...La casa dov'è?
Emanuela Cerutti - 07-12-2000
“ Tu, che sei straniera, non puoi saperlo. Poi sei anche piccola” (Marocchino ad Albanese, anni 7) “
“Noi abitiamo nelle case del comune, ma tu non sei di qui” ( Marocchino ad Albanese, anni 9)
“ Dove abito io non mi piace, è pieno di Marocchini” ( Kosovaro, anni 10)
“ Diccelo nella tua lingua, che lo spieghiamo noi alla maestra” ( Marocchina ,10 anni, ad Indiana, 6)
“ Guarda che non puoi mangiare il prosciutto, tu. Tuo papà non te lo dice?” ( Tra arabi )
“ Davide è carino, ma io non mi fidanzerò mai con un Italiano “ (Marocchina , anni 12)
“ Io voglio stare in classe perché sono uguale agli altri. E tu che sei la maestra devi fare come dice la mamma" (Senegalese, anni 8)
“ Lui non sa parlare, io non capisco cosa dice. Perché non parla serbo?” ( Serba, anni 14, a Kosovaro, anni 12)
“ Sono venuta in Italia per approfondire gli studi” ( da Belgrado, anni 14)
“ Gli Italiani sono ladri” ( Marocchina Francese, anni 10)
“ Voglio tornare nella mia casa e chiudere la porta” ( Bosniaco, anni 9)
“ Mio papà dice che voi difendete sempre quelli lì” ( Albanese, anni 8, dopo un litigio con un compagno marocchino)
“ Lui è un ladro, perché tutti gli zingari sono ladri” ( Gruppo misto nei confronti di Rom, anni 8)

Lavorare con bambini e ragazzi stranieri e nomadi si pone inevitabilmente in una prospettiva di flessibilità, cambiamento, continua scoperta.
Le domande si inseguono, a volte senza riuscire ad aspettare la risposta precedente.
Siamo interculturali? Non è fatica sprecata? Che mondo è il loro? Chi siamo per loro? Che cosa desiderano? Riusciremo a farli star bene?
I problemi sono innegabili, anche nei piccoli centri rurali, dove l’integrazione, garantita fino a poco tempo fa dalla possibilità di casa e lavoro, traballa davanti all’incremento numerico, che modifica il colore delle piazze, e mette in crisi le risorse.
I “reciproci confini” non sono più così delineati : serpeggia l’odore del conflitto, nell’affermazione-negazione di obblighi e diritti.
La difficoltà viene descritta, a volte, come impossibilità a stabilire relazioni, o a gestire con disponibilità il proprio ruolo di “padroni di casa”.
Quest’immagine del “padrone di casa” si impone alla mente quando si assiste a dialoghi spontanei tra bambini immigrati, o si colgono frasi di sfuggita tra ragazzi più grandi ed appena sbarcati sul nuovo pianeta .
L'impressione è che corrano ad afferrare qualcosa che potrebbe improvvisamente sparire, così com'èapparso in una nebbia non familiare, una mattina tra le tante dei possibili calendari.
Porte che si chiudono, silenzi che si accumulano, difese, illusioni di sicurezza. Non facciamo così anche noi?

A conclusione un’affermazione che forse, da sola, può spiegare tante cose. E’ di A. che ricorda come la mamma lo ha preso in braccio per attraversare il fiume, mentre il papà sta sparando. Che, d’estate, torna sotto il cielo dell’Est per costruire la casa distrutta. Che ogni tanto sparisce e nessuno sa dove va.
“Essere triste non mi piace. Essere felice mi piace.”


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