Redazione - 08-09-2005 |
Riceviamo e pubblichiamo, ringraziando il mittente Il vuoto dell'educazione Luca Doninelli dal Giornale del 6 settembre 2005 …. Siamo a quota quattro. Quattro incendi a Parigi, quattro stragi per un solo elemento: il fuoco. 11 primo fu in un infimo hotel, ad aprile. La causa: un abito finito su una candela, poi l'inferno: ventiquattro morti, tutti extracomunitari. Poi, il 26 agosto, è toccato a un edificio civile. Molti edifci parigini hanno le scale in legno. Sembra che qualcuno abbia appiccato il fuoco di proposito. Diciassette morti. molti i bambini. Tre giorni più tardi tocca a una casa occupata nel Marais. La causa: un difetto nell' impianto elettrico. Sette morti. L'ultimo incendio scoppia nel sobborgo di Hay-les-roses, i morti sono sedici. La causa: tre ragazze, o più probabilmente quattro, per scherzo hanno appiccato fuoco alle cassette delle lettere. L'hanno confessato, e la confessione fa quasi più orrore del fatto stesso: «Non volevamo incendiare la casa». A prima vista, ci sarebbero tutti gli elementi per uno di quei film di culto per appassionati del genere horror. Che ne dite di tutto questo fuoco assassino che continua ad accendersi per le cause più disparate, sempre nella stessa città? E poi. Fuoco assassino (a Parigi), acqua assassina (in America), aria assassina (visti tutti gli aerei che precipitano). Per la terra, meglio lasciar perdere. Siamo alla rivolta degli elementi. Ma questo è cinema, è fiction. Altri sono i pensieri che queste odiose coincidenze suscitano in noi. L'ultima delle quattro disgrazie parigine è la più significativa. Sono state alcune ragazze a provocarla, e non l'hanno nemmeno fatto apposta. Perché l'hanno fatto? La risposta esatta è: «Così...». L'hanno fatto così, per pura eccitazione, per fare qualcosa di diverso, in definitiva perché non esiste un vero motivo per fare una cosa piuttosto che un'altra. Non esiste, oppure non siamo più capaci di trasmettergliela. Pensiamoci bene, senza chiamarci fuori: quelle ragazze potrebbero essere le nostre figlie. Un mio grande amico, morto giovanissimo, scrisse tanti anni fa queste parole: la nostra sta diventando una cultura-preterintenzionale. Bene, possiamo dire che la metamorfosi è avvenuta. Le piccole incendiarie non sono nemmeno cattive. Sono solo ragazze «così», che hanno fatto una cosa «così». Il problema è educativo: chi, oggi, sa consegnare ai giovani una ragione, uno straccio di ragione interessante per vivere? Chi si spende fino all'ultima energia per questo scopo? Ai nostri governi, ai nostri Paesi, alle nostre società interessa qualcosa del loro futuro, dei loro giovani? Chi trasmette idee capaci di spiegare la vita, dando un vero motivo per cui valga la pena alzarsi dal letto la mattina? A quindici, sedici anni una persona minimamente sana sa che né i soldi né la carriera né il successo possono costituire un vero motivo per vivere. Meglio quasi la violenza, che stabilisce se non altro un nesso estetico, marcio ma estetico con la vita reale. Educare non vuol dire trasmettere valori astratti. Vuol dire consegnare ai ragazzi una quotidianità vivibile. La bellezza di un nuovo giorno da affrontare, il piacere di iniziare una nuova impresa, la curiosità che mette l'uomo in cerca di quello che ancora non conosce: quando parliamo di Civiltà Occidentale è di questo che parliamo. Ma perché questo esista occorrono il rischio e la libertà. Lo splendido terreno che sono i giovani deve essere dissodato, lavorato. Bisogna sudare. Questo, noi non lo capiamo più. In mancanza di una vera educazione, rimane infatti il banale istinto, e io credo che la pura istintualità sia il dato, il duro dato emergente da tante disgrazie. Un fuoco appiccato in un momento d'ira, una leggerezza, un atto di superficialità, un gioco idiota, una vendetta (che in certi popoli è molto praticata). Le scene di violenza a New Orleans lo dicono: la gente è sempre meno capace di vivere. Questa è la sfida del nostro tempo: la sfida educativa. Anche se altre necessità sembrano prioritarie, il nodo della questione sta qui. Luca Doninelli |
Anna Pizzuti - 08-09-2005 |
Ricomincia un anno scolastico, c’è da ritrovare la realtà e la prima responsabilità è nostra, è ora che cominciamo a dire agli studenti che ci troveremo davanti parole intrise di reale. “…ci troveremo davanti” chi, caro professor Mereghetti? Noi professori se ascoltiamo i ragazzi o i ragazzi, se ascoltano noi? E di quale reale dovrebbero, comunque, essere “intrise” queste parole? Quello che ci propongono le istituzioni ormai svuotate di senso? Quello con cui lottiamo tutti – chi più e chi molto, ma molto meno – per sopravvivere, in senso materiale ed in senso – se così si può dire – morale, viste le sirene che ci incantano, per rubarci la dignità? Il reale della disperazione? Del vuoto? Del gioco al massacro tra persone già massacrate da chi si arricchisce su di loro? Se è questo il reale che intende, potrei essere completamente d’accordo con lei. Con, però, un piccolo problema. Se lo facessimo, lei, io, tutti, rischieremmo di brutto: faremmo politica e questo, a scuola, non si fa, come lei ci insegna. Le sue considerazioni, professor Mereghetti mi spingono però – al di là della risposta immediata – a “sistemare” alcuni pensieri disordinati di questi giorni. Avevo appena terminato di leggere “Il sopravvissuto” di Antonio Scurati, quando ho appreso dell’incendio del palazzo di Parigi. Il collegamento, per contrasto, oltre che per analogia, come cercherò di spiegare, tra il gesto che dà origine al romanzo (la strage di tutti i professori di una classe di liceo, tranne uno, da parte di un alunno) e “il gioco finito male” delle tre ragazze è stato immediato. Non mi interessa qui entrare nel merito della significatività o meno del romanzo, della sua verosimiglianza o dello stile dell’autore. O delle intenzioni che hanno mosso l’autore. Tralascio anche la domanda che mi sono posta fin dall’inizio, se cioè è veramente la scuola il tema principale dell’opera. Estraggo solo un elemento del meccanismo narrativo, quello che dovrebbe essere il più importante, cioè la spiegazione, il “dunque è andata così”. Rileggendo il suo diario, il sopravvissuto scopre che Vitaliano, il ragazzo protagonista del racconto, potrebbe essere diventato omicida per disperazione, dopo l’elenco dei genocidi del ventesimo secolo che il professore snocciola durante un’ ultima, raffazzonata, lezione. “Stando al mio insegnamento, il XX secolo si sarebbe chiuso sulla strage come sulla sua ultima parola. Per il mio giovane allievo, il XXI si annunciava, quindi, all’insegna del massacro”. Nonostante la drammaticità della situazione, arrivata a questo punto ho quasi sorriso. Paradossale la violenza, paradossale – per quanto riferita al dramma della storia - la motivazione. Sembra quasi di capire – ed è forse questo che vuole l’autore - che Vitaliano si è dimostrato, con il suo gesto, il migliore degli alunni, quello che, saltando tutti i passaggi, arriva al “cuore di tenebra” della conoscenza. Al di là dell’angoscia che, nonostante tutto, il romanzo comunica, risulta impossibile non porsi la domanda su che fine faccia, nella realtà degli alunni, quello che noi insegniamo nella realtà della scuola. Quanto e di cosa siamo, veramente, “maestri”. Soprattutto quando ci sembra che le nostre parole, ma anche i gesti, le intenzioni, scivolino nell’indifferenza generale: nostra, non solo dei ragazzi. E allora: chi è veramente un buon maestro? Quello che mostra il male del mondo, la sua crudeltà, o quello che cerca di difenderne gli alunni e se stesso, raccontando la realtà come dovrebbe – e potrebbe - essere e non come è o non è stata? Una domanda che mi pongo ancora, dopo tanti anni. “Mi avete insegnato la giustizia, ma fuori ho trovato la legge.” Così Sabrina, pochi mesi dopo il diploma, fatta l’esperienza di quella che Mereghetti chiama realtà. Per contrasto, più che per analogia, dicevo, il collegamento tra la violenza immaginata da uno scrittore e quella messa in pratica dalle ragazze. Certo la tremenda sproporzione tra i motivi e gli effetti dei due gesti, può avvicinare le due vicende, ma le domande che scaturiscono dalla seconda, quella reale, sono diverse. “Lo abbiamo fatto per gioco”, pare abbiano dichiarato appena arrestate. “Uno scherzo, una piccola vendetta finita male” hanno poi sostenuto, con uno slittamento solo apparente della significatività della giustificazione. Non è tanto sulla funzione della scuola o sugli effetti di un degrado sociale – forse anche ipotetico, in questo caso - che mi ritrovo, infatti, ad interrogarmi, quanto sulla stupidità. Un male che potrebbe sembrare minore, di fronte agli altri, ma che a me sembra attraversarli tutti e renderli ancora più osceni. |