Jean, cosa stai leggendo?
Emanuela Cerutti - 08-11-2005
Una riduzione della propensione verso la lettura...
Che direbbe Pennac?
Forse ricomincerebbe da capo, sai come quando la situazione si è fatta talmente complessa che occorre mettere un punto.
La punteggiatura è importante: determina paratassi o ipotassi, rende un'immagine implosiva o esplosiva. Bum. Un rumore che per certa gente è quotidiano. E non si tratta di fuochi d'artificio.
Ogni tanto bisogna mettere un punto e guardarsi bene negli occhi: che ci stiamo raccontando?
Seduta di Laurea, nota a tutti quelli che hanno accesso alle nostre povere Università (mio padre diceva sempre il povero Brambilla e noi capivamo per abitudine che era morto e ci chiedevamo ma se è in Paradiso perchè dovrebbe essere povero? Però poi mica ce l'avevamo il coraggio di farla davvero la domanda e lo sai tu, hai una minima idea di, quante domande inespresse ci sono, siano, al mondo?) : e il corpo docente - dio che espressione felice, un corpo che richiama il sapere medioevale dove tutte le cose stavano bene al loro posto, cervello in testa, sempre il meno studiato perché i misteri mica li puoi decifrare così, e se no come si fa poi a dire che sono davvero misteri degni di stare al comando? - il corpo docente - come se fosse un corpo poi, con tutte quelle braccia - si avvicina alla candidata che dovrebbe relazionare Les registres de la conscience littéraire dans «Madame Bovary» e le chiede, all'improvviso messo a nudo, senza più difese, senza un futuro vivibile, le chiede «Mademoiselle, racontez-nous Madame Bovary». Grande Pennac: che tu abbia visto la Chinatown francese detta Belleville?

Una riduzione della propensione verso la lettura...
Esperti di ogni nazionalità, livello culturale, etica ed estetica stilano, ammirevolmente encomiabili, griglie, griglie, che non sono grigliate, nonostante l'assonanza, no, vere griglie che basta una sillaba a rendere prigioni (ma del resto cosa ci vuole per rendere definitivo uno sbaglio?).
E il buon Perros non si arrende: legge e legge, mentre i programmi gli fanno la faccia scura. Lui legge, e non conosce excell, non ama la statistica, legge e sceglie. Sceglie di entrare nella vita della sua gente. La sua gente ha il piercing, vive forse in una banlieue, o in uno di quegli hotel parisiens che bruciano, e, chi lo direbbe, a Montmartre, il regno del turismo, dove un qualunque mercoledì d'inverno un bambino di meno di cinque (cinque, è chiaro?) anni può morire perché hanno tagliato la luce a sua madre, che non sa più come far sparire la ruga di troppo. Di troppo vuol dire che non mangi.

Una riduzione della propensione verso la lettura...
Ogni tanto mi chiedo che senso abbia il mestiere che faccio. E Sophie, musica fatta persona, mi dice a tutti le stesse possibilità, questo è il senso.
Come si fa, senza risorse, penso, mentre O. 8 anni, cerca di colpire il compagno, per nulla, non è successo nulla, solo che lui ha dei lividi sulle braccia e non può alzarsi la mattina senza una domanda bruciante. Poi decide: mi cancello, e si spalma un bottiglietta di correcteur, scolorina bianca, sulle braccia. Un bianco accecante. Perché lui c'è.
Lui non legge o scrive con una fonte luminosa accesa in ambiente buio: non legge o scrive e basta.
Chi gli ha raccontato, una volta almeno, una storia?
Chi ha atteso con lui che le stelle sorridessero per dirgli che la notte sarebbe stata amica?
Chi pone le basi necessarie perchè i suoi sogni siano tranquilli?
O. non ha nessun sostegno accanto a lui. E ferite sulla schiena.

Una riduzione della propensione verso la lettura...
Dominique de Villepin ha una cravatta impeccable mentre dice, traduco in modo semplice, qui è ora di dare un taglio. Domattina Jean, 44 ans, farà il suo giro in métro, chiedendo un ticket de restaurant. Nessuna cravatta: una somiglianza particolare con Depardieu che lo rende affascinante, non fosse per lo sguardo duro. Tutti leggono in métro: bisogna che la calma torni rapidamente nella più grande biblioteca del mondo. Rapidamente, già non se ne può più.
Jean, scusa (Jean, perdio, che paura mi hai fatto la mattina in cui il métro si è fermato tra una stazione e l'altra e tu impazzivi?), Jean, da quanto tempo hai i 44 anni che dici di avere?
Non hai mai letto, probabilmente, perché non si legge mentre ci si muove. Potenza delle regole.

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 Pierangelo    - 08-11-2005
Unità di ieri

La prossima volta il fuoco

Il titolo di questo articolo è lo stesso di un celebre libro di James Baldwin, lo scrittore nero, pubblicato due anni prima delle rivolte dei ghetti americani. Per questo ha ragione Romano Prodi. Non c’è niente di misterioso nella rivolta che adesso incendia Parigi (adesso anche nei quartieri centrali) e altre città francesi. È facile sapere come ci si arriva. Basta abbandonare al degrado e all’isolamento, sia culturale che fisico, parti intere delle comunità cittadine. E prima o poi ci sarà un pretesto tremendo (in questo caso due ragazzini fulminati in una cabina ad alta tensione in cui avevano cercato rifugio contro la polizia) per scatenare la rivolta. La rivolta, fatalmente, ha queste caratteristiche: bruciare dove uno vive, distruggere nel proprio quartiere, fare a se stessi (asili, scuole, pronto soccorso, campi di giochi) tutto il male possibile, perché non c’è altra via d’uscita.

Definirli “teppisti” e “feccia della terra” come fa il ministro degli Interni francese non serve. Possibile che in Francia nessuno si sia domandato perché, nell’incendio di Watts (quartiere nero di Los Angeles) nel 1964, di Washington nel 1968, di Newark del 1965, di Detroit nello stesso anno, di Los Angeles nel 1992, nessuno ha parlato di “teppisti”, non i politici, non la polizia, non i giornali e telegiornali che invece hanno ogni volta parlato di “rivolta urbana”?

Come si vede, nella affermazione di Prodi (”prima o poi accade”) scioccamente trasformata in profezia, come dire che mettere in guardia porta sfortuna, e la constatazione della differenza fra fatti francesi e fatti americani, ci dice che nel groviglio di problemi che incendia la Francia ci sono due volti.

Uno è quello del degrado. L’abbandono, quando è protratto e diventa vita, porta vendetta. L’altro è il che fare di fronte all’esplosione di una rivolta urbana, che, come dimostrano le vicende francesi, non è mai fatta di vampate isolate ma esplode subito in un mare di eventi violenti che tendono a estendersi e a peggiorare.

Posso raccontare un fatto che ho vissuto nella rivolta di Washington del 1968, divampata con una gravità più grande che a Parigi perché è scoppiata all’angolo tra la 14 strada e la strada F, dunque nel cuore della capitale. Come a Parigi, erano stati subito incendiati supermercati e scuole, asili infantili e posti di pronto soccorso, ma soprattutto case e negozi neri nella parte nera della città. Robert Kennedy, candidato vincente alle primarie democratiche di quell’anno, aveva il suo ufficio elettorale nella F Street, vicino a uno dei focolai della rivolta. La sera tardi del 7 aprile, stava cominciando la terza notte della rivolta. Ero a Washington con una troupe della Rai, giravamo per il telegiornale e per Tv7, usando una automobile scoperta. Con Andrea Barbato seguivamo la campagna elettorale americana di quell’anno cruciale, ma l’assassinio di Martin Luther King ci aveva costretto a correre prima a Memphis, poi a Washington, dove l’uccisione di King aveva provocato la rivolta. L’idea, arrischiata, è stata questa: chiedere a Robert Kennedy di salire con noi nell’auto scoperta e di andare verso gli incendi. Lo abbiamo fatto, ed esiste ancora la documentazione visiva di quell’evento. Sarà inclusa in una straordinaria ricostruzione di ciò che è accaduto nel mondo nel 1968, autore Nicola Caracciolo, che andrà in onda su Rai 3 in gennaio.

Kennedy ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. La prudenza avrebbe dovuto fermarlo due volte. Per non correre rischi fisici. E per non fare il gesto sbagliato che può liquidare un candidato. Alle nove Robert Kennedy ha deciso. È salito sull’auto scoperta e, senza avvertire la polizia, che ci avrebbe bloccato o avrebbe invaso la zona, siamo andati verso il fronte della rivolta nera, che la Guardia nazionale non era riuscita a domare. Il film mostra le sequenze dell’accaduto. Sul fondo le fiamme, di fronte a noi una folla nel buio. Avevamo una sola lampada a mano per le riprese e l’abbiamo accesa perché si vedesse Kennedy. Lui è salito sul baule della macchina in piedi. La folla, nel buio intorno a quell’unica luce, aveva circondato la macchina. Mani si sono protese e hanno preso, da una parte e dall’altra, le gambe di Kennedy sollevandolo sopra un muro. Avevamo portato un altoparlante e gli abbiamo dato un microfono. Robert Kennedy non ha parlato di teppisti, eppure mezza città - soprattutto i quartieri neri - era stata distrutta. Nel silenzio di quella notte, che non potevi sapere che risposta covava, Kennedy ha parlato «del vostro, del nostro dolore». Ha cercato e toccato tutto ciò che lega, che unisce, che fa eguali. Lentamente il silenzio è diventato un brusio, il brusio si è trasformato in grida isolate tipiche del rituale nero americano: «Dillo, dillo. Di' la verità, facci sentire la verità, parla, uomo, dicci le cose come stanno, è così, è così, hai ragione, dillo ancora... ripetilo per quelli che non lo hanno capito...». Poi una sorta di grande festa dolorosa e improvvisata intorno a Robert Kennedy che aveva dimostrato di essere uno di loro, non era andato lì a dirgli che è una brutta cosa violare la legge, ma stava dimostrando che da simili tragedie o si esce insieme o non esce nessuno.

So che non è facile credere a questa storia e sono contento che sia stata ritrovata la registrazione negli archivi della Rai. Sarebbe un buon esercizio pedagogico per il ministro dell’Interno francese Sarkozy vedere quel filmato.
Ma uno che si lancia contro la povera, isolata, abbruttita periferia della capitale del suo Paese, invocando “tolleranza zero” senza neppure sapere il contesto in cui Rudolph Giuliani aveva coniato quella frase (la frase era “se non mantieni la dignità di un quartiere, e non ripari subito il primo vetro rotto, quel quartiere si comporterà indegnamente”) non solo non è adatto a risolvere il problema, ma sembra ormai, anche agli occhi di molti francesi del suo partito e del suo governo, parte del problema.
Invece di aggirarsi con aria feroce, dopo avere personalmente eliminato i posti di polizia vicini ai luoghi delle prime insurrezioni, dopo avere dunque abolito i poliziotti che conoscono il quartiere e che sono conosciuti nelle strade, ci promette di rispondere alla violenza con la violenza, e il suo successo sarà, nel migliore dei casi, la repressione. La repressione è sempre provvisoria. Senza un’azione umana e politica, non può che seguire il peggio. Per questo Baldwin aveva intitolato il suo libro “La prossima volta il fuoco”. E di questo, da vero e responsabile uomo politico, parlava Prodi quando ha ammonito, nel Paese della Lega, di Gentilini, di Calderoli, della Bossi-Fini che incita alla clandestinità. E abbandona alla guida dei fuori-legge.

Ma Sarkozy farebbe bene a rivedersi un film francese che qualche anno fa era apparso come un documento straordinario e profetico. Si intitolava “La haine” (L’odio) e raccontava un frammento di vita spaventosa e invivibile proprio in quella periferia di St. Denis in cui è cominciata la rivolta.

Ma l’unico modo di uscire dall’improvviso accendersi di violente rivolte urbane viene dal modo pratico e pragmatico con cui situazioni rischiosissime come quella di Parigi sono state affrontate nelle città americane, e negli eventi che ho citato. Sempre c’è stato un riconoscimento di fatto di leader religiosi o civili in grado di parlare per i rivoltosi. Sempre c’è stato il tentativo di mettere, le une accanto alle altre, le ragioni della legge e quelle di rivoltosi (che raramente sono futili o inesprimibili). Sempre c’è stato un alt da imporre e un progetto da offrire. Sempre si è cercato di isolare e punire soltanto i colpevoli di violenza sulle persone, senza alcun tentativo di fare retate all’ingrosso di presunti colpevoli dei danni fisici e della distruzione di cose. Sempre si è tentato (e a volte, come nella “guerra alla povertà” lanciata da Lyndon Johnson dopo la rivolta di Watts) di dire “noi” invece di gettare tutta la colpa su una massa barbara di “loro” che minacciano di distruggere la nostra vita civile.

S’intende che la sola vera via d’uscita è di cominciare a occuparsi del problema prima dell’incendio. Questo significa governare, ed è naturale che il governo di Berlusconi, come dimostra il titolo del Giornale di Berlusconi che riproponiamo qui accanto in questa pagina, trova l’ammonimento di Prodi risibile. È un pezzo che questo governo e la sua gente ride di ogni proposta di governare. Per non cadere nella situazione francese, speriamo di congedarli al primo giro di boa elettorale.

 ilaria ricciotti    - 08-11-2005
Stavo riflettendo in questi giorni sui fatti dolorosissimi e preoccupanti di Parigi. Mille domande mi hanno assillato. Ad alcune ho saputo dare risposte , ad altre no. Questa violenza è tuttavia sinonimo di un mondo degradato, violentato, insofferente, divenuto nero e vuoto nell'anima e nella mente. Le tristi e calde notti di Parigi sono un segnale tangibile che l'uomo deve volere e volersi più bene, riconoscendo e rispettando quei diritti che lui pretende per sè : in famiglia, a scuola, nel quartiere, nel paese, nella città, nel proprio stato e negli stati del mondo. Il mondo è a un bivio della sua esistenza: riesumare ad hoc le intolleranze o non imparare dalla storia che esse sono soltanto causa di giorni bui è molto triste.
Ognuno ha per questo il dovere di vivere con onestà e pretenderla da tutti coloro che lo circondano, con cui prima o poi ha direttamente o indirettamente a che fare. Non dobbiamo desistere e lasciarci risucchiare da questa corrente portatrice di tempeste che vorrebbe spazzare via l'uomo, la sua essenza e la sua dignità che lo caratterizzano come tale.
Un augurio ad Emanuela e a quanti stanno vivendo questi giorni terribili e carichi di un profondo malessere che dobbiamo pretendere sia curato .

 Pierangelo    - 12-11-2005
da Repubblica del 12.11.2005

I senza futuro di casa nostra

La luce degli incendi nelle banlieues parigine è arrivata fin qui, a rischiarare le zone d´ombra delle nostre città e i discorsi della gente. Finalmente si presta attenzione agli esclusi, a chi vive sui bordi, a chi se la passa veramente male. Non so se in Italia, come sostiene Prodi, la situazione sia altrettanto esplosiva che in Francia; anzi, sinceramente non lo credo. Ma questo non cambia di una virgola l´ordine del discorso, che si pone nei seguenti termini: la vita nelle periferie delle grandi città è inevitabilmente predisposta alla criminalità. Elenchiamo i dati, nudi e crudi. Centinaia di migliaia di giovani vivacchiano senza studiare e senza lavorare, spogliati di ogni volontà.

I quartieri dove passano i giorni e le notti sono puro squallore, cemento e cocaina, centri commerciali e miseria, nessun cinema, nessun teatro, nessuna libreria, niente; in testa da quasi vent´anni i ragazzi hanno due o tre chiodi fissi, piantati con crudeltà dalla cultura imperante: soldi, successo, divertimento. Tra loro si muovono sempre più numerosi gli immigrati, a volte operosi, e dunque meglio disposti a sobbarcarsi del poco lavoro disponibile, a volte sovreccitati dalle potenzialità offerte fintamente dal nostro mondo, e dunque sfacciati e aggressivi nella ricerca di un posticino al sole. Mescolate tutto questo, agitate, e la molotov è pronta.

I miei allievi hanno chiara solo una cosa: non vogliono ripetere la vita dei loro nonni e dei loro genitori. Un´esistenza fatta di sacrifici, mutui trentennali per la casetta, denti stretti, fatica quotidiana, chiesa la domenica e sveglia alle sei del lunedì, briciole e sangue, loro non la vogliono più. Sono cresciuti tra mille garanzie di una felicità imminente, videoclip colorati e frenetici, show e risate e immagini goduriose su ogni canale, sulla strada illuminata che deve portare a una Terra Promessa, e indietro non ci vogliono tornare. Come gli albanesi, hanno visto che oltre il tempestoso ma breve braccio di mare c´è la Cuccagna, e di sicuro non si accontentano di niente di meno. Poi passano i giorni, le settimane, i mesi, gli anni e non accade niente. La strada sotto casa è ancora piena di buche e di fango, lo spacciatore all´angolo è sempre lì, la noia e la desolazione non si spostano di un metro, e allora nella testa cresce lo sconforto. La solitudine. Oppure la rabbia.

Una ragazza mi ha detto: «Professore, ha presente il fascio di luce che d´improvviso avvolge l´ospite d´onore e lo separa dal buio? Quella chiazza bianca o gialla sul palcoscenico? Mi sono accorta che è piccola, un cerchio minimo. Tutti non ci possiamo entrare, e neanche parecchi. Lì c´è posto per pochissimi. Per gli altri c´è il buio, il niente, al massimo un posto in platea per applaudire chi ce l´ha fatta e crepare d´invidia. A me non piace stare da una parte ad applaudire gli altri. Oggi a nessuno piace. Ma non mi va nemmeno di uscire dal teatro e mettermi a battere chiodi o sudare per due lire come mio padre e mia madre. Io quella luce la voglio. Io li capisco quelli che bruciano le macchine a Parigi. Loro la luce se la fanno da soli, e il mondo li guarda, arrivano le telecamere e il buio non c´è più, non c´è più questo schifo di vita». Forse ha ragione la mia allieva, è una che sente come va il mondo meglio di tanti sociologi. Forse le cose stanno proprio così. Una macchina che brucia è già un faro, un vanto, un salto fuori dal nulla. Ormai solo il successo libera dal senso di fallimento e di morte. Il successo è la nostra corta eternità. La vita, con i suoi pesi e le sue tribolazioni, non la vuole più nessuno. E allora prepariamoci a spegnere i fuochi che abbiamo voluto accendere nella sterpaglia dell´esistenza, dopo tanti inviti ad ardere festosamente, prepariamo gli idranti.

Marco Lodoli

 Pierangelo    - 12-11-2005
e sempre su Repubblica del 12.11.2005

È parecchio strano il dibattito politico a proposito delle nostre periferie, improvvisamente scoperte per riflesso dei fuochi francesi, e definite "polveriere" oppure solo posti parecchio brutti a seconda che si voglia fare molta o poca impressione sugli astanti. Il tema in discussione è se e quando salteranno per aria, con relative accuse di essere jettatori oppure incoscienti: come se fosse un dibattito tra aruspici, o tra scommettitori, piuttosto che tra politici.

Una classe politica attendibile dovrebbe magari tralasciare di azzuffarsi sulla data della presunta sommossa di Pietralata o del Gratosoglio (tanto, poi, magari a insorgere sarà la banlieue di Voghera, a sorpresa), e lavorare, invece, sulle cose da fare per migliorare almeno un poco quei depositi di inedia e di rancore. Invece i toni allarmati, le frasi addolorate paiono coprire un vuoto di progetti e perfino di conoscenze tecniche. Di solito i ministri e i leader rispondono prontamente da Portofino o dal caffè Rosati alle domande sui suburbi degradati, ma sarebbe meglio il contrario: che non potessero rispondere alle domande, e fossero irreperibili per giornalisti e telecamere, perché stanno visitando, in incognito, magari in tram, i suburbi che non conoscono. Per farsene almeno un´idea.

Michele Serra

 Pierangelo    - 22-11-2005
riporto da Adista online

BANLIEUE GLOBALE
di JOSÉ' IGNACIO CALLEJA


Notti violente in Francia: la colpa non è della globalizzazione in sé, ma di chi la gestisce e la controlla
Il teologo José Ignacio Valleja è l'autore di questo articolo, pubblicato su "Eclesalia", sito internet di informazione religiosa (9/11/2005). Titolo originale: "Francia no es diferente".



La rivolta sociale in Francia, per quanto prevedibile, non smette di sorprenderci. Le rivolte sociali, anche quelle dei giovani, sorprendono sempre noi, gente benestante, più o meno benestante, poiché in questo ci sono gradi molto diversi. Se c’è qualcosa che caratterizza i nostri sistemi sociali democratici, è che coloro che sono soddisfatti dell’ordine sociale sono disposti a bendarsi gli occhi o a girarsi dall’altra parte prima di riconoscere lo scontento di quelli che vivono ai margini della città. Perché di questo si tratta, in primo luogo: dello scontento di una popolazione giovanile doppiamente penalizzata, dalla classe sociale e dall’origine. Sono francesi, sì, però con questa doppia difficoltà iniziale. È chiaro che non è una cosa assolutamente insuperabile, ma non è forse vero che rappresenta una inaccettabile disparità di opportunità, un macigno in una società di cittadini e di diritti?

È facile in questi casi elaborare interpretazioni dei fatti privilegiando questo o quell’aspetto della questione. Ed è ancora più facile che ogni forza politica e ideologica tenti di depistare, isolando, fino a deformarli, quegli aspetti del conflitto che più la favoriscono. Non darò conto dei pareri teorici e politici che circolano. La maggior parte di essi infatti non mi sembra sbagliata. Nelle questioni complesse, dobbiamo abituarci alla multiformità di una stessa e unica realtà. In questo caso, penso che l’elemento trasversale che le unifica è il peso decisivo e crescente che acquista la gestione neoliberista delle nostre società sviluppate, quello che conosciamo come mercato unico nel villaggio unico. La gestione, questa è la questione politica per eccellenza, la gestione neoliberista delle nostre società come conseguenza del fatto che sono nelle mani dei settori sociali, finanziari, politici e culturali che più beneficiano di questa scommessa. Cosicché la questione non è più o meno mercato, più o meno globalizzazione; ma, soprattutto, chi li gestisce, dove li dirige e come li controlla. Se le società democratiche non possono assicurare un minimo controllo sociale su tutti i loro mercati, la tirannia di questo strumento economico - non lo dimentichiamo: strumento - non potrà negare questa verità: i mercati finanziari ci governano, e i governi gestiscono le loro decisioni. Non c’è, così, altra sovranità che quella del denaro, delle sue necessità e dei suoi obiettivi.

Per questo, il dibattito se la globalizzazione sia inevitabile o no è superato. La questione è, ripeto, chi gestisce la globalizzazione e, pertanto, se sono i popoli sovrani che decidono nelle linee fondamentali quanto mercato, che Stato e che globalizzazione. Il mito dell’inevitabilità di questo modo di dirigere e organizzare il mondo, concepita come legge della storia e legge della libertà umana, è proprio questo, un mito, una ideologia politica il cui massimo merito risiede nella sua vittoria sul socialismo di Stato.

Bene, se i governi sopravvivono come ostaggi, più o meno volontari, di questo neoliberismo irresponsabile, e collocano al centro delle loro priorità la sicurezza, e se questa porta loro la benevolenza e i voti dei soddisfatti, i preparati e gli intimoriti, che speranza sociale e politica resta a quelli che vivono ai margini? È chiaro che ci sono altri fattori di crisi sociale e culturale. Certo. Non sottovaluto i fattori giovanili, culturali, religiosi, razziali che rendono molto difficile la convivenza democratica e pacifica nelle nostre società. Non sottovaluto tutto questo, però dico che stiamo consegnando al potere economico, e ai suoi lacchè politici e ideologici, il diritto di regolamentare, giuridicamente e moralmente, lo spazio pubblico.

Lo rivendicano come legge della storia, come legge naturale, del mercato e della proprietà e, come se non bastasse, ci chiedono di porre la religione, la morale privata e la scuola al servizio dei loro obiettivi di “modernizzazione e progresso”; e, cioè, di formare cittadini che si identifichino senza indugio con l’ordine sociale che naturalmente li favorisce. Non c’è mai stato un modello sociale con più possibilità e che abbia scialacquato più impunemente i suoi risultati. Le istituzioni economiche, politiche, sociali e culturali che ci proteggevano dalle peggiori incertezze, e le convinzioni condivise intorno ai diritti umani di tutti, sono messe in discussione in settori sociali, più ancora tra i giovani, che non vedono il modo di superare l’emarginazione. Sono cittadini esposti alle intemperie. Tutti noi restiamo progressivamente esposti alle intemperie, certo, ma i popoli del Sud, i gruppi sociali che sono il nostro particolare Sud, i giovani senza qualifica e risorse familiari, molte donne e anziani, sono carne da macello in questa gestione neoliberista delle società occidentali. Per questo c’è tanta paura. Paura di sapere, e da qui l’indifferenza; paura di sapere e non potere, e da qui la rassegnazione; paura di sapere, potere e sentirsi colpevoli, e da qui la difesa della meritocrazia; paura di essere vomitati dal sistema produttivo, perché così si può dire, e perdere tutto dalla sera alla mattina.

Qualcuno può sul serio meravigliarsi che gli emarginati stiano perdendo ogni speranza? Non sono migliori di noi, né sono sempre innocenti. Se stessero al posto nostro, si comporterebbero in maniera simile. Ma non ci stanno. Ci stiamo noi. E tocca a noi rettificare, sottomettere alla nostra sovranità questa gestione neoliberista del mondo per rendere possibile un’altra società più giusta in ogni luogo della terra. Spetta a tutti, ma di più a noi dare una giusta possibilità a queste società. Nessuno ce la regalerà. Richiede pressione e capacità di accordo in tutte le direzioni. Richiede visione politica e rinunce. Ma è possibile e ci sono più mezzi materiali che mai per raggiungerla. La lotta è, fondamentalmente, politica, cioè si sostanzia nella questione di essere disposti ad esigere, condividere e arrivare ad accordi, per convivere come persone e cittadini. E tutto questo non è gratis, perché a diverse possibilità corrispondono diverse responsabilità. Ma questa è un’altra questione.