Integrazione è parola ambigua e difficile, scivola facilmente in assimilazione, rinuncia forzata alla propria lingua e cultura. Ma anche il suo contrario, la conservazione ostinata delle origini dei padri, è un pesante fardello per gli immigrati di seconda generazione, divisi tra un passato che non è il loro e un presente in cui non sanno dove mettersi. Un doppio spaesamento descritto alla perfezione dal disegno di un alunno italo-tunisino della scuola media «Paolo Borsellino» di Mazara del Vallo: un'aula senza confini, un banco monoposto, una domanda come didascalia «Io dove sono?». Come tutti i ragazzi della Casbah di Mazara, l'autore del disegno ha fatto le elementari nella scuola tunisina aperta nell'80 a Mazara. E' un pezzo di Tunisia trasportato in Sicilia. Il comune fornisce tre aule in cui gli attuali 173 alunni sono costretti a fare i turni; tutto il resto - programmi, insegnanti, libri di testo - dipende dallo stato tunisino, funziona come nella «madre patria».La scuola tunisina di Mazara ha una sua notorietà. I media la usano spesso come pennellata di colore per dimostrare quanto l'Italia è diventata multietnica.
Ieri a Milano, al convegno della Cgil "Saperi senza confini. Scuola e formazione nella politiche per l'immigrazione", Gasperina Piccione, vicepreside della Borsellino, con ferma delicatezza ha evidenziato i «molti problemi» di un percorso scolastico che inizia in un modo e prosegue in un altro. Dalla scuola elementare tunisina, che dura sei anni, escono ragazzi «né carne, né pesce», che non sanno l'italiano, parlano un po' di dialetto, ma non sanno scrivere in arabo, «qualcuno non sa neppure dov'è la Mecca e chi è Maometto». L'unica materia in cui se la cavano meglio dei coetanei italiani è il francese. L'handicap più pesante è quello della lingua italiana. Per superarlo alla media Borsellino, dove il 10% degli alunni è figlio di immigrati, è stato adottato il metodo delle «classi aperte»; laboratori, sport, teatro, giornalino, «tarantella siciliana e danza del ventre». Il teatro è l'attività che più ha favorito l'apprendimento dell'italiano e la comunicazione tra gli alunni. «Ma il disagio è ancora profondo e il cammino è ancora lungo».
Dei tanti ragazzi tunisini passati dai banchi della Borsellino solo uno si è laureato, una decina si sono diplomati. «Gli altri restano staccati». Il più intelligente, prima di finire le medie, è scappato di casa. «Un anno dopo ci ha mandato una cartolina dalla casa circondariale minorile di Napoli». Quando è tornato a Mazara aveva 17 anni, «non potevamo più prenderlo a scuola». Nonostante le tre aule delle elementari tunisine siano nell'edificio della Borsellino, le due scuole non comunicano. «Neppure l'intervallo insieme si riesce a fare» dice la vicepreside, e si intuisce che la volontà di chiusura l'attribuisce alla scuola tunisina. A Mazara ci sono 3 mila immigrati regolari, lavorano soprattutto nella pesca e sono ben accettati. «E' tutta gente che non tornerà più in Tunisia; dunque, che senso ha mandare i figli, che in gran parte sono italiani perché sono nati qui, alla scuola tunisina? Il prezzo lo pagano i ragazzi con un di più di disagio». Perché questa ostinazione dei padri? «Perché hanno paura, perché vivono sempre con l'angoscia di dover fare la la valigia», dice Fathi Trabelsi, del consolato tunisino a Milano, «non ci si può spogliare in 24 ore della propria identità e prenderne un'altra».
La prof. propone un incontro a mezza strada: due ore d'italiano alla scuola tunisina e due ore di arabo alla Borsellino. «Ci va benissimo, faccia un progetto e lo mandi alla nostra ambasciata. Siamo i primi a dire che la scuola elementare tunisina di Mazara è un fallimento. Però, quando andiamo dai provveditori per chiedere qualche ora di arabo nelle scuole, la risposta è che ce le dobbiamo pagare di tasca nostra». Radhia Ben Amara, tunisina della Cgil di Ravenna, si aggiunge alla nostra discussione a margine del convegno: «Volevano fare una scuola come quella di Mazara anche a Genova, ad Ancona e a Forlì. Noi li abbiamo bloccati. No, per carità, così si fa il ghetto». Morale della storia: quando ci si parla, si scopre d'essere più d'accordo di quanto si pensasse.
Il convegno, concluso da Sergio Cofferati, ha raccontato anche altre esperienze di integrazione scolastica e formazione professionale per gli immigrati. Si possono riassumere in una frase: «Saper leggere la bolletta dell'Enel è più importante che imparare a usare il tornio». Il lavoratore immigrato per le imprese è poco più di una «materia prima», dice Alioune Gueye, responsabile dell'ufficio politiche per l'immigrazione della Cgil. Gli immigrati devono istruirsi e formarsi innanzi tutto «per sé», l'utilità per l'impresa viene dopo. La solidarietà compassionevole non ci basta e non ci piace. E la riforma Moratti, che obbliga a scegliere a 13 anni l'indirizzo scolastico, per i figli degli immigrati equivale a una vera e propria «pulizia etnica».
Manuela Cartosio