L'analfabetismo è un problema politico
Alba Sasso - 19-11-2005
Un comprensibile clamore ha accompagnato la pubblicazione dei dati elaborati dall'Unla, secondo cui sei milioni di italiani, pari a circa il 12% della popolazione, sono totalmente analfabeti o non hanno nessun titolo di studio, e il problema dell'analfabetismo potenzialmente arriva ad interessare addirittura il 66% degli italiani. E non riesco ad appassionarmi al dibattito che si è subito scatenato, in particolare sulla stampa, fra addetti ai lavori, intellettuali, sociologi, giornalisti. Temi come quelli dell'analfabetismo, o della scarsa dimestichezza degli italiani con la lettura, si ripropongono periodicamente, direi quasi a ondate. Ogni tanto la stampa e i mezzi di informazione ci sbattono in faccia cifre e statistiche allarmanti, di fronte alle quali ci si interroga, ci si meraviglia, a volte ci si scandalizza.
Ma di che cosa ci meravigliamo, se una ricerca del Cede (Centro europeo dell'educazione) già nel 1999 ci avvertiva che il 37 per cento appena degli italiani dai 16 ai 65 anni aveva le competenze necessarie per essere cittadini maturi e responsabili in una democrazia avanzata? E che 26 milioni di persone in Italia non avevano una sufficiente familiarità con il vocabolario, ed erano in grado di comunicare con un codice linguistico involuto, fatto di appena un centinaio di vocaboli?
E perché tanto stupore oggi, di fronte ai numeri dell'Unla, se già nel 2000 un rapporto dell'Ocse aveva reso noto che praticamente un terzo degli italiani ha difficoltà con la lettura e con la scrittura. E del resto, sapevamo già da tempo che quei paesi che avevano adottato un modello educativo fondato sulla gerarchizzazione dei saperi, come gli Stati Uniti d'America, hanno prodotto un tasso impressionante di analfabetismo, o per meglio dire "illetteratismo" di ritorno. Il Rapporto sull'istruzione statunitense del 1988 raccontava una realtà drammatica, quella realtà per cui il sistema scolastico della nazione più ricca e più potente del mondo non si era rivelato in grado di elevare il livello di cultura della maggioranza della popolazione.
Per altro verso, i paesi in cui è consolidata l'abitudine al leggere e allo scrivere (penso alla Germania, o ai paesi dell'Europa centrale), sono quei paesi in cui è sin dal 1500 che si sono avviati i processi storici e culturali che hanno consentito il radicamento di un'educazione alle competenze e delle abilità linguistiche.
Con questo, non voglio certamente dire che non hanno senso i segnali di allarme e di preoccupazione lanciati nel corso del dibattito che sta occupando in questi giorni i quotidiani e i mezzi di informazione. Quello che mi chiedo è: che senso ha scandalizzarsi, se poi non si prendono quelle decisioni politiche che consentirebbero veramente di affrontare il problema? Parlo di scelte di indirizzo, sostanziate da un orientamento complessivo e globale nel campo dell'istruzione e dell'educazione. Parlo di una visione di insieme che miri a consolidare i saperi minimi di cittadinanza: quei "saperi resistenti" che sono la condizione necessaria e la premessa indispensabile per ogni successivo apprendimento. Ed il luogo in cui si acquisiscono quelle competenze di base che sono la barriera contro i fenomeni di analfabetismo o di diseducazione alla lettura e all'uso della lingua, è la scuola. Sembrerebbe la scoperta dell'acqua calda, ma di questi tempi, purtroppo è necessario ribadirlo. Ci vuole la scuola. Anzi, ci vuole "più scuola". E ci vuole un efficace sistema di formazione degli adulti.
E invece le scelte del governo di centro-destra sono andate in direzione opposta. Hanno di fatto bloccato l'educazione degli adulti e hanno proposto una scuola "minima" con percorsi d'apprendimento rigidamente separati, come appunto negli Stati Uniti.
Quella di Moratti è una scuola destinata a lasciare tanti ragazzi con lacune e carenze nelle capacità di utilizzare i codici linguistici e di interpretare i testi scritti.
Ed allora, nel dibattito sul fenomeno dell'analfabetismo, non fermiamoci al grido di allarme o all'interpretazione del dato numerico. Guardiamo oltre. Guardiamo alle scelte che tutti noi siamo e saremo chiamati a prendere e ai segnali di discontinuità con queste politiche che dobbiamo già dare.


dal quotidiano telematico "AprileOnLine" del 17 novembre 2005

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 Luisanna Facchetti    - 20-11-2005
Sono un'insegnante CTP per adulti e spesso ho avuto modo di riflettere sull'analfabetismo in età adulta dal punto di vista della didattica. Ho anche interpellato - credo due anni fa - l'UNLA per vedere chi al loro interno di occupa di didattica: non mi hanno dato nessun riferimento. A me sembra che queste ricerche, oltre a spaventarci, non producono granchè finchè non si elaborano materili e non si studiano metodi. Naturalmente le scelte politiche devono andare nella direzione giusta, ma c'è anche così poca ricerca! Avete provato a parlare di analfabetismo a qualche professore universitario che si occupa in ogni convegno di educazione degli adulti? Una discussione anche in questo campo sarebbe necessaria.