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Assassinio di Stato
l'Unità - 16-12-2005
La chiamano esecuzione, in realtà è un omicidio. La chiamano giustizia, invece è un regolamento di conti. Da un parte c'è un uomo che ha commesso dei crimini e ha avuto 26 anni di tempo per riflettere, pentirsi, redimersi, diventare attivo nella lotta contro le derive della povertà da cui proviene. Dall'altra c'è, in rappresentanza della California, Arnold Shwarzenegger: movie star muscolosa, che deve la sua carriera politica a una fotogenia aggressiva.

Grazie a una immagine da carogna doc, grande sterminatore di nemici finti. L'uomo che ha commesso dei crimini è stato condannato per quattro omicidi, di cui si è sempre dichiarato innocente. Bazzicava cattive compagnie, nel 1979, la gang dei Crips, e questo è certo. Ma esistevano ragionevoli dubbi sulla sua colpevolezza. Si ventilava addirittura l'ipotesi che un altro carcerato l'avesse incastrato per ottenere uno sconto di pena.

Lui, l'uomo, si chiama Stanley Tookie Williams, anzi, si chiamava Stanley Tookie Williams, perché non è più in vita. È stato assassinato. Legalmente. In seguito ad una pensosa dichiarazione della movie star prestata alla politica: «Non vi è motivo di rovesciare le sentenze dei tribunali». Ah no? Otto libri di testimonianza attiva contro la cultura delle gang giovanili non sono un motivo sufficiente? Ripetute candidature al Nobel per la Pace nemmeno? Non è un motivo sufficiente il legittimo dubbio sulla sua colpevolezza e il fatto, incontrovertibile, che, pur sapendo quanto implorare il perdono e confessare i delitti poteva migliorare la sua posizione, Tookie abbia continuato a dirsi innocente? Evidentemente no, non sono motivi sufficienti, anzi: come sempre, come troppo spesso (pensate al caso Sofri), chi si rifiuta di piagnucolare e strisciare, vendendo la sua verità in cambio della vita, viene punito con particolare soddisfazione. Come sempre vince la sottomissione alle leggi non scritte dell'ipocrisia.

Ieri, nel carcere di San Quintino, questa "virtù" ha celebrato un doppio trionfo: non solo è stato ammazzato un uomo che ne aveva rifiutato il viscido conforto, ma è stato ammazzato con l'arma più ipocrita che la falsa coscienza dei giustizieri di Stato poteva inventare. Una normale siringa, strumento simbolicamente buono, di quelli che, a fronte di una breve sofferenza, riportano in un corpo malato la salute, accelerano l'attesa guarigione. L'iniezione letale, gentile optional offerto ai condannati, è l'ultima trovata: l'omicidio, così, dovrebbe perdere le sue caratteristiche bestiali e assumere quelle nobili del lavoro di cura. Il tutto avviene in una stanza sobria e pulita, come per eseguire un'operazione.

Ci sono trentanove persone che ti guardano, eccitate dallo spettacolo: la tua disgrazia rende la loro piccola vita ripetitiva, per un attimo, preziosa come un dono. A te viene tolta, a loro no. Ci sono quindici giornalisti, coi loro taccuini. E, se vogliono, i parenti delle vittime sono gli invitati d'onore al banchetto della vendetta, perché si ritiene che delibare altro dolore dovrebbe recare sollievo a chi ha sofferto un grave lutto. Si tratta di una cerimonia barbarica: dovrebbe essere impedito a tutti gli Stati che ancora vi indulgono di sedere a tavola con noi, di dirsi civili, di frequentare l'Europa.

Legato a un letto con le braccia aperte come in croce, ieri, un ex ragazzo povero, nato da una madre di diciassette anni, cresciuto senza speranza e senza futuro, uno che, arrestato venticinquenne, è stato capace di risalire dal fondo di un pozzo oscuro fino al riscatto della consapevolezza, della voglia di comunicare, un uomo ferito che ha saputo curarsi da solo e cambiare, per ventidue minuti è rimasto fermo, legato, ad ascoltare la morte che avanzava dentro il suo corpo. Ventidue minuti. È un tempo lungo, maledettamente lungo.

Nemmeno nella forma, a voler tacere della sostanza, l'America, esportatrice di democrazia, ha saputo fare un passo avanti: era meglio la settecentesca ghigliottina. Più rapida, via la testa via il dolore. Era meglio la militaresca fucilazione. Questa evoluzione da laboratorio della gogna è una tortura mascherata, una vigliaccheria, un atto vergognoso. Non è una morte pulita, è una brutta azione, sporca e indegna.

Non la merita nessuno, neanche il peggiore degli esseri umani, il più spietato degli assassini. Ma c'è una cultura, da quelle parti, che giustifica la vendetta di Stato e la tortura e le bombe e le invasioni, che consente alla logica della pena di morte di mettere radici così robuste da rendere difficile perfino per la Chiesa ogni intervento utile a estirparle per riportare la giustizia nell'ambito dell'umano, del pietoso. È la stessa cultura che ha fatto vincere al signor Terminator il posto di Governatore, che ha portato al potere una montagna di muscoli attrezzati per incarnare le fantasie machiste di sopraffazione, per dar corpo alla paura dell'altro.

Fin da quando i primi coloni, per lo più ex galeotti, si sono piazzati sulle prime praterie del Nuovo Mondo, circa trecento anni orsono, la paura non ha mai smesso di tormentare la maggioranza ignorante, armata, e repubblicana. Arnold Schwarzenegger, nei molti film che hanno invaso i cinema della colonizzata Italia nel corso degli ultimi 20 anni, ha maneggiato fulmini e granate, sofisticati laser da disintegrazione e fuciloni dalle bocche fumanti. Nella finzione adatta a intrattenere l'infantilismo mondiale, però, tutto il suo volume di fuoco si sviluppava, per ispirazione obbligata degli sceneggiatori, a fin di bene. Il bestione avanzava bruciando e distruggendo, sì, ma per salvare il mondo. E alla fine c'era sempre qualche avvenente fanciulla che gli concedeva le sue grazie. Dev'essere stato difficile anche per lui, pover'uomo, passare dalla semplicità del cinema, alla complessità del reale. Ha avuto, lui, un bellone cresciuto a Hollywood, fra le mani, la vita di un uomo. Poteva salvarlo. L'ha ucciso.

Pensava forse che fosse "il cattivo", quello che va disintegrato per salvare il mondo e ottenere le grazie dell'avvenente fanciulla? È rimasto impigliato nella melassa velenosa delle sue pellicole trash? No, non credo proprio.

Come tutti i principianti incalliti ha colto della politica soltanto il dato più eclatante, evidente, elementare. Il cinismo. Il calcolo elettorale. Ha pensato: mi hanno votato quelli che vedevano i miei film. La maggioranza ignorante, armata, e repubblicana. Sono tipi che apprezzano la durezza, la vendetta, la violenza. Gente che relega la compassione tra i fronzoli, tra le debolezze, nell'anima femminile del mondo.

A questi spettatori ideali, il governatore muscoloso, ha offerto la vita di Stanley Tookie Williams. E, purtroppo, non si può riscrivere l'ultima scena.

Lidia Ravera
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