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L'Utopia Olivetti
l'Unità - 14-01-2006
«Voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale religione credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d'Italia egli e la sua famiglia provenissero».
Sono parole dette da Adriano Olivetti ai lavoratori di Ivrea il 24 dicembre 1955. Sembra di sognare a leggerle nella loro limpidezza democratica, dedica di questo libro sconvolgente di cui nessun giornale ha finora scritto. Si capisce l'imbarazzo.

Perché Uomini e lavoro alla Olivetti, pubblicato dalle edizioni Bruno Mondadori, è un atto d'accusa spietato e rigorosamente documentato che mette a nudo i comportamenti di uomini di grande rilievo del mondo economico finanziario tra passato e presente. Curato da Francesco Novara, Renato Rozzi e Roberta Garruccio, con una postfazione di Giulio Sapelli, è una radiografia affascinante e insieme dolorosa di una fabbrica, di un modo d'intendere l'industria al di là dell'indice dei profitti e offre un'immagine che è davvero il contrario di buona parte della classe dirigente nostrana che anche nelle ultime storiacce ha rivelato quel che è, sia dal punto di vista professionale sia da quello etico-civile.

Gli autori Francesco Novara, responsabile del Centro di psicologia Olivetti fino al 1992, professore nelle università di Torino e di Milano e Renato Rozzi che lavorò anch'egli al Centro di psicologia Olivetti negli anni Sessanta, psicologo di formazione psicoanalitica e fenomenologica, professore nelle università di Trento e di Urbino, firmarono, nel 1980, con Cesare Musatti e Giancarlo Baussano, un saggio importante sulla psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Psicologi in fabbrica.
Questo nuovo libro si fonda su un loro saggio sociopolitico di grande spessore che storicizza quel che è accaduto alla Olivetti e permette un giudizio globale, e su 25 corpose interviste di Roberto Garruccio, ricercatrice di Storia economica alla Statale di Milano: «Una raccolta sistematica di testimonianze che costituiscono assai più un'etnografia che una storia dell'impresa».

Una narrazione a più voci che si intersecano tra di loro. I protagonisti sono gli uomini - una sola donna - che hanno avuto funzioni nodali nei diversi settori della Olivetti. Ne è uscito un mosaico assai vivo di memoria, di umanità, di caratteri, di documento, il tutto legato dal mastice del saggio di Novara e di Rozzi. Una fabbrica vista quasi fosse una persona. Con il cervello di Adriano, industriale e uomo anomalo, di somma intelligenza creativa, con le vene e le arterie di quanti hanno lavorato nelle sue fabbriche e sono diventati i portatori consapevoli e anche inconsapevoli di quella cultura avanzata e al di fuori degli schemi.

La storia della Olivetti è, fino a un certo momento, una storia di libertà. Se si pensa a quel che era la Fiat negli anni Cinquanta e anche in seguito, ai reparti confino, alle trame padronali con Sogno e con Cavallo, al clima militare imposto da Valletta, alla furia antisindacale, alle schedature dei dipendenti - 354mila, di cui 150mila dal 1967 al 1971 - scoperte in una perquisizione, il 5 agosto 1971, dall'allora pretore Raffaele Guariniello, si capisce come sia stato astralmente lontano il clima respirato alla Olivetti.
Adriano possedeva libertà intellettuale e politica, aveva la capacità e il genio naturale di tirar fuori dagli uomini anche quel che loro non sapevano di possedere. «Io non ho passato in me. In me non vi è che futuro». Si riferiva all'impresa. Guardava sempre avanti, era un ricercatore nato. Ma non ripudiava di certo il passato che ben conosceva nelle forme dell'arte e della scienza. Era inimmaginabile il suo agire imprenditoriale per gli uomini del grigio conformismo industriale. Nel 1952 ci fu una crisi di sovrapproduzione. Due direttori insistevano perché venissero licenziati 500 operai. Consapevole della validità dei prodotti olivettiani reagì licenziando i due direttori, raddoppiò la forza vendita in Italia, fece assumere 700 venditori, creò nuove consociate estere, superò la crisi.

Con Adriano e per Adriano hanno lavorato architetti famosi o che famosi diventeranno, designers, scrittori, poeti, sociologi, scienziati della politica e dell'organizzazione industriale. Si pensi che, tra gli altri, hanno lavorato all'Olivetti Paolo Volponi, Franco Momigliano, Luciano Gallino, Geno Pampaloni, Giovanni Giudici, Giorgio Fuà, Bobi Bazlen, Ludovico Quaroni, Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Tiziano Terzani, Franco Fortini, Bruno Zevi, Ottiero Ottieri, tanti altri che, curiosamente, quando se ne andarono dall'Olivetti, non entrarono, i più, in altre aziende, ma fecero altri mestieri.
Quali sono stati i caratteri dell'Olivetti, le sue unicità? L'azienda non licenziava, al di là di un piccolo turnover fisiologico. Riusciva a farlo attraverso un lungo processo di riconversione del personale. Fu tribolato, drammatico il passaggio dalla meccanica all'elettronica. Perché quell'azienda poteva comportarsi in quel modo? Perché il suo modo di seguire e formare le persone era proiettato in avanti. La Olivetti sapeva sperimentare già allora modelli formativi avanzati che il sistema nazionale non è riuscito ancora a darsi. L'azienda di Ivrea aveva capito più di mezzo secolo fa l'importanza della ricerca, la cui assenza è, oggi, in un momento di crisi grave, anche un buco nero culturale, irrisolvibile, sembra, con personaggi di mediocre cultura.

I servizi sociali della Olivetti furono modelli inarrivabili. Le madri e i bambini furono tutelati con dedizione da quell'azienda laica senza i retorici richiami alla difesa della vita fatti dai papisti odierni. E poi: le innovazioni olivettiane del lavoro di cui il Centro di psicologia è stato uno dei punti centrali, hanno applicato soluzioni organizzative valide ancora nel tempo presente, riconosciuto a livello europeo: il lavoro era modificabile soltanto tenendo conto degli uomini che lavorano, proposizione politica decisiva quarant'anni fa, nel periodo della maggiore tensione sindacale.

L'Olivetti non aderì alla Confindustria che l'avversò. Adriano morì nel 1960. C'è un prima e un dopo. In tutte le interviste quella data è richiamata. La cesura, però, non è immediata. Quello che aveva seminato Adriano dura un po' di tempo. Molti che non l'hanno conosciute seguitano a lavorare come se lui fosse ancora tra loro, con le sue idee di libertà.

Poi che cosa accade? L'azienda, per il suo straordinario sviluppo, ha bisogno di capitali. Arriva soprattutto la Fiat, c'è lo zampino degli americani che ostacolavano, anche per ragioni militari, il sorgere in Europa di industrie elettroniche. Nel 1964 il presidente è Bruno Visentini. Il professor Valletta, in un'assemblea della Fiat, rassicura un azionista: «Sul futuro dell'Olivetti c'è un neo da estirpare». Il neo è l'elettronica, orgoglio e vanto dell'azienda, la cui vendita alla General Electric è fatale e dissennata. Una testimonianza di Ottorino Beltrami, eminente dirigente della Olivetti, è illuminante. Durante un viaggio in America per prendere contatto (finto) con le General Electric, l'ingegner Beltrami viaggia con Aurelio Peccei "il proconsole della Fiat in Olivetti": "Che furia c'è di trattare così in fretta?", Peccei mi rispose: "Ingegner Beltrami, io ho stima di lei, per carità! Però, guardi, queste cose sono cose già discusse: non ne possiamo discutere, sono al di sopra di me". Era Valletta, insomma che decideva». Nata nel 1908, produttrice via via di macchine da scrivere, addizionatrici, telescriventi, calcolatrici, macchine per calcolo, registratori di produzione, personal computer, una gigantesca rete di stabilimenti in tutto il mondo, 74mila dipendenti (1972): il 12 marzo 2003 l'Olivetti è cancellata dal listino della Borsa italiana. Nel 1978 l'arrivo di Carlo De Benedetti è uno choc. «C'era in lui un senso di fastidio per tutto ciò che in azienda ricordava ancora lo stile di Adriano», dice uno dei massimi dirigenti, l'ingegner Truant.

È cambiato il clima, lo si vede anche dalle apparenti piccole cose. Si accumulano gli errori, si moltiplicano i conflitti, il management cambia di continuo. L'ingegner De Benedetti ha la testa altrove: la Buitoni, il Banco Ambrosiano, la Mondadori, la Société Général de Belgique. Ha obiettivi da raider internazionale. Scrivono Novara e Rozzi: «Faceva pensare che per lui l'Olivetti fosse un investimento da cui trarre profitto a breve, e non un'impresa per la quale aveva il dovere di costruire un avvenire, e pertanto apparve anche propenso a vendere le parti in cui aveva spezzato l'azienda».

Il finale è mortificante. Scompaiono le biblioteche, gli asili nido, le colonie. C'è un tourbillon di Opas, De Benedetti se ne va nel 1996, arriva Roberto Colaninno, poi la Telecom. L'Olivetti non ha più una sua storia. Quella che è stata un'utopia possibile ha una fine ingloriosa. Una classe dirigente di alto valore intellettuale viene cancellata. In una nota all'inizio del libro, Francesca Novara ha scritto parole dolorose: «Agli imprenditori costruttori di futuro sono andati subentrando cacciatori di valori azionari, speculatori del mercato borsistico, arraffatori di monopoli, artefici di partecipazioni incrociate e di piramidi societarie. A un mondo del lavoro umiliato in una società lacerata e disorientata, succube delle vicende aleatorie di un'economia finanziarizzata, si rivolge il coro di queste testimonianze».

Corrado Stajano
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