breve di cronaca
Noi prof, così stressati: pochi soldi e troppo lavoro.
Il Messaggero - 15-09-2005
Per 800mila insegnanti la scuola si riapre con i mugugni di sempre.

Un viaggio tra le lamentele più diffuse e la frustrazione dilagante.

Tra gli statali sono quelli che si ammalano di più: il doppio degli impiegati, il triplo degli operai



ROMA - Suona la campanella e 800mila docenti tornano in cattedra. Tra tutti i dipendenti pubblici sono i più stressati e i più frustrati. Troppi problemi si sono abbattuti sulle loro teste negli ultimi anni. A cominciare dalla «mancata realizzazione delle aspettative professionali» che li avevano spinti a scegliere l'insegnamento. I «rapporti difficili» con gli studenti, le «classi numerose» e «il bullismo che dilaga», «i genitori incapaci di educare che scaricano responsabilità di ogni tipo, salvo contestarli alla prima occasione», sono bocconi difficili da ingoiare. Non solo. Anche il ministero scarica nuove responsabilità senza una adeguata contropartita in busta paga.
Salari "magri" e tanto lavoro. Anche «tanta burocrazia, che schiaccia le iniziative personali» e costringe ad un lavoro di équipe spesso mal sopportato. Inoltre «perdita di status», «disconoscimento del ruolo sociale» che fino a qualche anno fa erano l'unica vera gratificazione. «Oggi molti faticano a trovare motivazioni e spesso sono vittime di sindromi depressive», sostengono i sindacati. Gli insegnanti a scuola trovano gli stessi problemi che avevano lasciato. Sono 720.680 quelli di ruolo e 96.650 i supplenti. «Per tutti la scuola è sinonimo di precarietà e confusione», dicono ancora i sindacati.
Dunque, gli insegnanti tornano in cattedra pronti a lavorare con impegno, ma si trascinandosi dietro un pesante fardello. «La perdita di ruolo e il senso di isolamento - dice Marta Serangeli, docente di italiano e latino in un liceo romano - sono i mali peggiori. Non vogliamo piangerci addosso, però siamo stati dimenticati, come se non dipendesse da noi il futuro del Paese e la formazione delle nuove generazioni». «Il continuo susseguirsi di cambiamenti e riforme calate dall'alto - afferma Massimo Di Menna, Uil scuola - li ha logorati. Troppa burocrazia e adempimenti inutili in una scuola povera di risorse, che non dà prospettive di carriera».
«Gli si rimprovera di non incarnare più l'immagine dell'insegnante missionario - osserva Alessandro Ameli, coordinatore nazionale della Gilda - come se ci trovassimo nell'Italia post-unitaria, come se la visione ottocentesca della "vocazione" dovesse prevalere su tutto, anche sulla professionalità calpestata o sullo stipendio da paria». Intanto si parla di burn-out degli insegnanti. Dopo lo studio condotto da Vittorio Lodolo D'Oria, medico, rappresentante delle Casse Inpdap, e da un'équipe di medici legali di una Asl di Milano e dell'Università, anche lo Iard, una Fondazione che svolge indagini psicosociali nel mondo della didattica, ha messo in relazione frustrazioni e patologie. Ebbene, nel primo caso è venuto fuori che la frequenza di disturbi della sfera psicologica negli insegnanti era superiore a quella degli impiegati. I docenti che chiedono il riconoscimento della non idoneità per motivi psichici rispetto ad altre categorie sono il 49,2%, due volte più degli impiegati, due volte e mezzo più del personale sanitario e tre volte più degli operai. Lo Iard è giunto a risultati analoghi. Così la Cgil, che fece un'indagine per conto proprio. Anche per le richieste di pensionamento anticipato gli insegnanti sono i primi in classifica.
Preoccupato, il ministero dell'Istruzione nel luglio del 2003 incaricò alcuni consiglieri del ministro e il dottor D'Oria di redigere un piano per prevenire il burn-out e dare nuove linee di indirizzo per «attrarre, formare e trattenere i migliori insegnanti». «Finora non è cambiato nulla - sottolinea ancora Ameli, il coordinatore della Gilda - La condizione degli insegnanti non è presa in seria considerazione. Basti pensare a quest'ultimo rinnovo contrattuale, fatto senza investimenti, ma solo calcolando il recupero dell'inflazione». Anche Piero Bernocchi, leader dei Cobas, attacca la politica scolastica: «Dalle elementari alle superiori sono demotivati da anni di incuria e da stipendi da fame».


«Ci hanno tolto tutto, perfino la possibilità di bocciare»

Che cosa è successo? Perché siete demotivati e stressati?
«Gli insegnanti non sono matti, sono stanchi. Anzi, non ce la fanno più. Sapesse quanto è frequente questa frase nelle riunioni di scuola! E se non ce la facciamo più qualcuno dovrebbe interrogarsi...». Parla Serafina Gnech, 54 anni, docente di lingue in un Istituto tecnico industriale di Treviso.

Non ce la fate, qual è il problema principale?
«Sono talmente numerosi i problemi che è difficile partire dal primo. Ma una cosa è certa, si è perduto il mandato che la società dava agli insegnanti, un tempo accompagnato da un rapporto di fiducia».

Che cosa intende?
«Chi sta in cattedra ha perduto il suo ruolo, è minacciato da tutti. Anche genitori e presidi non ci pensano due volte ad attaccare l'insegnante. E noi ci sentiamo isolati. La verità è che abbiamo tanti adempimenti burocratici, stipendi lontani dall'Europa, zero carriere e nessuna considerazione sociale».

In che modo vi difendete?
«Le nostre armi sono spuntate. Non abbiamo tanti modi per contrastare questa linea. Non abbiamo più i luoghi, gli strumenti e le condizioni per esercitare il nostro ruolo. Può sembrare assurdo ma è così».

Non sarà una visione troppo pessimistica?
«Niente affatto. Vogliamo parlare dei voti? Ebbene, quando anche le scuole arrivano a sostenere che l'insuccesso degli studenti è colpa degli insegnanti che non sanno insegnare siamo alla fine. Perchè sarà pure vero che qualcuno non sa fare il proprio mestiere, ma qui siamo di fronte ad una cosa diversa, ossia alla teoria che se bocciamo l'istituto perde iscritti o si fa una cattiva fama. Insomma, se uno sostiene che un alunno è asino perché non studia, rischia una sorta di processo. E' un esempio, certo, ma rende l'idea di quanto l'insegnante abbia perso il proprio ruolo, a cominciare dalle prerogative del voto».

E gli stipendi?
«Non tocchiamo questo tasto dolente. I pochi soldi in busta paga sono il metro di giudizio, sono la prova di quanto poco il governo investa nella scuola e nei docenti che devono formare le giovani generazioni».


«Abbandonati e senza mezzi, ci hanno voluto indebolire»

Come si sente in cattedra? Quali sono i suoi problemi?
«Torniamo a scuola trovando le situazioni di sempre. Se non fosse per la passione che ci portiamo dentro scapperemmo tutti a gambe levate. Ci hanno voluti indebolire, mi sfugge la finalità, e non capisco se esista un qualche disegno. Però non mi stupirei se incuria e negligenza siano la causa dei tanti problemi mai risolti. Ne cito uno per tutti: lo stato di abbandono». Carmela Rotunno, 49 anni, docente di lettere in una media di Napoli, parla di conflittualità, precariato e indifferenza.

In una città come Napoli qual è la vera emergenza?
«Ci si chiede di affrontare anche situazioni estreme. Forse qui più che altrove, ragazzi con problemi di disagio sociale, di povertà, di emarginazione. A volte ci sono alle spalle famiglie con problemi di droga, di delinquenza. E noi? Che cosa abbiamo noi per affrontare tutto questo? Quali mezzi? Il governo taglia risorse. Si era tanto parlato di scuole di frontiera ma si è risolto tutto in una bolla di sapone».

E' vero che rispetto ad altre categorie vi ammalate di più e chiedete la pensione in anticipo?
«Certamente, perché la professione degli insegnanti è logorante, usurante, stressante. Potrei continuare con altre definizioni, purtroppo negative. Ci tengo comunque a sottolineare il fatto che gli insegnanti, pur non essendo dei missionari, fanno miracoli per coprire le carenze della scuola».

Che cosa la offende di più?
«La generale indifferenza, da parte delle famiglie e da parte, cosa mille volte più grave, dei governi che si sono succeduti e che agli insegnanti hanno fatto solo promesse».

Anna Maria Sersale

Dal sito Gildains

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 Anna Di Gennaro    - 17-09-2005
Segnalo da www.proteofaresapere.it

Burnout, psicopatie e antidoti - di Vittorio Lodolo D`Oria

Effetto serra
del 16/09/2005

Chi sta peggio? L’istituzione “scuola” o quella che nonostante tutto è considerata il nucleo fondante della società, cioè la “famiglia”? Nella migliore delle ipotesi potremmo consolarci col sempre valido detto “mal comune mezzo gaudio”. La scuola, seppure scalcinata, contestata e disprezzata, riprende ogni anno le sue attività dopo la pausa estiva; la famiglia invece – come istituzione – non va mai in vacanza ma, quando si logora, si dissolve definitivamente.
Lasciamo per un attimo la scuola – poi vi ritorneremo – e concentriamoci momentaneamente sulla famiglia. Lo spunto per alcune riflessioni ci viene dalla rubrica di un quotidiano nazionale: “L’amaca” di Michele Serra, Repubblica del 10.09.05. L’autore, partendo dall’assunto che i delitti in famiglia sono sestuplicati negli ultimi cinque anni, si domanda se la suddetta istituzione non sia “un guscio chiuso e impaurito, dentro il quale implodono e si guastano umori e rapporti, libertà e amore”. In alternativa alla famiglia in disarmo il giornalista auspica nella società “il dibattito sulle unioni civili, sulle famiglie allargate, su nuovi diritti e nuovi assetti che non discendano più dai vecchi assetti (ormai svuotati dai fatti) ma dalla dignità di ciascun individuo, poiché è anche un dibattito contro la monocratica e logora idea che la famiglia tradizionale sia la sola salvezza possibile”. Il Nostro conclude poi affermando che i sessantottini, almeno queste cose, le avevano capite già da tempo.
Ognuno è libero di pensare e scrivere ciò che pensa – ed entro certi limiti di farlo – di scegliersi il partner che crede, di scegliere la formula più congeniale per unirvisi, oppure di condividere la propria solitudine con un semplice animale (senza però pretendere di “conoscerlo” in senso biblico perchè ancora non è consentito, chissà in futuro) e su questo non ci piove. Tuttavia ciò che più suscita perplessità sta proprio nel ruolo che l’autore ha attribuito al ’68 nei confronti di scuola e famiglia. Siamo proprio certi che lo sfascio odierno delle succitate realtà sia solamente stato “profetizzato” dai lungimiranti sessantottini (piccoli oracoli secondo il giornalista) e non piuttosto ampiamente determinato dai medesimi, a fin di bene s’intende? Personalmente ritengo più fondata la proporzione per la quale gli Unni stanno all’impero romano come i sessantottini stanno alla famiglia. Su divorzio e aborto ciascuno è ancora una volta libero di pensarla come vuole – e per cosa propendevano i sessantottini è noto – ma sta di fatto che per la bistrattata famiglia si è trattato di due pietre tombali (separazione e morte è il significato italiano dei due termini) alle quali si è assommata la moda pedagogica dominante che voleva il genitore come amico e non adulto educatore del figlio.
Venendo, anzi tornando, alla scuola dobbiamo prima riconoscere che i sessantottini erano allora studenti dietro ai banchi, ed è un peccato che molti di loro, oggi docenti, non avessero saputo profetizzare i danni arrecati dall’appiattimento voluto e perpetrato con i Decreti delegati del ‘75. Certamente avrebbero potuto immaginare che col trascorrere degli anni si sarebbero trasformati in genitori ed insegnanti. Ma allora l’autorità era da contestare ad ogni costo, si trattasse di genitore o di insegnante poco importava, perché siamo tutti uguali, omologati, allo stesso livello. Oggi chi ha creduto alle balle di quella rivoluzione culturale “de noantri” - in quanto genitore o insegnante – si trova di fronte a una crisi d’identità, dalla quale può uscire solo se, dopo sincera ammenda, si riappropria del ruolo di educatore che riveste, per il bene delle future generazioni e a testa alta! Ci sarà sempre chi tenta di confondere le idee, miscelando ad arte ed in giuste dosi ciò che è bene e ciò che è male: il preparato risulterà magari gradevole al primo assaggio ma alla lunga si rivelerà letale.
Diffidiamo dunque di chi liquida istituti secolari come la famiglia e la scuola intonando il loro de profundis e proponendo soluzioni alternative che hanno uno spiacevole sapore di surrogato.
Lavoriamo alacremente invece perché scuola e famiglia rinascano, stando attenti alle nebbie artatamente generate dall’effetto serra (omen nomen dicevano i latini).

vittorio.lodolodoria@fastwebnet.it

 dall’Ordine degli Psicologi della Liguria    - 19-09-2005
Il giorno 8 ottobre 2005 si terrà il convegno “Psicologia e scuola: quale incontro?”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Liguria e dal gruppo di Studio e Ricerca “Psicologia, scuola, educazione”, che da diversi anni si riunisce presso l’Ordine degli Psicologi della Liguria.
Il convegno, che verte sul ruolo della psicologia nella scuola, è aperto agli insegnanti e agli psicologi che sono interessati a questo tema, ormai ineludibile ma di ancora incerta definizione.
Gli organizzatori dell’evento, intendono approfondire le tematiche che scaturiranno dal dibattito sul rapporto tra psicologia e scuola, proponendo una serie di incontri successivi al convegno, e che si terranno presso l’Ordine degli Psicologi.

Leggi qui il Programma