie all'urgenza data dalla constatazione di un'altra delle asserzioni contenuta nello stesso articolo ".... La competitività internazionale dell'università italiana è giunta al suo livello più basso .... "
Forse è giunto il tempo per constatare che "LA FORMAZIONE", intesa nel senso più ampio, è un terreno da sottrarre a ristrutturazioni selvagge frutto di elaborazioni di una sola parte politica contro un'altra.... è semmai il fondamento su cui i bambini, diventati ragazzi e poi ancora giovani costruiscono il loro futuro.

 Anna Di Gennaro Melchiori    - 19-03-2006
Condivido in toto le interessanti argomentazioni addotte dall'illustre professore. Ricordo altresì una significativa affermazione del giornalista Beppe Severgnini quest'estate - al mare - durante la presentazione del suo ultimo libro "La testa degli italiani". A chi gli chiedeva cosa principalmente non funzionasse in Italia, rispose sinteticamente così:
"All'estero i docenti universitari, per mantenere la cattedra, DEVONO far pubblicazioni almeno ogni cinque anni! Il Patria, chi docet in università non ha alcun obbligo..." Inutile quindi aggiungere altro, le ricadute sull'utenza sono sotto gli occhi di tutti.

Da Milano