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Direttiva Bolkestein : a che punto siamo ?
Attac, il granello di sabbia - 11-03-2006
Il Parlamento Europeo, il 16 febbraio 2006 ha adottato in prima lettura la proposta di Direttiva sui servizi nel mercato interno, detta Direttiva Bolkestein. Il testo adottato, risultato di un "compromesso" tra il Partito Popolare Europeo e il Partito Socialista Europeo, è sensibilmente diverso dalla proposta iniziale della Commissione.
Quella che segue è un'analisi delle modifiche apportate che non pretende di essere esaustiva anche perché la complessità del diritto europeo sancito dai trattati e modificato dalla successiva giurisprudenza della Corte europea di Giustizia, rende difficile un'interpretazione univoca e richiede comparazioni tra i diversi punti di vista, in modo da presentare infine una valutazione che sia inattaccabile nel dibattito pubblico.

I poteri della Commissione (leggermente ridimensionati)

Avendo redatto la proposta iniziale, la Commissione aveva introdotto un articolo particolarmente pernicioso (Art. 15,6) che di fatto metteva le legislazioni nazionali sotto il controllo della Commissione stessa.
Quell'Articolo obbligava ogni Stato Membro a comunicare alla Commissione i suoi progetti di modifiche regolamentari o legislative rese necessarie ai fini dell'applicazione della direttiva. In base alle proprie valutazioni, la Commissione poteva a sua volta adottare una decisione che chiedesse a quello Stato di sopprimerle.
Questo Articolo, che rafforzava i poteri della Commissione, è stato soppresso.

I servizi pubblici

I servizi d'interesse generale (SIG) sono esclusi dal campo di applicazione della Direttiva, ma essa si applica ai servizi d'interesse economico generale (SIEG) "vale a dire ai servizi che corrispondono a una attività economica e che sono aperti alla concorrenza" (Considerando 8bis).
In realtà, la distinzione tra SIG e SIEG è molto fuorviante.
In effetti, nel rapporto sui servizi d'interesse generale presentato al Consiglio europeo di Laeken alla fine del 2001, la Commissione rileva che "non è possibile stabilire a priori un elenco definitivo di tutti i servizi di interesse generale da considerarsi come non economici". Si basa per questo sull'interpretazione di una sentenza della Corte di Giustizia1 secondo la quale "costituisce attività economica qualsiasi attività consistente nell'offrire beni e servizi su un dato mercato".
Con una tale definizione, tutto, eccetto le attività "di governo" dello Stato, può essere considerato come "attività economica" e quindi assoggettato alle regole della concorrenza.
Quello che i sostenitori del "compromesso" presentano come una grande vittoria, si rivela così molto poco rilevante. Tuttavia, la direttiva ora esclude nettamente un certo numero di attività inerenti i servizi pubblici o attività dipendenti dal potere pubblico. In totale, e sperando di non aver dimenticato niente: accesso ai fondi pubblici, servizi sociali, edilizia popolare (finanziamento, sistema di aiuti, criteri di assegnazione), servizi per l'infanzia e la famiglia, servizi finanziari, servizi sanitari e farmaceutici tra i quali i rimborsi delle spese sostenute per cure, l'audiovisivo ivi compreso il cinema, i giochi d'azzardo, le professioni associate all'esercizio del potere pubblico, la fiscalità, le attività sportive amatoriali.

D'altra parte, sono esclusi con una precisione maggiore che non nel testo originale, i servizi di trasporto, compresi i trasporti urbani, i servizi portuali, i taxi e le ambulanze. In compenso i trasporti di denaro o di persone defunte sono compresi nella direttiva.

La direttiva non si applica alle telecomunicazioni. L'Art. 16 della direttiva sulla libera prestazione di servizi (vedere più avanti) non si applica ai servizi postali, al trasporto e distribuzione dell'elettricità e del gas. Sono deroghe che non avranno alcuna conseguenza pratica perché questi settori sono già oggetto di direttive di liberalizzazione. Invece quell'articolo non si applicherà al trattamento dei rifiuti e ai servizi di depurazione delle acque (due novità), né ai servizi di fornitura e distribuzione dell'acqua.

La ragione imperativa dell'interesse generale che già appariva nella direttiva originale, qui è precisata e rafforzata. Essa si richiama "tra le altre, alle seguenti motivazioni: protezione dell'ordine pubblico, della sicurezza pubblica, della sicurezza sociale e della sanità pubblica, mantenendo l'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, in particolare mantenendo cure mediche eque per tutti, la tutela dei consumatori, dei destinatari dei servizi, dei lavoratori, l'equità delle transazioni commerciali, la lotta contro le frodi, la protezione dell'ambiente in particolare l'ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico o gli obiettivi di politica sociale o culturale" (Art. 4).

Il diritto del lavoro

Le formulazioni vaghe della direttiva originale, vengono ora precisate.
Il diritto del lavoro è esplicitamente escluso dalla direttiva. "La presente direttiva non si applica al diritto del lavoro, cioè alle disposizioni legali o contrattuali riguardanti le condizioni d'impiego, ivi compresa la salute e la sicurezza sul lavoro, e i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, e non vi incide in nessun modo. In particolare, la direttiva rispetta pienamente il diritto di contrattare, concludere, estendere ed applicare i contratti collettivi, e il diritto di sciopero e quello di assumere iniziative sindacali in conformità alle norme che regolano i rapporti di lavoro negli Stati membri. Non incide neppure sulla legislazione nazionale in materia di sicurezza sociale negli Stati membri". (Art. 1,7)

È chiaramente affermato il prevalere della Direttiva 96/71/CE sul distacco dei lavoratori, e del Regolamento 1408/71 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, secondo cui: "le persone che risiedono sul territorio di uno degli Stati membri sono soggette agli obblighi e hanno accesso ai benefici della legislazione di ogni stato membro".
Non solo, le agenzie di lavoro interinale sono escluse dal campo di applicazione della direttiva.

Resta il problema dei "lavoratori indipendenti" che non sono compresi nella direttiva sul distacco dei lavoratori (si applica il regolamento 1408/71. È un grosso problema per il fatto che i "falsi indipendenti" tendono a moltiplicarsi.
Ed è una tentazione ricorrente in certe imprese, comprese le francesi, di trasformare i loro dipendenti in "indipendenti" per sottrarsi agli obblighi del diritto del lavoro. Già ora vi sono imprese subappaltatrici di grandi gruppi che fanno venire gli operai dai paesi ultimi arrivati nella UE, presentandoli come lavoratori indipendenti. Rischiano così di essere aggirate tutte le disposizioni di tutela dei lavoratori contenute nella Direttiva sul distacco dei lavoratori, tanto più che l'Art. 4 indica che può essere considerata come "prestatrice" una "persona fisica". È una porta spalancata ai "finti indipendenti".

Il controllo sulle imprese

È un punto fondamentale. Il progetto iniziale di direttiva rendeva impossibile, di fatto, il controllo delle imprese da parte dei pubblici poteri. Il controllo era di competenza dei paesi d'origine e una molteplicità di norme mirava a rendere impossibile per lo Stato in cui la prestazione veniva erogata, gettare il minimo sguardo sulla loro attività. A rendere impossibile il controllo erano in particolare due disposizioni dell'Art. 24: lo Stato non poteva imporre ad un'impresa di avere un suo rappresentante "in loco"; l'impresa non era tenuta a registrarsi presso le autorità pubbliche e nemmeno a fornire un indirizzo legale.

La linea adottata dal Parlamento Europeo modifica sensibilmente questo dato. Non è più il paese d'origine, ma lo Stato membro di destinazione, quello a cui compete il controllo dell'attività del prestatore di servizi sul proprio territorio (Art.5). L'Art. 24 è soppresso.
Uno Stato potrà quindi richiedere ad un'impresa di avere un proprio rappresentante sul posto e potrà imporle una dichiarazione e sarà obbligata a fornire un indirizzo ufficiale (Art. 32,1). Il concetto di stabilimento è meglio precisato poiché si specifica che "una semplice cassetta postale non costituisce una sede".
Però è assai poco probabile che questa disposizione rappresenti davvero un impedimento. Sarà sempre possibile per una grande impresa francese creare una filiale in uno dei nuovi Paesi dell'allargamento, e potere così in seguito operare in Francia.

D'altra parte, il problema del controllo sulle imprese, pur risultando possibile giuridicamente, in pratica sarà difficilissimo da attuare e infatti già oggi viene regolarmente aggirato sia per quanto riguarda il diritto del lavoro sia per le norme di protezione dei lavoratori dipendenti, e sarà ancor più difficile alla luce dei requisiti di ogni genere imposti dalla direttiva.

Il regime di autorizzazione non cambia molto rispetto alla direttiva iniziale. Nuovi "considerando" insistono sul fatto che può essere invocata la motivazione imperativa dell'interesse generale per imporre un regime di autorizzazione, soprattutto in materia di sanità pubblica, di protezione dei consumatori, di salute animale, di tutela dell'ambiente, e di ambiente urbano. Tuttavia, un "considerando" (27 quinquies) indica che "tali regimi di autorizzazione e tali restrizioni non possono (...) essere concepiti nel senso di ostacolare i servizi transfrontalieri che rispondono alle esigenze degli Stati membri.
Inoltre, i principi di necessità e di proporzionalità devono essere sempre rispettati".
Insomma, passi la ragione imperativa d'interesse generale, ma che non ostacoli gli scambi. Si profilano delle belle battaglie giuridiche davanti alla Corte di Giustizia.

Il principio del paese d'origine

Era il cuore della direttiva. L'espressione "principio del paese d'origine (PPO)" scompare dalla direttiva, tranne che nella forma di "regole del paese d'origine" in due punti, nei "considerando" 6(2) e 40bis (3).
L'Art. 16, che nella direttiva originale era dedicato al PPO, è stato riformulato e il suo titolo diventa "Libera prestazione di servizi".
È importante analizzare in dettaglio tale articolo per capire le conseguenze delle modifiche apportate.

Il principio del PPO è sostituito dalle seguenti disposizioni: "Gli Stati membri rispettano il diritto dei prestatori di servizi di fornire un servizio in uno Stato membro diverso da quello nel quale hanno sede.
Lo Stato membro nel quale è fornito il servizio garantisce il libero accesso all'attività di servizio come pure il suo libero esercizio sul suo territorio
". È la libera prestazione di servizi.

Segue un elenco di provvedimenti vietati, temperato solamente dalla possibilità di uno Stato di "imporre dei requisiti riguardanti la prestazione dell'attività di servizio, per ragioni di ordine pubblico, di tutela ambientale e di salute pubblica". L'Art. 3.3 a sua volta precisa che "il consumatore beneficierà in ogni caso della protezione che gli è accordata dalla legislazione relativa alla protezione dei consumatori in vigore nello suo Stato membro".

Nel dibattito parlamentare i Verdi, la GUE e una parte del PSE avevano chiesto di indicare chiaramente che il diritto del paese di destinazione, e cioè il diritto del paese in cui viene fornita la prestazione del servizio, si applica alla "libera prestazione di servizi". Ma è stato respinto.
Quale sarà allora il diritto da applicare?

Diversi articoli del Trattato istitutivo della comunità europea, sono dedicati al diritto di stabilimento e ai servizi. Sono gli Articoli che vanno dal 43 al 55. Essi hanno per oggetto la libertà di insediamento e la libertà di prestazione di servizi. Il PPO non solo è assente ma l'Articolo 43 del trattato recita che la libertà di stabilimento si realizza "in base alle norme di legge stabilite dal paese d'insediamento per i propri cittadini".
Inoltre, l'Art. 50 del trattato recita che "il prestatore può, per l'esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la propria attività nel paese in cui la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da quello stesso paese ai propri cittadini".
È questo l'Articolo che aveva fatto dire a Raoul Marc Jennar che il PPO era in contrasto con il Trattato.
Bisogna però studiare accuratamente la giurisprudenza della Corte per quanto riguarda l'applicazione di questi Articoli, per coglierne appieno la portata.
Per complicare il tutto, la Direttiva recita all'Art. 3.2. che essa "si applica, fatto salvo il diritto internazionale privato, in particolare il diritto internazionale privato che disciplina i legami d'obbligo contrattuale e non contrattuale" (Roma I e Roma II).
Il diritto internazionale privato si applica ai rapporti tra imprese e tra queste e i consumatori. In quest'ultimo caso, la direttiva precisa che si applica il diritto del paese del consumatore (vedere sopra).
Nel caso dei contratti tra imprese, il diritto internazionale privato lascia libertà di scelta alle parti contraenti. In generale, in assenza di una scelta esplicita il diritto che viene applicato , tra l'impresa prestatrice e il suo cliente, è quello del paese d'origine.

La situazione è dunque molto complessa e darà luogo ad un'incertezza giuridica foriera di molti ricorsi alla Corte di giustizia.
C'è da temere che questa si pronunci in un unico senso, quello a favore di sempre più concorrenza.

Conclusioni provvisorie

La direttiva adottata dal Parlamento europeo ha eliminato gli aspetti più ultra-liberisti del testo proposto dalla Commissione. È il primo risultato della mobilitazione dell' opinione pubblica.
La direttiva resta comunque inaccettabile: il diritto del lavoro nazionale potrà essere aggirato, la possibilità di un controllo reale sulle imprese non è garantita, non è chiaramente definito quale diritto si applica alla prestazione di servizi, l'ambito di applicazione della direttiva comprende una parte di servizi pubblici.

Ma è la logica stessa della direttiva che bisogna mettere in discussione. Direttiva liberalizzatrice, essa precisa in un nuovo "Considerando" (21bis) che "le disposizioni in materia di procedure amministrative non mirano ad armonizzare le procedure stesse ma hanno lo scopo di eliminare i regimi autorizzativi, le procedure e le formalità" .
Il rifiuto dell'armonizzazione comporta la concorrenza tra gli Stati il cui risultato altro non è che una generale corsa al ribasso.
La direttive rappresenta dunque un ulteriore passo avanti nella costruzione dell'Europa da parte del mercato.
Bisogna respingerla.
Bisogna organizzare le mobilitazioni necessarie, a livello nazionale ed europeo, affinché venga ritirata

Pierre Khalfa

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