I neologismi della politica
Un termine che mira a sfasciare l'Italia
di Claudio Magris
C'è una sola persona moralmente e culturalmente autorizzata a pronunciare la «
devolution» e qualche anno fa avevo anzi proposto che le fosse riconosciuto con una specifica legge il diritto esclusivo di usarla: Alberto Sordi, sovrano interprete della pagliaccesca vocazione italica a «
fare l'americano», a darsi l'aria di frequentatore del West pur abitando nel Varesotto o a Porta Portese e ad adoperare senza necessità termini anglosassoni nonostante la propria esilarante pronuncia. Purtroppo Alberto Sordi è morto e i suoi involontari imitatori hanno poco del suo genio e molto della balordaggine dei personaggi da lui creati. Non c'è infatti alcun motivo di dire «
devolution» anziché riforma federalista, così come fa ridere i polli chiamare «
governatori» i presidenti delle Regioni, quasi essi potessero, come negli Stati Uniti, concedere o negare la grazia al condannato sulla sedia elettrica.
Il termine «devolution», ripetuto con coatta iattanza, è vacuo come il «
cioè» postsessantottino; non è tanto una parola che esprima un concetto, quanto un rumore, come quelli che il corpo talora emette anche involontariamente, magari con effetti socialmente imbarazzanti; un segnale convenuto di riconoscimento fra simili, come il fischio di certi animali o quello irriferibile immortalato da una celebre canzone goliardica.
Purtroppo, in questo caso, non è in gioco una festa delle matricole o di addio al celibato, bensì il Paese, l'Italia, lo Stato, la Patria o come vogliamo chiamarlo; il suo destino e il suo futuro, la sua dignità, il senso e il peso della sua presenza nel mondo. La ributtante riforma costituzionale in cantiere, che si appresta a cancellare quel poco o tanto di buono che c'è ancora nello Stato italiano e il senso stesso dello Stato e dell'Italia, non nasce dalla doverosa e sacrosanta esigenza di decentramento.
È ovvio che la democrazia inizia ed esiste concretamente dal basso, nella realtà di istituzioni e autogoverni locali attenti alla peculiarità dei loro compiti ed è ovvio che un centralismo elefantiaco (come quello statale, spesso peraltro imitato da quello regionale, a differenza dalla più viva realtà comunale) è non solo potenzialmente livellante e illiberale, bensì anche anchilosato e inefficiente.
Ma la devoluzione-okay, devolution-non si ispira a queste esigenze concrete. Essa nasce da una regressiva negazione dell'unità del Paese e dal livoroso desiderio di distruggerla. Non a caso, sino a poco fa, veniva strombazzata - pur senza alcuna intenzione di porla in atto-la parola «
secessione», con cui si sciacquavano la bocca macchiette di provincia assai poco simili all'aristocrazia cavalleresca del vecchio Sud di Via col Vento. E secessione significa, appunto, distruggere l'unità del Paese.
A questa unità - a questo senso di più vasta appartenenza comune, pur nella creativa e amata varietà di città, territori, tradizioni, dialetti e costumi diversi-si vuol contrapporre un ringhioso micronazionalismo locale, spiritualmente strozzato dal proprio cordone ombelicale conservato sott'olio e chiuso a ogni incontro, pronto ad alzare ponti levatoi i quali offendono anzitutto il libero e schietto amore per il luogo natio, che è il piccolo angolo in cui impariamo a conoscere e ad amare il mondo. Vissuto e amato liberamente, il paese natale non è una endogamia asfittica né una sfilata folcloristica; Dante diceva che l'Arno gli aveva insegnato ad amare fortemente Firenze, ma anche a sentire che la nostra Patria è il mondo, come per i pesci il mare.
Le diversità sono il modo in cui si articola l'unità umana - come un albero nella varietà delle sue foglie, diceva Herder, scrittore illuminista e preromantico tedesco, amico e poi avversario di Goethe.
Anche la cultura esiste nella peculiarità delle sue forme ed è giusto che una Regione possa e debba curare, nell'istruzione e nelle iniziative culturali, la propria specificità,ma sempre nell'ambito di una formazione generale che interessa il Paese. La sicilianità di Verga è inscindibile dalla sua grandezza, ma non interessa un veneto meno di un siciliano; un'esclusiva competenza locale in materia scolastica che inducesse gli scolari piemontesi a ignorare Leopardi per studiare Gianduia sarebbe disastrosa anzitutto per quegli scolari.
Già oggi dilaga un concetto regressivo della particolarità culturale: ad esempio, per ottenere - nella miseria totale in cui versa l'Università-qualche minimo finanziamento che permetta di comprare qualche libro o qualche rivista indispensabile, dobbiamo inventarci, a Trieste, qualche fasulla ricerca locale. Così il (poco) denaro verrà speso non per studiare Goethe,Manno le conseguenze culturali della divisione della Germania dopo il '45, bensì per studiare qualche viaggiatore letterato tedesco che, andando a Venezia, abbia passato una notte a Trieste, dicendo magari, il mattino, «
che bella città».
Le peculiarità locali compongono, costituiscono l'unità del Paese; se la distruggono, distruggono se stesse, così come un dialetto, parlato con gioiosa e spontanea naturalezza, viene falsificato in una tonta ideologia se lo si vuol sostituire o contrapporre alla lingua nazionale.
La «devolution» mira, oggettivamente, a disfare l'Italia, al contrario del federalismo patriottico (e antinazionalista) propugnato già in anni lontani da forze risorgimentali come il Partito Repubblicano - oggi snaturato e autoridicolizzato - che miravano a un Paese unitario e articolato nelle sue preziose varietà e destinato a integrarsi, senza dissolversi, in una unitaria e variegata Europa.
La «devolution» è propugnata da partiti che costituiscono oggi la maggioranza parlamentare, benché divisi su molti problemi e soprattutto sul senso della Patria, visto che An, che organizza le marce e feste del Tricolore, governa insieme alla Lega, il cui leader ha dichiarato di volersi pulire il sedere col Tricolore. In realtà la «
devolution» non si limita a intaccare la Nazione e lo Stato, ma si propone di evirare gli organi dello Stato capaci di impedire l'abuso dei poteri, non solo locali; mina l'armoniosa vita civile di una vasta e pluralistica comunità, retta da quel sistema di separazione, controllo e contrappeso di poteri elaborato dal pensiero liberale per garantire i cittadini e le libertà.
La riforma costituzionale che la maggioranza vuole varare è un attentato al patriottismo e al buon governo. Ma il Parlamento è composto di eletti che, secondo la Costituzione, sono responsabili verso il Paese, non verso il partito o la circoscrizione in cui sono stati eletti. Si è già visto come, nella maggioranza, a proposito della «
devolution » ci siano persone cui sta più a cuore l'Italia che il proprio partito. È da sperare che parecchi avranno la dignità e il fegato di ribellarsi a questa mutilazione, di capire che essa deturpa anche il loro volto.
18 ottobre 2005
l'Unità - 20-10-2005
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La devolution passa alla Camera. L'Unione: andremo al referendum
L'Aula della Camera ha approvato la devolution, con 317 “sì” e 234 “no”. Cinque gli astenuti. Così la maggioranza ha ceduto al ricatto della Lega. La colla che ha retto in tutti questi anni, che ha tenuto la Lega dentro la Casa delle Libertà, la madre di tutte le riforme, il Santo Graal dei cavalieri “padani” è ora legge. La Camera ha votato definitivamente la “devolution”. Era la terza volta che ci provavano, ma questa volta anche l’opposizione dell’Udc è caduta.
«Questo è un momento molto difficile per il Parlamento italiano ma l'inverno finirà presto. L'incubo di questi mesi finirà. Il popolo italiano potrà tornare a guardare con fiducia all'avvenire... Il Paese tornerà ad avere un governo come merita, una Carta costituzionale rispettosa dei grandi valori e adatta ai tempi nuovi che ci stanno davanti». Così Romano Prodi, prima che il dibattito iniziasse, ha arringa gli alleati. Il presidente dei deputati della Margherita, Castagnetti dice chiaro e tondo che la partita è persa: «Il Parlamento- afferma- non è riuscito a impedire questa devastazione». Ormai, si guarda oltre: «Confidiamo nel referendum popolare». Prodi conferma: solo il popolo, a questo punto, può «correggere e bloccare» lo scempio della carta Costituzionale. «Siamo chiamati- dice il leader dell'Unione con tono solenne a triste insieme- a testimoniare la fedeltà alla nostra costituzione e al nostro paese».
L’Unione, che non è riuscita a fermare la legge, annuncia ora il ricorso al referendum. Nel centrodestra, la presenza era obbligatoria. Non si ammettevano defezioni. Proprio per questo, il presidente del Consiglio, Berlusconi, ha dato uno schiaffo al suo nuovo alleato “preferito”, quel Koizumi che da quando ha vinto praticamente da solo le elezioni in Giappone è il nuovo santino sul comodino del premier. Eppure, il cavaliere ha disdetto la sua visita ufficiale nel Sol Levante pur di essere presente nell’aula di Montecitorio. La Lega ha imposto a tutti la presenza, ventilando anche l’ipotesi, poi non veritiera, della presenza persino del leader del Carroccio, quell’Umberto Bossi che non si vede a Roma dalla crisi cardiaca dell’11 marzo scorso.
Non è servito neanche l’annuncio dell'ex segretario dell'Udc Marco Follini che si sarebbe astenuto sulla legge. «Questa riforma, combinata con la nuova legge elettorale, crea un cortocircuito, apre una contraddizione. – aveva detto l’ex segretario - Le istituzioni debbono avere un disegno unitario, sono tutt'uno. Qui invece rischiamo il bricolage, il fai-da-te». Sulla modifica della parte seconda della Costituzione, è stato però scontro nell’Udc. Bruno Tabacci aveva seguito l’ex segretario, ribadendo il suo «profondo dissenso» alle modifiche della legge costituzionale. «Fu proprio Follini a convincermi a votare la devolution», aveva risposto invece il senatore Maurizio Ronconi, seguito dal ministro dei rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi che ricordava: «La riforma in votazione oggi alla Camera, è stata fortemente voluta dall'Udc».
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ilaria ricciotti - 21-10-2005
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La devolution non è un "rumore", ma una battaglia che la maggioranza sta portando avanti fregandosene di chi disapprova, protesta e considera questo obiettivo anticostituzionale. Nonostante tutto.....essa va avanti. Approva, ora una legge, ora un'altra. Nonostante tutto... essa sembra aver fretta di aggiustare tutti i tiri che aveva in mente. Ci sta riuscendo, anche se il popolo in mille modi l'ha sempre contestata e ostacolata.
Questo modo di proporsi a suon di riprovevoli leggi e leggine, solo per soddisfare padrini e madrine, non è forse un modo becero di fare politica?
Una politica che non certo è nuova ed a passo con i tempi, ma una politica che purtroppo i nostri padri hanno già conosciuto e sperimentato sulla loro pelle.
Ricordate il numero tatuato, segno di riconoscimento di un uomo defraudato di tutto: persino della sua dignità? O di coloro che dovevano scappare, perchè dichiaravano forte i loro NO! O di quanti, privi di opinioni politiche, erano costretti, per sopravvivere, a dichiararsi dalla parte del più forte?
La storia si ripete, ma questa volta gli uomini sanno analizzare, sanno giudicare e discernere l'operato di coloro che sfacciatamente si reputano dei bravissimi politici. |