breve di cronaca
Verità è morta, generale Dalla Chiesa
l'Unità - 19-01-2006
Riposa in pace, generale dalla Chiesa. Non scrutare, se mai lo puoi, quel che accade in questo paese, che è il tuo paese. Non scrutare nemmeno le memorie televisive, nemmeno quelle che dovrebbero consegnare il tuo esempio alle nuove generazioni. Nemmeno quelle che si nutrono delle dichiarazioni dei tuoi figli, dei tuoi amici o dei tuoi ufficiali di un tempo. C'è sempre lo spazio per i veleni che ad altri martiri si eviterebbero. C'è sempre la voglia di rivelazioni.

Una voglia più forte del rispetto, non dico della pietà, che non è cosa degli storici e tanto meno dei giornali. Non basta quel che hai fatto, detto, spiegato, sofferto. C'è sempre pronto un Cossiga al quale si lascia dire che la nostra è stata una famiglia di massoni. Tu, tuo padre, tuo fratello. E noi, figli, che non lo sapevamo. Fessi a non accorgerci, per decenni, che c'era una tradizione massonica in casa nostra, l'idea di uno Stato parallelo dietro un'educazione tutta rivolta a trasmettere il senso delle istituzioni, con la parola e con l'esempio, mai un trasferimento rifiutato, anche tre in un anno, mai accolte le sirene che promettevano tanti guadagni in più in questa o in quell'industria privata, mai un sacrificio scansato se c'era di mezzo lo Stato da servire. Fosse il banditismo in Sicilia, le indagini difficili, la vita da latitante, la famiglia trascinata in mezzo ai rischi. Tutte balle. L'ha avuta lui, Cossiga, l'ultima parola. Massoni, ha detto. Sulla base di nulla, di non si sa che cosa. Ma l'ha detto, come tante altre volte, ed è stata la sua l'ultima parola, quella che rimarrà incisa nella mente del giovane che non sa nulla, del figlio di chi (ce ne sono, sai?) non ha voglia di raccontargli la tua vera storia, come quel ragazzo che a scuola fece trovare a tuo nipote Carlo Alberto una scritta accanto al suo nome: «nipote di massone». Ci sono, sai, questi esemplari umani, e d'altronde se non ci fossero forse avresti vissuto più a lungo. Massone.

E questo, questo fango la Rai, anzi Rai educational (pensa tu se fosse "diseducational"...), ossia il fior fiore del servizio pubblico, va a offrire come ghiotta anticipazione alla stampa quotidiana della trasmissione in tua memoria. Anzi, questo fango e altro ancora. Già, perché Cossiga mica qui si è fermato. Macché. Ha pure aggiunto che la lista della P2 aveva una pagina strappata in corrispondenza del tuo nome. Pensa che fessi, che grulli, quelle due toghe rosse e tonte, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che non si accorsero di quella pagina mancante indagando su Castiglion Fibocchi. Pensa che dilettanti allo sbaraglio, che nulla videro e capirono e te la fecero scampare. E pensa com'è ridotto questo paese, dove queste cose uno non le dice subito, e nemmeno dopo cinque anni, o mentre c'è il processo, ma dopo un quarto di secolo, pur essendo stato presidente del Senato e presidente della Repubblica. Il tempo, gli anni passano. Ma il tempo non è galantuomo come dicevi tu. Quante cose, su di te, sono state raccontate da chi aveva pubbliche funzioni solo dopo tanti anni, come quel maresciallo delle guardie carcerarie che andò da Santoro in prima serata, accreditato lì come il tuo "braccio destro" e che dopo undici anni che nessuno sapeva chi fosse raccontò cose da non credere, ma che avevano un'efficacia straordinaria nel presentarti (senza contraddittorio, proprio come l'altra sera da Minoli) alla stregua di un mestatore. Cose smentite dal tuo diario, scritto, come si dice, "in velo d'ignoranza", ossia senza sapere che cosa sarebbe successo e che cosa si sarebbe insinuato su di te negli anni a venire. Ma il tuo diario di fronte ai "misteri" non fa fede, neanche se rende incompatibili date, orari e luoghi. Non c'è nessuno che si faccia molti scrupoli quando ci sei di mezzo tu. Non se ne fecero nemmeno nella commissione stragi, che invece di occuparsi di Brescia o di Bologna si occupava di te (!), ansiosa di trovare un mistero sempre più misterioso nella tua attività di nemico delle Brigate rosse.

No, non voglio e nessuno pretende che tu non sia sottoposto a critiche. Tutti sono discutibili, anche gli eroi. Sarebbe bello che però su di loro si avesse un po' più di pudore a raccontare il falso, a dire cose non provate. E a renderle verità di fatto. E invece con te si segue esattamente questo procedimento: si parte dalla tesi suggestiva che forse hai compiuto questo o quel misfatto, poi non lo si riesce a dimostrare, e siccome non ci si riesce si finisce con il dire che non si sa, che c'è un mistero. Che ne dici, generale?

L'altra sera, per ricordarti come si deve, hanno anche detto che non è certo se le carte di Moro sono arrivate integre dalle tue mani a quelle del governo, a cui le portasti personalmente. Sì, la solita storia. E dunque te lo chiedo anch'io, stavolta. Lascia perdere la tua etica di soldato e dimmi: te le sei tenute tu le carte di Moro? Ma che volevi farne? Tenerle nascoste al governo a cui dovevi in quel momento tutto il tuo potere e il tuo prestigio?

Metterti in condizione di farti licenziare da quel tonto di Andreotti, che non si sarebbe mai accorto (questo pensavi, vero?) delle pagine sottratte? Io che ti ho conosciuto bene non so spiegarmi che senso e che utilità avesse per te tenertele. E nemmeno come avresti potuto in un'ora decidere che cosa tenerti, visto che quel che è venuto comunque fuori mica era acqua di rose, sarebbe bastato in un paese civile a far dimettere a vita tre o quattro ministri.

No, non ti hanno trattato male l'altra sera, quanto alla vita privata. Molte immagini tenere. Forse a noi figli sarebbe piaciuto di più che, raccontando la tua lettera-testamento, invece di parlare della divisione dei pochi gioielli di mamma, di quella divisione che avevi stabilito pensando anche alla futura nipotina, si parlasse del tuo ultimo desiderio: vogliatevi sempre bene come ve ne volete oggi. Ma sono ubbie da figli, che giustamente possono anche apparire urtanti o sdolcinate o a un estraneo. Forse potevano evitarti quel riferimento alla patta dei pantaloni ancora aperta in prefettura mentre rientravi solo dalla toilette. Bocca, certo, poteva lasciarselo scappare quel dettaglio, ma io, per un martire delle istituzioni forse quell'immagine non l'avrei data in tivù, nemmeno, come si dice in questi casi, per renderlo "più umano".

Ho dentro una grande amarezza, generale. L'altro giorno in commissione Antimafia ho dovuto citare quel che avevi detto tu in quella sede, trentacinque anni fa, quando ci andasti con il colonnello Russo con le vostre antidiluviane planimetrie delle famiglie e degli affari (e degli appoggi elettorali) mafiosi. Vuoi sapere che ho fatto? Ho preso i resoconti verbali di allora e li ho letti durante il mio intervento. Ho fatto risuonare lì le tue parole perché troppa, troppo grande mi sembrava l'offesa di trovare scritto, un terzo di secolo dopo, che la mafia non sposta i voti, che quella che tu indicavi per iscritto al presidente del Consiglio dell'82 come «la famiglia politica più inquinata del luogo» in realtà non ha avuto troppe responsabilità, nemmeno morali. Ho riletto anche il passo del '70 in cui facevi per la prima volta il nome di Ciancimino. E ho raccontato di quando la Commissione volle "rielaborare" (usarono questo verbo) il rapporto mandato dalla Legione Carabinieri di Palermo, quello in cui parlavi di Lima e di Gioia, che da quella "rielaborazione" vennero fatti sparire.

Ti ho visto e seguito per tanto tempo. Abbiamo anche discusso e litigato e quindi so che hai avuto atteggiamenti discutibili. Ed è giusto che altri lo dicano, se lo pensano, magari con quel di più di pietà che si dovrebbe in questi casi. Ma una cosa so per certo: le cose false, le insinuazioni gratuite, se fanno trasmissioni su altri martiri della Repubblica non le rimestano.

Eppure anche su molti di loro, in vita, sono state dette cattiverie e sono stati propalati dubbi. Con te si fa diversamente. Perché c'è chi in fondo non ti amava quando combattevi il terrorismo, e mal volentieri rinuncia del tutto a quel che pensò di te, l'uomo della grande repressione. E c'è poi chi non ti ha amato quando ti sei messo in testa quella pazza idea di tagliare la testa della piovra. Messi insieme fanno buona parte dell'establishment di oggi, un po' di istituzioni, un po' di professioni, un po' di informazione. Per questo mi chiedo quel che mai ci si vorrebbe chiedere quando si è nella mia condizione, per questo mi pongo l'interrogativo che raschia nel profondo ogni familiare: se ne sia valsa la pena. Tu risponderesti, come diceva anche Falcone, che il problema non è mai se ne valga la pena, ma se sia il proprio dovere. Lo so benissimo. Ma io lo stesso mi guardo intorno e per la prima volta provo un senso di sgomento davanti a questa grande, sfumata, gelatinosa e resistente entità sociale che non ti meritava.

Perciò non scrutare, se puoi, questo paese. Non sentire queste parole che ti consegno sperando che qualcuno te le sappia filtrare con amore. Dormi nel gelo di Parma, tra l'ultimo biglietto di una scolaresca e il fiore appassito di un tuo anziano carabiniere. Riposa in pace, generale.

Nando Dalla Chiesa
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 Pierangelo    - 21-01-2006
da l'Unità del 19.1.2006

Il bastone, la carota e una pagina strappata

Dopo l’articolo di mercoledì («Verità è morta, generale Dalla Chiesa») Nando Dalla Chiesa risponde alle lettere, pubblicate ieri, di Cossiga e Minoli.

Ha ragione Minoli. Quando si racconta la storia degli uomini, le agiografie, intese come biografie dei santi, non servono a nessuno. Su questo non si discute. Tanto che farebbe piacere vederne in giro un po’ meno, specie quando i “santi” sono vivi e potenti. Se ho chiamato in causa la puntata di lunedì scorso de «La Storia siamo noi» è dunque per una ragione molto precisa. Ed è che ha mandato in onda una affermazione, anzi due affermazioni, in grado di colpire l'immagine della persona ricordata senza alcun contaddittorio. Due affermazioni, attenzione, che non sono giudizi o valutazioni critiche; ma indicazione di fatti, di fatti specifici. Primo. Dalla Chiesa era di famiglia massone; lo erano lui, suo padre e suo fratello. Secondo. Dalla Chiesa era negli elenchi della P2, ma la pagina con il suo nome fu strappata. Lo ha detto Cossiga, che lo ha ripetuto ieri su questo giornale aggiungendo, a proposito della prima affermazione, «come è accertato» (dove? quando?).

In sé l'essere massone può non essere un delitto. Ma il quadro disegnato attraverso la doppia affermazione ha un segno inequivoco. Per Cossiga, che per la P2 ha sempre avuto un debole, è un complimento. Per molti italiani no. E siccome -giustamente- stiamo parlando non di un santo ma di un uomo, sorge spontanea la domanda: su quale uomo in vita sarebbe possibile andare in televisione e fare due affermazioni come queste senza che egli possa rispondere? E può avere le stesse (sottolineo: le stesse) garanzie di un qualunque cittadino, non dirò un eroe ma un uomo caduto per lo Stato e ai cui diritti il servizio pubblico più di tutti dovrebbe essere sensibile? Certo, in questo caso l'interessato non può rispondere; ma altri per lui sì. Ad esempio trenta secondi di trasmissione potevano ben essere spesi per sentire la risposta dei giudici Gherardo Colombo o Giuliano Turone sulla storia della pagina strappata. Chi la strappò? Loro? Altri inquirenti amici di mio padre? Gelli prima del ritrovamento degli elenchi, magari dopo una soffiata dalla Procura di Milano? A loro risulta qualcosa?

Dice Minoli: Cossiga è testimone. E di che, di grazia, visto che questo reato non lo ha mai raccontato ai magistrati o al parlamento? I testimoni sono un'altra cosa. Sono quelli che hanno vissuto una cosa per esperienza diretta. E quale testimonianza, sempre ad esempio, può egli offrire sulla iscrizione alla massoneria di mio nonno?

Minoli è un grande professionista. E quindi conosce perfettamente queste minime regole che oggi sono assurdamente costretto a ricordare. E sa che in queste trasmissioni in cui il tempo è sempre tiranno si fanno scelte importanti, che portano a un risultato tra i mille possibili. Scelte che riguardano l'uso dei minuti e dei secondi, la successione delle dichiarazioni, il montaggio delle immagini e delle parole. E dunque perché affrontare la vicenda facendone -per tempi, per enfasi, per richiami simbolici- un punto centrale della trasmissione? Resistenza, lotta alla mafia in tre riprese (sulle sue indagini sull'assassinio di Placido Rizzotto è stato fatto un film…), lotta al terrorismo, i nomi dei politici all'Antimafia. Ce n'è da non sapere più dove mettere tutto il materiale. Se si sceglie di dare quello spazio alla vicenda (che certo non poteva essere sottaciuta) una ragione indubbiamente c'è stata. Se quella vicenda, anzi, è stata considerata -diciamo la verità- la “cifra”, il succo del programma tanto da farne il cuore delle anticipazioni ai giornali (o no?), una intenzione, anche solo giornalistica, c'era. Diciamo una predisposizione psicologica, se allo stesso Minoli nella risposta di ieri è sfuggito di scrivere «sui motivi della sua iscrizione alla Loggia P2». E lascio perdere il riferimento del conduttore alla carte di Moro che potrebbero essere state alleggerite dal generale di qualche loro parte prima di arrivare nelle mani del governo.

Ecco perché, oltre che per alcune altre indelicatezze, ho provato amarezza oltre che sofferenza. Perché conosco le regole. Perché so che io non potrei mai andare in tivù a fare affermazioni indimostrate su un potente vivo senza che lui possa rispondermi. Anzi, non posso nemmeno andarci a fare affermazioni dimostrate, dimostratissime. Perché so che quando si fanno questi programmi si ha in genere, senza per questo indulgere alle agiografie, un di più di rispetto per i protagonisti. Un di più che porta a ricordare Borsellino per ciò che era, non certo ascoltando la “testimonianza” di Corrado Carnevale o riprendendo le speculazioni imbastite contro di lui dopo lo sfortunato investimento di due ragazzi a opera della sua scorta. Che porta a ricordare Tobagi senza dar credito agli “episodi controversi” a cui i suoi avversari avvelenati volevano inchiodarlo (e alla fine forse lo inchiodarono). Che porta insomma a ricordare queste persone -uomini, non santi- liberandole almeno delle tante maldicenze mai provate. Certo mai aggiungendone.

Da qui, e non da uno scoppio di emotività, la sensazione di una trasmissione tutta “carota e bastone”: belle immagini e accostamenti maliziosi, onore al merito e insinuazioni, memoria grata e rigurgiti del fango sparso per anni senza successo. Sensazione che non abbiamo avuto solo noi familiari (a proposito: mia sorella Rita non ha affatto mandato messaggi di congratulazioni, come scrive Minoli…), ma che hanno avuto in tanti, giovani e meno giovani, testimoniandolo per sms e posta elettronica.

Peccato. Per una bella trasmissione e per dei grandi professionisti. Peccato, se posso aggiungere, anche per lui, il generale Dalla Chiesa.

Nando Dalla Chiesa